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La poltrona letto e la nave dei sogni (terza parte)

di Enzo Di Fazio

 

Il mare è senza strade, il mare è senza spiegazioni
(Alessandro Baricco)

per la prima parte (leggi qui [1])
per la seconda parte (leggi qui [2])

Avevo poco più di otto anni. Di giocattoli fino ad allora ne avevo avuto regalati pochissimi. Non si usava a quei tempi ma, a dire il vero, non se ne sentiva nemmeno un gran bisogno. Con la fantasia che ci ritrovavamo e la libertà che ci veniva data di giocare all’aperto, per strada, ci inventavamo di tutto.
Giocavamo, per esempio, a guardie e ladri con squadre appartenenti a contrade diverse (epiche le battaglie tra i ragazzi degli Scotti e quelli della Dragonara e del canalone); costruivamo con le pale del fico d’india flotte navali con le quali confrontarci nel pantano della Guardia; organizzavamo la caccia alle lucertole (oggi mi vergogno un po’ a dirlo) con i cappi fatti con i fili di strame; mettevamo a dura prova la nostra abilità di equilibrio nelle corse con il cerchio di barile dove ognuno doveva coordinare la capacità di correre con quella di far rotolare lunga la discesa degli Scotti il proprio cerchio guidato da una sottile barra di ferro uncinato.

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Insomma non ci pensavamo proprio ai giocattoli “tradizionali” anche perché la condizione di non averli era comune alla maggior parte di noi appartenenti come eravamo a famiglie di origini modeste dove ogni spesa veniva sempre ponderata prima di essere sostenuta.

Ma ritorniamo alla poltrona-letto e al ricordo particolare cui è legata.

Quell’estate del 1956 c’era gran fermento in casa poiché venivano a trovarci, provenienti dagli Stati Uniti d’America, una zia, sorella di mio padre, e suo marito. Era una visita attesa con curiosità ed anche con un po’ di apprensione per via dell’ospitalità che dovevamo dare nella nostra casa che certamente grande non era.
Io non conoscevo questi zii, se non attraverso le lettere che ogni tanto giungevano, accompagnate il più delle volte da qualche dollaro, cosa graditissima a mio padre; ma non li conoscevano nemmeno mia madre e mia sorella. Zia Lucia, emigrata in America dopo essersi sposata non era più tornata; era quindi anche per loro una novità.
Mio padre andò a riceverli all’arrivo della nave portandosi dietro due uomini messi a disposizione dalla cooperativa di facchinaggio che stava giù alla banchina Di Fazio. A quei tempi la strada per arrivare agli Scotti non era carrozzabile e, se si avevano bagagli o altro da portare, soltanto con l’aiuto delle braccia e dei ciucci si poteva fare.

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Un tratto della strada degli Scotti
prima che, negli anni ’80, venisse asfaltata 

Mancavano pochi giorni alla festa di San Silverio quando misero piede a terra. Trovarono quindi un’isola in festa, con i pescherecci adornati di gran pavese e le corone di mirto lungo corso Pisacane piene di bandierine.

Giunsero a casa nel tardo pomeriggio affaticati e sudati e la prima cosa che esclamò zia Lucia, ancor prima di salutarci fu:
– Oh my God! E cumme facite a vivere ca ‘ncoppe senza car!?
E subito dopo affacciandosi al balcone che dava sulla baia del porto:
– Uhuh… però che bella vedute ca tenite… è propete naise (nice)
Rivolgendosi poi a me, scompigliandomi i capelli
– Che belle ‘uaglione… i sacce ca te piace ‘u mare… t’aggie purtate d’America nu belle scip (ship)

Dissi timidamente ‘a zie, grazie senza capire di cosa si trattasse. Nu belle scip! Che poteva essere nu ‘scip. Sicuramente qualcosa legato al mare visto che aveva detto di sapere che mi piaceva il mare.
Tenni in serbo la curiosità per tutto il tempo del pranzo che durò un’eternità tra complimenti, convenevoli e chiacchiere varie condite di tanti termini del classico broccolino (loro da Brooklyn venivano) come per esempio giobba, bisinisse e bosso quando il discorso toccò il lavoro che faceva mio padre o quando chiese se avevamo ‘a uosce mascine (washing machine), domanda cui mia madre rispose, dopo aver capito a cosa si riferisse ah, si ‘u lavature.
Ricordo poi una frase ricorrente wazza mara you? (What’s the matter with you?) che zio Raffaele diceva tutte le volte che mio padre accennava a qualche problema.
Con la frutta e nu casatielle fatto per l’occasione da mia madre arrivammo alla fine.

Pensai in cuor mio che avrei finalmente capito cosa fosse stu belle scip che mi avevano portato
Ma niente…
Se ne uscì mia zia, mentre ci alzavamo da tavola:
– Ascimme tutte quante fore ‘u balcone ca ce facimme ‘nu belle picce primme ca se ne va ‘u sole.
Capii subito l’idea di zia visto che cavò dalla borsa una macchina fotografica, per la verità un po’ strana per la forma che aveva ma di macchina fotografica si trattava.

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Una due tre quattro foto… Una per noi, una per ogni figlio che stava in America, un’altra per i cugini, un’altra ancora per i cognati…

Deposta l’arma finalmente si avviò verso una delle due enormi valigie che mio padre aveva sistemato in un angolo della stanza di mezzo.
Con finta indifferenza me ne andai in cucina ma sott’occhio seguivo le mosse di zia mentre i battiti del cuore cominciarono a salirmi fino alla gola.
Ero di spalle quando mi sentii chiamare:
– Enzu’ addo stai a’ zie e avvicinandosi mentre mi voltavo mi porse una grande scatola aggiungendo chiste è pe te
Sempre con finta indifferenza scartai, aprii ed ecco illuminarsi gli occhi alla vista di uno splendido modello dell’Andrea Doria.

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‘U ship era  il transatlantico che avevo visto al molo Beverello e che mi aveva fatto tanto sognare.
– Te piace? – mi chiese zia.
– E comme no… – risposi visibilmente emozionato.

Era tutto di legno con le cabine e il grande fumaiolo e le scialuppe di salvataggio ai lati e c’era anche il gran pavese come quello vero di Napoli
Aveva anche l’elica e una chiave sul ponte di poppa con cui si caricava la corda per azionarla.
Meraviglia delle meraviglie, poteva andare anche in acqua.

Ci furono regali anche per tutti gli altri: vestiti colorati, calze di nylon, pantaloni ‘i beach, bombolette di schiuma da barba, praticamente tutte quelle cose che trovavamo nei pacchi che periodicamente arrivavano dall’America.

Il tempo scorse in fretta ed arrivò l’ora di salutarci per la buonanotte, Gli zii presero possesso della stanza da letto che mia madre aveva loro riservato; mio padre, mia madre e mia sorella si sistemarono sul mezzanino (disimpegno o dependence come dir si voglia che ogni casa di inizio secolo scorso aveva) ed io nella comoda poltrona letto sotto la finestra della stanza di mezzo.
La raggiunsi portandomi appresso l’Andrea Doria. Era una serata bellissima e in cielo splendeva la luna piena che potevo scorgere tenendo socchiuso gli scuri della finestra.

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Filtrava una luce quasi ad illuminare l’intera stanza. Mi sentivo padrone del mondo che mi era intorno e anche di quello fuori. Stetti per ore seduto in mezzo al letto ad ammirare l’Andrea Doria. Spostandolo con le mani di qua e di la lo feci navigare fino ad arrivare a New York e ritornare a Napoli. Ma in un viaggio lo feci arrivare fino a Ponza.
Ed io viaggiai con lui, al timone nella cabina di comando, sognando di solcare in lungo e in largo tutti gli oceani del mondo.
La luna di quella sera mi consentì di ammirarlo in tutti i particolari al punto che oggi, se fossi un bravo disegnatore, sarei in grado di riprodurne il modello.

Era il 1956 e stavamo nel mese di giugno.

Il 25 luglio di quell’anno, mentre era diretta a New York l’Andrea Doria fu speronata ed affondata dal mercantile svedese Stockholm al largo della costa di Nantucket (USA) in quello che fu uno dei più famosi e controversi disastri marittimi della storia.

Morirono 51 persone (5 passeggeri della Stockholm e 46 dell’Andrea Doria) per la maggior parte alloggiati nelle cabine investite dalla prua della nave svedese. Il transatlantico, con una murata completamente squarciata, si coricò su un fianco e affondò la mattina di giovedì 26 luglio 1956, alle ore 10:15, dopo 11 ore dalla collisione, davanti alle coste statunitensi (sintesi da Wikipedia). Praticamente di questi tempi  poco più di 65 anni fa.

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Quando accadde la tragedia gli zii erano tornati da una settimana in America.
La televisione a Ponza in quegli anni l’aveva forse solo qualche famiglia benestante ma una radio c’era in ogni casa.
Ricordo che con mio padre rimanemmo appiccicati per ore ai notiziari che rimbalzavano da quella parte del mondo.
Io, stringendo tra le braccia il mio transatlantico, piansi tanto e vissi quella notte di luglio come se mi trovassi in fondo all’Oceano. Con una tristezza della stessa intensità, ma di senso opposto, del sentimento di gioia che mi aveva pervaso il giorno in cui mi fu regalato quello stupendo modellino di Andrea Doria con cui ho continuato a navigare e sognare fin quando il tempo e le stagioni me lo hanno consentito

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[La poltrona letto e la nave dei sogni (terza parte) – Fine]

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Con riferimento al commento di Antonio Corti inseriamo le tre foto che, riguardanti la testimonianza del suo viaggio fatto nel lontano 1956 con l’Andrea Doria, ci ha inviato. Cliccare sulle immagini per ingrandire

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Menù di bordo dell’Andrea Doria

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pagina di copertina del programma della giornata

[12]

programma della giornata del 29 giugno 1956