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Michele Mari, per ricordi, libri e posti di mare

Segnalato da Tano Pirrone e Sandro Russo
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Da oggi (ieri per chi legge) inizia la serie di racconti d’autore per le edizioni locali di Repubblica che ci accompagnerà per altri otto giovedì. L’esordio è affidato a Mari che ci confida la scelta non facile del libro da mettere in valigia fra Truman Capote e Pavese.
Di Michele Mari (Milano- 1955) abbiamo molto amato il racconto breve Cicoria matta [2] dalla raccolta Euridice aveva un cane (2004), ripreso anche sul sito, e (moltissimo) Verderame (2007), originale romanzo di formazione tra fantasia e storia, memoria e dialetto (lombardo, del varesotto).

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Il mio agosto con i fantasmi di carta
di Michele Mari da la Repubblica di ieri, 8 luglio 2021

– L’anno in cui mia madre affittò un rudere sopra Tellaro e io invidiai per un’intera settimana la residenza di Soldati (e la presenza della nuora Stefania Sandrelli)
– Mio padre a Ponza mi rovinò la lettura di “Moby Dick”. Da allora confondo mistico con mistero. E non ho mai creduto che la balena sia una metafora
– “Morte a Venezia” non può essere portato in laguna soprattutto nella stagione calda. E solo un pazzo partirebbe per l’Algeria con i volumi di Camus nel borsone


Agosto 1969, Bocca di Magra
. Ospite per pochi giorni di amici di famiglia, ho con me due libri: “Avventure e viaggi di mare” a cura di Mario Spagnol e Giampaolo Dossena, e “A sangue freddo”. Letti contemporaneamente, grazie anche alla natura antologica e frammentaria del primo titolo, i due libri mi si impongono subito, rispettivamente, come la musica della letteratura e il suono della realtà.

Mi consegno tutto alla prima, ma ancora oggi Bocca di Magra, dove non sono più stato, rimane per me un luogo tragico, quello in cui la famiglia Clutter è stata trucidata da Perry Smith e da Rick Hickock. Non solo: perché pochi giorni dopo lessi sul giornale la notizia del massacro di Bel Air, altrettanto gratuito e inspiegabile (sarebbero passati diversi mesi prima che si risalisse alla banda di Charles Manson).

Quel Kansas e quella California, dunque, si imposero allo Spezzino contaminandolo per sempre, e tornare a Milano sano e salvo mi parve già un mezzo miracolo.
Anni dopo mia madre, in vena di autolesionismo, affitta un rudere sopra Tellaro (molto sopra), fra i fichi e il pietrame: niente elettricità, niente acqua corrente, niente che non fossero le nuda mura, due brande militari, una tanica, un catino, un fornelletto da campeggio.

Per qualche estate, a mero titolo di solidarietà, vi passo una settimana, sgroppando come un contrabbandiere fra Tellaro e il tugurio (un’ora di cammino sotto il sole, nell’assordante concerto delle cicale): lo splendido panorama, ancora più splendido la sera con le luci lontane del golfo di Lerici, non basta a risarcirmi, soprattutto quando confronto la nostra situazione con quella dei “ricchi”, rappresentati ai miei occhi da Mario Soldati e dagli ospiti della sua villa di Tellaro (fra cui la nuora, Stefania Sandrelli, che idealmente importava tutta Cinecittà).

Puntualmente, nel corso dei miei approvvigionamenti in paese, vedevo il famoso scrittore impeccabilmente vestito di bianco come un gentiluomo sudamericano, con tanto di cappello e di bastone da passeggio; una volta tornato al rudere, trovavo mia madre intenta a leggere (per esempio) Kavafis o Forster: “Dovresti leggere Soldati”, le dissi una volta ansimando, ma non credo abbia colto.

Anni dopo, il mio primo editore, Mario Spagnol (quello stesso Spagnol di “Avventure e viaggi di mare”) mi raccontò della sua frequentazione lericino-tellarese con Soldati, con un’euforia pari alla mia mortificazione. Avevo letto, nel frattempo, diversi libri di Soldati, dai “Racconti del maresciallo” ad “America primo amore“; dovevo ancora leggere quello che mi sarebbe piaciuto di più, forse l’unico in grado di riconciliarmi con il suo fantasma: “La verità sul caso Motta”.

Di Spagnol avrei ammirato di lì a poco la magnifica edizione annotata dei principali cicli narrativi di Salgari, a ideale complemento di quell’antologia marinaresca così clamorosamente stravolta dal romanzo di Truman Capote.

Agosto 1967, Peschici (Gargano). In vacanza con mio padre, odo per la prima volta la parola “mostro” in relazione a uno scempio edilizio (“ecomostro” ancora non esisteva): un mega-albergo o villaggio turistico a Rodi Garganico. Vista da lontano l’enorme struttura effettivamente indignava, discontinua com’era al paesaggio. Io stavo leggendo “Dracula” di Bram Stoker, e mostro per mostro, mi dissi, meglio quello transilvano.

L’anno successivo, a Procida, mi sento in debito ancor prima di partire, e mi faccio prestare “L’isola di Arturo”: commetto quindi l’errore madornale (errore di principio, errore di metodo) di leggere il libro come una “guida” all’isola, o anche di considerare l’isola come una “illustrazione” del libro.

In questo modo non mi abbandono né al libro né all’isola, su cui sarei tornato anni dopo per l’omonimo premio letterario, nella necessità imbarazzante di rispondere alla reiterata domanda dei giornalisti: “Michele Mari, qual è il suo rapporto con Procida?” (Domenico Rea, intanto, se la filava eludendo la questione e lasciando me nell’ambascia).

Meglio, direi, a Ventotene, dove nell’estate 2014 sono ospite del festival “Gita al faro”, secondo una formula assai vantaggiosa che prevede per otto scrittori una settimana di lauta vacanza in cambio di un racconto ispirato all’isola: nel mio caso, all’isolotto dell’isola, visto che scelgo come tema il carcere di Santo Stefano costruito sul modello del Panopticum di Jeremy Bentham.

In quell’occasione il teorema di Borges (io sono due, il Borges che vive e il Borges che scrive, e il primo è al servizio del secondo) si perfezionò, specificandosi la vita nella vacanza.

All’Isola d’Elba mi lega una sola memoria, tanto breve quanto angosciante: avendone ampiamente parlato in un libro intitolato “Leggenda privata”, qui soprassiedo.
Mi sposto invece a Ponza, sempre con mio padre (1969). Ho con me “Moby Dick”, che mi accompagnerà per tutto il soggiorno.
Vedendomi con il libro in mano, mio padre si sente tenuto a darmi in rapida sequenza tre informazioni: 1) Herman Melville è un mistico; 2) la balena è una metafora; 3) Cesare Pavese, traducendo, commise molti errori. Io, ragazzino, non so assolutamente cosa significhi “mistico”, ma non oso chiedere: mi resta un senso, paradossalmente esatto, di “mistero”.
Quanto alla metafora ne intuisco il significato, ma qualcosa in me decide subito che è più bello se la balena non lo è. Circa Pavese, infine, rimuovo l’informazione, con un atto più egoistico che magnanimo: niente filologia, prima di una certa età.

Estate 1972, Varazze (in quel lembo di Ponente che per automatismo pavloviano ho sempre considerato, versus il Levante, come la vera Liguria). Nella casa di mia nonna smaltisco i postumi di due violentissime estrazioni di denti del giudizio (due ore di intervento cadauno). Imbottito di Spasmoplus, leggo “La montagna incantata”, tenendo fra le ginocchia un catino dove di tanto in tanto lascio colare una bava sanguigna.
Sono conciato così male che giocoforza traduco il dolore in orgoglio, sentendomi affratellato ad Hans Castorp e ai suoi aristocratici compagni di sanatorio.

Molti anni dopo, a proposito del dibattito suscitato dal titolo “La montagna magica”, scelto da Renata Colorni per la sua nuova traduzione, mi sarebbe venuto un pensiero assurdo: “La montagna incantata” è il libro di quando si è malati, “La montagna magica” quello di quando si è guariti (quanto alla “Morte a Venezia”, è chiaro che non dovrebbe essere letto né a Venezia né d’estate, così come solo un pazzo partirebbe per l’abbacinante calura algerina con i libri di Camus in valigia).

In ogni caso la parola “estate”, incrociata con l’idea di un libro o di un film, genera titoli a profusione: “L’estate del razzo” (Rocket Summer), racconto d’apertura delle “Cronache marziane” di Ray Bradbury; “Stand by me. Ricordo di un’estate”, il film di Bob Reiner tratto da un racconto di “Stagioni diverse” di Stephen King; “Cinque giorni un’estate”, ultimo film di Fred Zinneman; “La bella estate” di Cesare Pavese; “L’estate del ’42”, straordinario romanzo d’amore e di guerra di Renzo Zorzi (1988), da non confondersi con l’omonimo romanzo (“Summer of ’42”) precedentemente scritto da Herman Raucher; e naturalmente il “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare.

Ma, al di là dei riscontri puntuali, è evidente che l’estate impone alla narrazione una qualità che non saprei definire se non in termini di lentezza e languore: la tenerezza della notte di Fitzgerald; gli ozi e i vagabondaggi di Huckleberry Finn, lungo le lutulente anse del Mississippi; l’ignavia del latifondo siciliano (Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa); la solitudine della città (per esempio la Roma dello studente Jean-Louis Trintignant prima che vi irrompa Vittorio Gassman con la sua strombazzante Lancia Aurelia); i miasmi mefitici delle bonacce di Conrad; le paludi della Louisiana e le piantagioni caraibiche; il tremolio della canicola e il demone meridiano: tracce, quest’ultime, che ci riportano a Bradbury (“Il popolo dell’autunno”) e a King (“I figli del grano”).

A loro volta il sangue e i sacrifici ci riportano fatalmente al romanzo di Capote e al massacro di Bel Air: in combinazione con la Liguria, tanta efferatezza evoca uno dei “mostri” più spaventosi della storia italiana: Donato Bilancia, i cui delitti, ravvicinati nel tempo e nello spazio, mi impressionarono più di quelli del mostro di Firenze.

Meglio, allora, portarsi in vacanza qualcosa di invernale, possibilmente di artico o antartico (il “Gordon Pym” di Poe, le “Montagne della follia” di Lovecraft, la “Cosa di un altro mondo” di Campbell…); oppure, King per King, “The Shining” (il cui labirinto innevato, tuttavia, rinvia al labirinto per antonomasia, quello di Creta, dove ci porta, in un’estate torrida, Lawrence Durrell con il suo “Labirinto oscuro”).

[Da la Repubblica dell’8 luglio 2021]

Immagine di copertina. Illustrazione di Cristina Damiani, dall’articolo di Repubblica