di Sandro Russo
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Mi fa piacere constatare che un argomento “distante e fuori tema” come l’Afghanistan, proposto per la prima volta sul sito – leggi qui -, abbia raccolto, specie nella autorevole trattazione di Emilio Iodice tanti accessi e commenti. Segno che tanto lontano dal sentire ponzese poi non è.
Sarà anche che i media martellano tanto su questo, negli ultimi giorni, che la pandemia sembra passata in seconda linea – e così non è – e il parere dell’esperto di fatti afgani ha preso, con sollievo di molti, il posto del virologo/epidemiologo di turno.
Ho avuto a che fare con l’Afghanistan negli ultimi vent’anni, nel modo che dirò.
Non per conoscenza diretta. Nei miei viaggi ci ho sempre girato intorno, arrivando fino alla Turchia (verso occidente) e fino all’India e alla Cina, con le due tre facce, Hong Kong, Cina continentale e Taiwan (verso oriente). I riferimenti geografici e alla situazione attuale – nella mappa della situazione geopolitica globale (vedi sotto).
Il mio interesse partiva dalla tossicologia, per essere al tempo l’Afghanistan il paese di provenienza di circa il 90 % dell’oppio dei mercati mondiali. Il papavero da oppio (Papaver somniferum) è la fonte principale dei derivati oppiacei, sia per uso farmacologico (morfina e derivati) sia come droga d’abuso (eroina e congeneri). La sintesi chimica è anche possibile, ma molto meno economica rispetto al prodotto naturale.
Quindi una ventina d’anni fa, come Centro antiveleni dell’Università La Sapienza di Roma, insieme all’Osservatorio Tossicologico dell’Istituto Superiore di Sanità e alla sezione dedicata del Ministero degli Interni, seguivamo i flussi e le vie della droga verso l’Italia, il grado di purezza e altri aspetti criminosi (noi per la parte scientifica, ovviamente).
“National Geographic”, febbraio 2011 – Vol. 27 n° 2; edizione italiana
Opium, di Pierre-Arnaud Chouvy (Opium: Uncovering the Politics of the Poppy); un libro importante, all’epoca in cui uscì (2010)
A quel tempo approfondi diversi aspetti della produzione degli oppiacei; seguivo le notizie che venivano dall’Afghanistan e conoscevo abbastanza del mondo dei Signori della Droga e dei loro metodi. Campi sterminati di papaveri; impiego di manodopera a basso costo, guadagni immensi per pochi.
La criminalità organizzata e le interferenze politiche avevano (e hanno) un ruolo importante in un campo – quello della produzione della droga principe, forse oggi messa in discussione dalla diffusione della cocaina – dai profitti altissimi. Ben presto i campi hanno dovuto essere difesi con le armi…
Né sono mancati i risvolti ideologici, nella produzione dell’oppio: all’inizio del primo periodo dell’avvento al potere dei Taliban -“ṭālebān“, plurale di ṭāleb, ossia “studente/studenti”; 2001 – i campi furono distrutti come opera del demonio, salvo ravvedersi qualche tempo dopo, data la centralità delle coltivazioni nella economia afghana (cfr. anche la foto di copertina del National Geographics).
Bandiera dei talebani usata tra il 1997 e il 2001; riutilizzata nel 2021
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Non sembri ininfluente, ma un altro aspetto – forse incongruo (e inconciliabile) con quello professionale -, per cui posso dire di conoscere l’Afghanistan, è attraverso la descrizione antropologica di uno scrittore: Frank Herbert del ciclo di Dune che si è appunto ispirato per i suoi mujaheddin ai costumi di un popolo abituato alle privazioni e alla scarsità d’acqua. E’ una serie di libri di cui i primi tre sono fondamentali per ogni lettore di fantascienza. Ne è stato tratto un film nel 1984 (di David Linch) e (dopo un tentativo abortito di Jodorowski di cui rimane un documentario del 2013) è in uscita un remake di Gilles Villeneuve (quello di Arrival) proprio in questi giorni presentato (addirittura in apertura) alla Mostra del Cinema di Venezia.
L’edizione italiana del primo libro, fondamentale libro di Dune di Frank Herbert (1965). Vincitore del premio Nebula e del premio Hugo, i massimi riconoscimenti della narrativa di fantascienza
Warning! Un approfondimento su Dune – numerosi romanzi, vari film e serie tv – è in preparazione – NdA
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Attualità
Negli anni ho continuato a seguire le vicende dell’Afghanistan, che ha patito prima una occupazione russa, poi quella americana, negli ultimi 20 anni, in seguito all’attentato di New York alle Torri Gemelle.
Un articolo segnalato da Vincenzo Ambrosino dall’Huffington Post fa un excursus storico delle vicende di quel paese ammonendo chiunque di starne alla larga:
Una regola aurea della storia: non invadere l’Afghanisthan
In un articolo complessivo sulla situazione geo-politica dopo i recenti rivolgimenti in Afghanistan, è riportata la sintesi schematica sottostante:
Immagine da la Repubblica del 19 agosto, pp. 8-9, a corredo di un articolo “globale” di Lucio Caracciolo: “Vincitori e vinti. Il nuovo Grande Gioco per il cuore di Kabul” (cliccare per ingrandire)
E veniamo all’occupazione americana degli ultimi 20 anni e alla loro precipitosa ritirata, su cui punta il dito, già nel titolo, un fondo di Bernard-Henry Levy su la Repubblica di martedì 17 agosto: “Una macchia nella storia dell’Occidente”, scrive una sorta di epitaffio agli Stati Uniti come grande potenza mondiale.
Levy, intellettuale francese impegnato sull’Afghanistan è in contatto con la resistenza afghana al regime talibano, condotta dalla regione del Panshir dal giovane Ahmad Massud, figlio del leggendario comandante Massud (detto il Leone del Panshir ucciso in un attentato suicida il 9 settembre 2001, due giorni prima dell’attentato alle Torri gemelle)
Anche Ezio Mauro su la Repubblica di mercoledì 18 agosto in un articolo dal titolo: “Il dilemma dell’Occidente”, scrive degli Stati Uniti in questi termini: “i perdenti siamo noi (l’Occidente intero – ndr), nonostante gli alibi postumi che provano a scaricare l’intero peso della débâcle sulle due diverse debolezze di Trump e di Biden, oggi congiunte in un unico spettacolare appannamento della leadership statunitense e in una sequenza di errori, nell’inseguimento del nuovo Dio sconosciuto d’America: il ceto medio riluttante a dirottare sforzi, uomini e risorse fuori dai confini del Paese e capace di tenere in ostaggio non solo la politica estera Usa, ma il ruolo stesso della Superpotenza piegata su se stessa.
E conclude:
“È qui, esattamente qui, che sperimentiamo la coscienza del limite democratico, come se da Kabul le ragioni della democrazia che volevamo esportare ci venissero restituiti sotto forma di bestemmia finale: l’universale democratico in cui voi credete vale soltanto alle vostre latitudini, non alle nostre.
È evidente che non possiamo accettare questo ridimensionamento: stiamo parlando di uguaglianza, libertà, parità, legalità, giustizia, in una parola della democrazia dei diritti e della democrazia delle istituzioni, l’anima permanente della civiltà occidentale, oltre i destini contingenti degli imperi. Forse la strada è quella di essere coerenti con questi principii, per essere credibili quando parliamo di democrazia. Cominciando oggi da Kabul, proteggendo e portando in salvo quella minoranza che ha creduto in ciò che predicavamo, prime fra tutte le donne liberate dalla servitù dei costumi tribali dal contagio occidentale, e oggi a rischio di essere nuovamente schiavizzate dalla violenza talebana di ritorno. Sono loro la prima contraddizione del nuovo regime: e insieme l’ultima contraddizione dell’Occidente in fuga”.
Infine, da orizzonti più casalinghi, Francesco Merlo, (il catanese antipatico, come lo chiama Tano, duro e diretto anche se spesso urticante) analizza le reazioni dell’opinione pubblica nostrana (di destra ma anche si sinistra ) alle notizie che giungono dall’Afghanistan: “Sedotti dai mullah arrivano gli italiban di destra e di sinistra” e conia in neologismo “Italibani”, in questi termini irridenti e sarcastici:
“Già venti anni fa questi nostri italiban si inventarono che a organizzare o forse solo ad appoggiare l’attentato alle Twin Towers erano stati “i servizi segreti occidentali insieme all’intelligence pakistana e saudita”. Ebbene oggi questi stessi italiban, invecchiati ma ringiovaniti dalla ritirata delle “tigri di carta” dall’Afghanistan, di nuovo dicono e scrivono che i tagliagole islamisti non opprimono, sgozzano e terrorizzano il popolo afgano, ma “sono” loro il popolo afgano perché governano con il consenso e non con la paura”.
(…) “E invece i pacifisti assoluti, quelli che come venti anni fa dicono di non stare né con l’Impero né con i terroristi, sono, come già li chiamammo allora, i signori Né-Né , che è il modo più subdolo di stare con i talebani. E forse è davvero la via italiana al falso pacifismo: né con lo Stato né con le Br frenò lo sdegno contro i brigatisti; né con il fascismo né con l’antifascismo è ancora oggi una pozzanghera ideologica dove si nasconde il fascismo; e Salvini e Grillo dicono di non essere né di destra né di sinistra perché sono di destra … Allo stesso modo in una guerra che ci coinvolge tutti, è solo un trucco ipocrita degli italiban questo stare né di qua né di là e scegliere di non scegliere come i pacifisti che nel ‘39 gridavano nelle strade di Parigi di non volere morire per Danzica e si sa come andò a finire”.
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Chiudo con delle foto che hanno polarizzato i social nella giornata di ieri, accompagnate da questa didascalia:
Sono opere di un’artista afgana, si chiama Shamsia Hassani[artista afghana, graffitista e professoressa di scultura all’Università di Kabul – ndr]. Se le facciamo girare, sarà come dare voce a lei ed a tutte le donne afghane, che stanno vivendo l’inferno! Grazie
Appendice del 21 agosto, h. 23 (crf. Commento di Sandro Russo)
In effetti mentre ieri sera e stamattina mettevo insieme il mio collage sull’Afghanistan, mi sono chiesto per un attimo cosa ne pensassero i musulmani – la maggior parte dei musulmani in definitiva, positivi, gentili e rispettosi delle leggi tra cui annovero belle amicizie – ma è stato il pensiero di un momento: poi mi è sfuggito.
Me l’ha ricordato questo bell’articolo di Tahar Ben Jelloun, scrittore, poeta e saggista marocchino, principalmente noto per i suoi scritti sull’immigrazione e il razzismo.
Da la Repubblica di oggi
Lo allego alle altre voci dell’articolo, come testo in chiaro, annesso all’articolo di base
Commenti. Su Kabul
Il silenzio dei musulmani
di Tahar Ben Jelloun – da la Repubblica del 21/8/2021
Un silenzio assordante dei paesi musulmani ha accolto la vittoria dei talebani in Afghanistan.
Indifferenza o semplice passività, o una vecchia abitudine a non dire né fare nulla quando l’Islam viene usato per un compito indegno dei suoi valori?
Il Qatar, che ha aiutato i talebani, si comporta come se non avesse nulla a che fare con loro. Non una parola. Né l’Arabia Saudita ha fatto alcun commento. Eppure c’è molto da dire sul modo in cui l’Islam viene deviato per diventare bandiera e ideologia del terrorismo.
Perché i popoli musulmani non reagiscono a questa orribile deviazione della loro religione? Perché un’istituzione come Al Azhar, al Cairo, non si esprime con fermezza e senza ambiguità contro queste bande di distruttori dell’Islam? Perché assistiamo al trionfo dell’orrore in Afghanistan come in alcuni Paesi africani, senza muoverci, senza gridare, senza manifestare il rifiuto di questa barbarie?
Boko Haram significa “libro proibito”. Talebani significa “studenti”. Sia il primo che i secondi si incontrano nel tunnel dell’oscurantismo. Entrambi i fenomeni sono segnati dall’odio per i libri e la cultura.
Dall’odio e l’asservimento della donna.
Da molto tempo l’Islam è usato da dei criminali come ideologia e bandiera di un nuovo ordine, quello della sottomissione e della schiavitù dei bambini e delle donne. Inutile ricordare che niente di tutto questo esiste nell’Islam.
I testi, letti con intelligenza, scagionano l’Islam da questi atti di violenza. Ma è necessario mobilitarsi ovunque nel mondo musulmano per rifiutare gli abusi.
In Nigeria, Boko Haram rapisce giovani liceali per indurre i genitori a non mandare più le figlie a scuola. I talebani fanno traffico di droga per comprare armi e conquistare un Paese. L’11 marzo 2001, il patrimonio culturale mondiale subì un danno irreparabile con la distruzione delle monumentali statue di Buddha a Bamiyan. Il mondo musulmano, contrariamente al mondo occidentale, non reagì.
Vent’anni dopo, gli insorti si sono impadroniti delle principali città senza dover combattere. Kabul si è arresa. Il presidente del Paese è fuggito all’estero.
L’esercito regolare afghano è così corrotto che non ha opposto resistenza. Ha consegnato il Paese a una banda di uomini armati fino ai denti, pronti a imporre le proprie regole sul funzionamento di una società in cui le donne sono considerate schiave.
Un abitante di Baghlan (una provincia del Nord) racconta: «Tutte le forze governative sono fuggite subito dopo l’arrivo dei talebani senza resistenza».
Le donne fuggono prima che arrivino i talebani. Sanno che saranno violentate o costrette a sposare uno dei capi. Una giovane afghana ha detto all’ Afp che «piange giorno e notte nel vedere i talebani costringere le ragazze a sposare i combattenti». Piange perché sa cosa l’aspetta se cade nelle mani di questi individui.
Per ordine di Joe Biden, gli americani, dopo vent’anni di presenza, si sono ritirati da questo pantano. Ci si chiede perché si siano imbarcati in questa avventura. I vari leader non hanno tratto alcuna lezione dalla sconfitta in Vietnam.
Certo, c’è stato prima l’intervento sovietico, poi la lotta contro il comunismo e l’ateismo dell’Arabia Saudita e infine l’arrivo degli americani con l’intenzione di addestrare l’esercito afghano per difendere il Paese dalla barbarie.
Un fallimento su tutti i fronti. La guerriglia urbana ha più risorse della guerra convenzionale. E così l’Afghanistan diventerà il centro del terrorismo su scala globale.
Gli europei temono un afflusso massiccio di rifugiati afghani. L’Iran ha già accolto 3,5 milioni di afghani in fuga e il Pakistan 1,4 milioni. Gli europei sono pronti a dare soldi a questi due Paesi perché accettino altri rifugiati. La paura di vedere arrivare sul suolo europeo delle famiglie afghane è reale. L’asilo politico per questi milioni di rifugiati non funziona più.
Il mondo ha assistito al crollo di un esercito e di uno Stato in pochi giorni. Si dice che alcuni governatori abbiano negoziato con gli insorti per fuggire, lasciando le città aperte ai talebani. Il male viene da lontano. La corruzione e la mancanza di legittimità dei governanti hanno contribuito alla rapida vittoria dei talebani.
Il silenzio del mondo musulmano ha sorpreso tutti. Un Paese, una società, sono caduti nelle mani di persone che non sanno nulla dell’Islam e della sua filosofia. La vittoria dei talebani è il trionfo dell’oscurantismo religioso, la sottomissione delle donne e la fine della cultura. E tutto questo viene imposto a un popolo in nome dell’Islam.
[Da La Repubblica del 21/8/2021 – traduzione di Luis E. Moriones]
Sandro Russo
21 Agosto 2021 at 23:02
In effetti mentre ieri sera e stamattina mettevo insieme il mio collage sull’Afghanistan, mi sono chiesto per un attimo cosa ne pensassero i musulmani – la maggior parte dei musulmani in definitiva, positivi, gentili e rispettosi delle leggi tra cui annovero belle amicizie – ma è stato il pensiero di un momento: poi mi è sfuggito.
Me l’ha ricordato questo bell’articolo di Tahar Ben Jelloun, scrittore, poeta e saggista marocchino, principalmente noto per i suoi scritti sull’immigrazione e il razzismo.
Da la Repubblica di oggi
Lo allego alle altre voci della trattazione, come testo in chiaro, annesso all’articolo di base.
Annalisa Gaudenzi
23 Agosto 2021 at 13:22
Il femminile in Afghanistan è in pericolo. Grave. Come aiutarlo?