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Il bagno di domani

di Francesco De Luca
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Ora c’è il sole. Questo di settembre è meno assillante. In canoa però l’arsura si combatte facilmente: accosto alla riva e mi butto in acqua. E’ facile. No… è facile dirlo, perché realizzarlo, alla mia età, presenta difficoltà. L’ho anticipato già nell’altro articolo… i movimenti scattanti sono difficili da eseguire. E’ come se la molla interna sia inceppata. E poi… ogni gesto va prima pensato. Sembra una banalità… no anzi… è una idiozia perché l’operazione pensiero-azione si effettua in modo automatico. Beh… questo accadeva prima… oggi, con l’età, il pensiero si sofferma sul movimento che si andrà ad eseguire, ne valuta lo sforzo e l’esito. Insomma lo rallenta, lo frena, lo svilisce. E’ per questo che il corpo non più giovane è più pesante.

Quell’attimo in più di riflessione dona più gusto a quanto si esegue. Dell’acqua si assapora l’eternità. Il mare c’è da sempre. E’ sempre lo stesso mare, che muta, con noi e senza. Si muove di continuo e lambisce quelle rocce che oggi sorridono allo sciacquìo, e in inverno strepitano alle sue bordate cieche, impetuose. E… dove vanno quei granchietti che oggi si adunano in una pozza e mordicchiano quella patella che ho messo lì apposta per vederne gli effetti?
Alzo gli occhi. La parete viene giù dal colle chiamato Belvedere.

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Sul pianoro oggi si erge l’osservatorio edificato per diletto nell’Ottocento dal commendator D’Ambrosio, per scrutare la distesa del mare a nord e a sud del promontorio, sotto del quale si apre il Porto.

Lo avevano fatto già i Saraceni allorché infestavano le acque del Tirreno per depredare e infastidire i sovrani degli Stati costieri. Ogni cala per le piccole galee saracene era un nascondiglio, ogni riparo fra le rocce a mare insidiava le navi cristiane che trafficavano fra le sponde del Mediterraneo e creavano avamposti militari a salvaguardia dei mercati.

Dragut, celebre corsaro musulmano (1485 – 1565) gridava comandi ai suoi affinché fossero accorti nello scorgere vele nemiche. Lo faceva su quel pianoro, mentre bivaccava sicuro coi suoi, nelle grotte di quel colle, che dallo stazionamento dei Mori (Saraceni, Turchi) prese nome ‘monte saraceno’, diventato poi, nel dialetto ‘monte mangiaracino ’.

Mi si apre davanti, nuotando, una grotticina. Nel fondo c’è un accenno di spiaggia ciottolosa. Esco… e sulla parete mi cattura la sagoma rosso acceso di un pomodoro di mare (Actinia equina). In quell’anfratto semibuio illumina come una brace. Lo sfioro per sentirne la superficie vellutata sotto i polpastrelli. Lo ricorderò nel prossimo inverno quando da questo cavo echeggeranno rantoli di fragore del mare frenato nel suo galoppo.

Gli isolani sanno cosa è lo scoramento che attanaglia nei giorni quando l’isola si rivela la tana dove compattare il corpo, la mente e il cuore.

La mia isola tuona parole in inverno
quando gli animi infiacchiscono
al timore di ritrovarsi soli col vicino.

E’ allora che i flutti ribollono
maledizioni alla codarda
umana cattiveria

E’ la sfida insita nell’isola, è il coraggio d’essere isolani.
Domani mi aspetta una gratificante gita. Ma ci andrò domani?

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