- Ponza Racconta - https://www.ponzaracconta.it -

I ponzesi visti da… (9) Ernesto Mellina

di Giuseppe Mazzella

 

Ponza, agosto alla metà degli anni Cinquanta. Ernesto Mellina, scrittore palermitano, sbarca a Ponza. “Critico letterario, si ferma volentieri a descrivere paesaggi con l’occhio della persona cui piace fermare le immagini in una prosa d’arte limpida e scorrevole”, recita la fustella del suo volume  “Fascino del Sud”, da cui sono tratti i brani dedicati alla nostra isola.

[1]

La sua breve permanenza è entusiasmante. L’isola è silenziosa. Pochi ancora i turisti. Le gite via mare si fanno ancora a remi. La gente è semplice, ovunque pace.

Mellina parla solo di due persone, Silverio il robusto settantenne, già emigrante in Sud America, orgoglioso padrone dell’”Albatros” e il nipotino omonimo, vispissimo, dallo sguardo sorridente che si eccita dopo aver pescato un sauro ed aver ricevuto in dono una moneta dall’ospite che traghettano.

E poi Le Forna, la miniera di “benzonite”, l’incontro causale con un vecchio che si esalta al ricordo di quando si arrampicava tutto d’un fiato sulla collina su una strada irta e sassosa, e che si concede dopo l’autocomplimento “una presina di tabacco”.

Ci viene istintivamente di domandarci: questa era Ponza solo negli anni Cinquanta? Ed è ancora possibile recuperare il ricordo e la storia del capobarca? E magari identificare il nipotino che è sicuramente ancora vivo?    

[2]


Ponza, isola di Roma

In costume quasi adamitico, la pelle al sole, si va a costeggiare la scogliera di Mezzogiorno. Radenti i raggi, impediscono la veduta del fondo su cui l’acqua si culla viva e trèpida come erba di prato.

Il naso camuso, le orecchie a sventola, il barcaiolo voga col vigore dei vent’anni per quanto ne abbia settanta. Alza a tratti gli occhi e fissa le balze rade di vegetazione, color di rùggine.

Da giovane — prende a dire — navigai con la Marina da Guerra in Grecia e in Turchia imbarcato sulla «Roma» con Umberto Cagni, l’eroe «dei più vasti geli e delle più vaste sabbie». Rievocando la figura dell’Ammiraglio — quello che D’Annunzio esalta nel libro di Mèrope — il suo volto si trasfigura, i baffi ispidi, la dentatura a fenestrelle. Rema e chiacchiera simultaneamente, senza l’ombra del sopraffiato.

Tra evanescenti penombre, a «Grotta di Pilato» vediamo un’enorme vasca nella quale in gran numero venivano allevate murene per l’imperatore Augusto. L’onda gorgoglia entro la roccia, suscitando echi nei camminamenti somiglianti a quelli che risuonano in una grande conchiglia. Percossa dal remo, l’acqua brilla a cerchi concentrici. Non vi sono murene, né vive né morte, ciò non ostante il luogo nulla ha perduto del suo fascino, anche perché la grotta riecheggia fantastiche leggende di Corsari.

[3]

L’aria mite e l’acqua cerulea invitano al bagno nel sòffice fondale carico di alghe. Bagno di vento, bagno di luce, bagno nell’onda che s’increspa. Il corpo galleggia nell’acqua e l’anima nell’infinito, preda di un’inesprimibile gioia di vivere.

Dirimpetto al «Faraglione della Madonna» e a «Il calzone del Muto», tetragoni ai marosi, a duecento metri sul mare, «Bellavista» fronteggia l’arcipelaghetto de «Le Formiche» con casette bianche e gialle aggrappate alla roccia. A tiro di schioppo, sulla Riviera di Ponente, è «Chiaia di Luna», dardeggiata dal sole che monta allo Zenith. Come per un incendio, sole e cielo ardono dentro di noi e c’involano ad altezze sublimi.

[4]

Pesca miracolosa con l’«Albatros», filettato di rosso. Raggiante e come ringiovanito, Silverio gitta la rete, scoprendo il torso villoso e la dentatura a finestrelle. Appena pescati, cèfali, merluzzi, sàraghe guizzano nel cavo della barca, tentando di sfuggire alla cattura, ma Silverio li trattiene con una mano, reggendo con l’altra il remo, l’occhio alla rotta, il cuore paziente.

La vita si vive o si scrive, avverte Pirandello. Silverio potrebbe scrivere la vita che ha vissuto, se sapesse di lettere.

Emigrato a Rio della Plata e a Rio delle Amazzoni — racconta — feci conoscenza coi grandi fiumi d’America. Li navigai in lungo e in largo e ne dissodai le foreste infestate dalle zanzàre, guardando in faccia al pericolo. Senza aver studiato, conosco gli astri e il regime dei venti: il Maestrale, il Libeccio, il Grecale e lo Scirocco. Chiamo i pesci per nome e so trovarli nei loro nascondigli. So comandare un brigantino benché non ne abbia mai posseduto uno. Unica mia proprietà è l’«Albatros», che guizza in mare come un uccellaccio acquatico. Ascoltando il suo discorso, ci viene in mente un detto di Confucio: «Prudente egli ama il mare; prudente è svelto nell’azione; la prudenza fa l’uomo felice».

Pesca subacquea a «Chiaia di Luna» con gli sportivi venuti da Roma. Sono sbarcati con maschere, pinne e fucili e pescano in un invitante mare tranquillo. Infilzano ogni sorta di pesci e levano pòlipi che tentano di liberarsi dalle grinfie della morte.

Il nipotino del barcaiolo, Silverio pure lui in omaggio del Santo Patrono, pesca un bel sauro. L’allegria è indescrivibile. Appeso alla lenza, il sauro si dimena lucido al sole, disperatamente. Mettiamo nelle mani di Silverio una moneta. Come ipnotizzato, egli la volta e la rivolta senza credere ai propri occhi; quindi movendo le mascelle come se leccasse una marmellata, dice: grazie! Un grazie grande come la barca, pregustando certo il piacere di mostrarla alla nonna. Nulla egli nasconde alla nonna! che lo aspetta alla casa del nespolo.

Il cappello gualcito, la canna da pesca in mano, un pescatore su uno scoglio guarda e saluta alla voce: —Ciao, Silverio! Ciao, Marco! — Abbronzato dal sole e dal salino, egli non è diverso da «Il Pescatore» del Gèmito.

[5]

Un invidiabile panorama, pieno di disordine mèssovi dal caso e che nessuno si attenterebbe di riordinare, si vede sui monti che ci sovrastano. Rocce brulle fra balze drammatiche; fichi d’India e folti canneti. Scalette salgono, scalette scendono in mezzo ad archi-volti, cortiletti e stradine tortuose; case in bilico e case incastrate nella viva pietra. Uno spartito insomma scritto con sporgenze e rientranze, macchiata qua e là di giallo e di verde, con spunti di roccia e scorci di bicocche tinte di rosa. Un complesso, che non è accessorio, ma essenziale all’originalità del panorama.

Ponza è stata sempre un nome nel Tirreno; oggi è meglio conosciuta quale l’Isola della deportazione di Mussolini. Ma essa non è solamente un punto nella carta geografica: ricca di spiagge e di faraglioni, da cui pendono rose marine, è un punto d’incontro della vita di Roma.

* * *

Di buon’ora si parte per «Le Forna». Ponza, Santa Maria, Miniera, Le Forna, Campo d’Incenso.

Su un’ottima strada, l’auto serpeggia di fronte a uno scenario continuamente in movimento. Sembra di essere a Taormina dove le inquadrature si susseguono con tale dinamismo che è impossibile prenderle tutte e fissarle con esattezza. Un cocuzzolo appare un altro scompare; una veduta di mare e subito un’altra veduta più bella, tanto che si perde la… bùssola e non ci si stanca di dire: bello! bello!

Davanti a una visione di colline rincorrertisi a capriccio e coltivate a vite, con vivacità tutta francese, una fanciulla esclama nella lingua «d’ouil»: «charmant!».

[6]

Gèmmeo candore di case illuminate nella cornice d’un cielo turchese, è «Le Forna». Le case si arrampicano ingrappolate verso un pianoro che avanza sul mare. — «Piana d’Incenso?» — Lassù, lassù — indica un vecchietto con gli occhi ammiccanti dietro un paio di occhiali massicci. — Ai miei tempi, quella strada, la facevo d’un fiato. — Detto ciò fiuta una presina di tabacco e asciuga il naso con un fazzoletto a colori.

Con solai moreschi, a mò di botte o a crociera, le case si arrampicano come un gregge. Gli spazi dei fabbricati sono irti di àgavi e di piante di lenticchie, e dai muri pendono bianchi e rossi fiori di capperi non grandi di quelli del mandarino. Arabi e saraceni debbono avere insegnato qualche cosa a questa gente venuta dal Continente. Ne fanno fede le costruzioni squadrate a marabutto e la loro bianchezza di barracano. Vivaci e intelligenti, gli arabi ànno insegnato le cifre arabiche, il gioco degli scacchi e l’uso degli almanacchi, finché, sminuiti di potenza, non furono cacciati da Federico Imperatore, Re di Sicilia.

Con l’«Albatros», Silverio viene a prenderci alla costa di Mezzanotte, da noi raggiunta a piedi dalla Miniera di Benzonite (1). E’ questo il punto più stretto dell’Isola come a Catanzaro la Penisola fra il Tirreno e l’Ionio. La Miniera? Un ingegnere e centodieci minatori che estraggono un’essenza argillosa che serve come decolorante nell’industria del petrolio e connettivo nella lavorazione delle terre da fonderia.

[7]

Passando dal «Faraglione di Ràvia», il sole sfòlgora sulle nostre teste. Aliti di muschio e di corallina vèllicano le nari, palpita nell’aria non sappiamo quale musica misteriosa. Silverio spiega che il faraglione apparteneva al nonno ed è rimasto indiviso per disaccordo tra gli eredi. Disaccordo — pensate! — per un impervio torrione sul quale non cresce neppure un filo d’erba.

Con l’«Albatros», rasentiamo «il Cuore». Vi sovviene di «Pènsèes» del Pascal e del «De Profundis» di Oscar Wilde? Bene: quell’umile scoglio, a forma di cuore grondante una schiuma come di sangue, non potrebbe rappresentare con più efficacia l’afflizione del loro dolore lancinante. Oltrepassata «Punta Bianca», si entra nel «Faraglione della Grotta». Il mare vi sciacqua dentro carezzoso, cincischiandone le pareti tappezzate di boraccina. Attraversandolo, Silverio si destreggia. — Bravo! Bravo! — si grida in coro mentre egli non cape nella pelle per la soddisfazione. Sbucando dalla parte opposta, le rocce ardono al sole; qualche capra s’inerpica per l’erta sassosa; le cicale assordano il cielo che sfavilla d’oro. Nel balenare di riflessi, è dolce guardare il verdazzurro dei fondali e riposare.

Al «Lido di Frontone», biancheggiante di finissima sabbia, la spiaggia è affollata. Nudovestite, ragazze bionde e brune scherzano chiassosamente. Le loro voci argentine richiamano e ammaliano i bagnanti come le ondine di Anfitride e di Nettuno.

[8]

Ritto come un personaggio biblico, a ogni faraglione Silverio descrive con gesti solenni i luoghi nativi, massime quando ad essi si associano personali ricordi. Nell’imboccare la rada, abbandona per un momento i remi e fa: – Non vi sembra che sia bello questo paese? Al che replichiamo maliziosamente: – Ma non vi sembra, Silverio, che in quelle rocce aspre e nude, dai riflessi gialli e rosa della corniola, una vegetazione non ci starebbe a pennello? Per esempio un manto di robinie e di olivi? Siamo convinti che accrescerebbero il fascino di questa isola primigenia. Cosa manca ad essa infatti per essere preferita? Nulla. Volete improvvisare un bagno all’istante? Ed ecco a portata di mano una spiaggetta con l’acqua lucida come manto di seta. V’imbattete in una comitiva? Ed ecco una paranza libera in un porticciolo. Siete intenti a bordeggiare una scogliera? Ed ecco la sorpresa d’una grotta azzurra o di smeraldo, pronta a narrarvi strane imprese.

[9]

Un po’ convinto e un po’ contrariato, brontolando fra sé: — Ma se Ponza è nata così! — Silverio impugna i remi, coi baffi ispidi e le orecchie a sventola.

Al sole incandescente d’Agosto, il muro rosso del porto arde come vivida fiamma. Motoscafi rientrano dai vagabondaggi mattutini intanto che un panphilo aristocratico e un barcone proletario accostano con precauzione. Superato lo Zenith, il sole manda in avanguardia le prime timide ombre. Cielo, monti e mare intonano insieme una musica di effetto indicibile. E’ la mezza, e la piccola campana della Chiesa strèpita con voce pettegola.

Cordiale, Silverio agguanta il cappellone del nonno e se lo calza sulle orecchie; indi, come un gatto, salta sulla banchina e assicura la barca alla riva. I suoi occhi neri grandeggiano al pensiero della zuppa di pesce che l’attende.

(1) – “Benzonite” nel testo originale, invece di bentonite