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La poltrona letto e la nave dei sogni (seconda parte)

di Enzo Di Fazio

 

Nulla è più inabitabile di un posto dove siamo stati felici
(Cesare Pavese)

per la prima parte (leggi qui [1])

Abitavamo in una casa costituita da tre grosse stanze comunicanti. Sotto di noi vivevano zia Gelsomina e zio Francesco che avevano a disposizione anche un bel cortile ed un piccolo giardino.

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La casa al centro della foto è dove abbiamo vissuto
fino alla fine degli anni ’50

A casa nostra si accedeva salendo per una scala che partendo dal vicolo retrostante il fabbricato, attraverso ventotto scalini, sbucava, fiancheggiando il muro, nel pavimento della stanza centrale, la cosiddetta stanza di mezzo.

Dal pavimento sembrava praticamente una buca rettangolare delimitata dal lato frontale al muro da una ringhiera di ferro per garantirne la sicurezza.
Quella scala, così ripida, così piena di scalini, era stata per lungo tempo il cruccio e la preoccupazione di mia madre, e fin quando non fummo, io e mia sorella, abbastanza cresciuti  aveva continuato a tenerne sotto controllo l’accesso con un cancelletto di legno fatto da mio padre. Andammo via da quella casa che ero ancora bambino. Vi sono, poi, ritornato più volte ed ogni volta ho provato le stesse sensazioni di fatica e di paura che provavo da bambino.
Quella stanza, a dispetto della scala che, a dire di mia madre, ne rovinava la compostezza, era, però, la più luminosa delle tre avendo, oltre il balcone che sporgeva a ponente sulla baia del porto, una grande finestra che, quantunque si affacciasse sulla casa situata alle nostre spalle, prendeva tanta luce, soprattutto al mattino, essendo posta a levante.

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Sotto questa finestra un giorno mia madre sistemò una poltrona letto che andava a sostituire il mio lettino costituito da una rete metallica con relativo materasso  collocato lungo la parete di fronte.
Quel lettino, in effetti, occupava non poco spazio trovando posto nella stanza “di mezzo” anche un tavolo quadrato con quattro sedie, una cristalliera ed una cassapanca (‘a cascie) piuttosto grande.
E poi c’era quel vuoto ove sbucava la scala che prendeva quasi un intero angolo della stanza.

Mia madre realizzò una specie di sogno quando a casa arrivò quella poltrona; in effetti eliminando la rete su cui dormivo e collocando la poltrona sotto la finestra la stanza assunse un aspetto più gradevole e accogliente.

La poltrona aveva due grossi braccioli di legno pieno e l’anima, destinata a svolgere la funzione di lettino, era costituita da una rete metallica pieghevole, robusta e moderna, insomma all’avanguardia come dissero gli operai che la portarono. La completava ovviamente un materassino che sin dalla prima apparizione, dato l’esile spessore, non mi fece, a dire il vero, una buona impressione.

La poltrona arrivò il mattino poco prima di mezzogiorno; furono quindi tante le ore di attesa prima che potessi saggiarne i pregi dell’avanguardia ed apprezzarne la comodità.

C’era poi che la collocazione sotto la finestra non mi aveva entusiasmato. Durante le notti ventose i vetri non perfettamente saldati ai telai facevano degli strani stridori che alimentavano le mie cupe fantasie e in più, d’estate, l’irregolarità degli scuri consentiva il passaggio di una fastidiosa luce fin dalle prime ore del mattino essendo, tra l’altro, quella parte della casa esposta a levante.
Fino ad allora quei fenomeni li avevo tenuti a debita distanza essendo il mio lettino collocato lontano da quella finestra; da quella sera in poi avrei dovuto cominciare a conviverci.

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Mia madre intercettò subito il mio malumore e non perse tempo nel rappresentarmi che la poltrona-letto al posto del lettino era da considerarsi un miglioramento della mia condizione di vita in quanto la presenza dei braccioli mi avrebbe reso le notti più serene visto che ogni tanto durante il sonno cadevo dal letto.
In effetti fu proprio questo suo argomentare a persuadermi: si voltava pagina e da quel giorno in avanti avrei vissuto notti più tranquille.
Impiegai del tempo quella prima sera a prendere sonno; non tanto perché sentissi i vetri ballare – era una calmissima notte d’estate –  quanto per l’esile spessore del materassino che, più mi muovevo e più mi confermava la brutta impressione che avevo avuto appena visto.

A mia madre non dissi mai di quel mio disagio, se non in età adulta ironizzandoci sopra. Mi dispiaceva rovinare la gioia che aveva accompagnato il momento dell’acquisto e la soddisfazione, che spesso condivideva con le sorelle ed amiche che venivano a casa, di aver reso la stanza “di mezzo” più bella ed accogliente. Quel lettino di traverso vicino al muro, quantunque abbellito da una coperta colorata, effettivamente ne pregiudicava l’armonia.

A quella poltrona-letto è comunque legato un bellissimo ricordo che svelerò nella terza ed ultima parte di questo racconto a chi avrà avuto la pazienza di seguirmi.

 

[La poltrona e la nave dei sogni (seconda parte) – Continua]