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L’angolo di Lianella/9. Mio padre nel campo di concentramento

di Amelia Ciarnella

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Quando la mia famiglia nel 1942 fu costretta a rimpatriare da Addis Abeba, tutti gli uomini furono trattenuti e inviati in un campo di concentramento in Rhodesia, compreso mio padre, dove poi rimase confinato per sette lunghi anni. Trascorso però il primo periodo che fu problematico per tutti i prigionieri, le cose migliorarono molto.

Mio padre, che era un valente infermiere, trovò subito lavoro nell’ospedale del campo e vi rimase per tutto il periodo della prigionia, per cui non ebbe mai problemi, almeno per mangiare, e quando tornò a casa colorito e ingrassato sembrava aver trascorso sette anni di villeggiatura!

Nel campo di concentramento, dopo le solite ore di lavoro, potevano usufruire anche di alcune ore di svago che ognuno impiegava nelle attività che più preferiva.
Mio padre ha sempre avuto la passione per la musica e ha sempre suonato la cornetta. Perciò fu impegnato nell’orchestra del teatro. Là dentro, infatti, avevano allestito un teatro che funzionava regolarmente poiché fra i prigionieri non mancavano né attori, né registi, né scenografi e né coreografi. L’unica cosa che mancava erano le donne. C’erano in compenso dei bravi truccatori, capaci di trasformare col trucco uomini barbuti in donne autentiche! E pertanto in quel teatro vi rappresentavano commedie di ogni tipo che gli inglesi vedevano molto volentieri mescolandosi agli stessi prigionieri dei quali erano diventati ottimi amici.

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Oltre al teatro, ogni prigioniero poteva, volendo, coltivare un po’ di terreno fuori dal campo, per produrre ortaggi e frutta a piacere, come pomodori, cocomeri e altro. L’unico inconveniente erano gli animali velenosi, specie i serpenti, di cui la foresta era un vero covo.

Un giorno mio padre e un suo amico che avevano coltivato un piccolo orto a pomodori e cocomeri, erano andati ad innaffiarli e vedendo che vi era caduto sopra un grosso ramo molto frondoso, mio padre per fare ordine prese il ramo dalla parte del tronco e cominciò a tirarselo dietro per buttarlo da un’altra parte. Ma aveva fatto solo qualche passo che sentì il suo amico che lo chiamava urlando: “Scappa Anto’! Scappa!”.
Mio padre si girò per vedere da cosa doveva scappare, visto che non aveva sentito nessun rumore tranne lo strisciare del ramo sulle foglie. Ma, appena ebbe completato il giro su sé stesso, si trovò faccia a faccia con un grosso cobra che evidentemente stava riposando sotto il ramo e sentendosi disturbare si era sollevato ritto sulla coda e ora lo stava fissando minaccioso pronto all’attacco. Mio padre rimase di sasso. Quindi immobile come paralizzato.
E fu proprio quella immobilità che lo salvò da sicuro morso. Infatti il cobra, dopo qualche attimo, visto che niente si muoveva e non si doveva difendere da nulla e da nessuno, si abbassò e lentamente scivolò via lasciando mio padre più morto che vivo per lo spavento preso.

Un altro momento particolarmente avventuroso lo vissero un giorno che si incendiò la foresta e centinaia di animali di ogni tipo, presi dal panico, fuggirono attraversando il campo dove molti trovarono ugualmente la morte uccisi dagli stessi prigionieri. Un serpente, perduto l’orientamento, finì sotto una tenda dove erano riuniti alcuni prigionieri per la solita partita a carte. Fece una brutta fine, però prima di morire riuscì a spruzzare il suo veleno sulla faccia di uno di essi, procurandogli una brutta infezione agli occhi che il malcapitato si portò dietro per diversi mesi.

Ma la scena più toccante si verificò il giorno del rimpatrio. Durante tutti quegli anni molti prigionieri avevano allevato dei cani, addestrandoli secondo le loro capacità e ogni cane si era affezionato al suo padrone che serviva e a cui obbediva con fedeltà e amore.

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Quando poi la guerra finì, tutti i prigionieri furono rimpatriati in blocco e non avevano potuto portare i cani con loro. Perciò chi aveva avuto la possibilità di sistemare il proprio animale presso qualche amico di colore, lo aveva fatto. Però la maggior parte di quelle povere bestiole fu lasciata al proprio destino.

Arrivato che fu il giorno della partenza ogni cane, ignaro, accompagnò il proprio padrone sul luogo dove era ad attendere il treno. E non appena questo si mosse tutti quei cani, forse duecento e più diceva mio padre, cominciarono a correre dietro al treno. Ed era una scena veramente straziante vedere quella moltitudine di cani che si affannava a correre appresso al treno, mentre i loro padroni piangevano come bambini.

(Tratto dal mio libro “Guazzabuglio due” – Casa editrice Bastogi Libri)