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Il casale e il vagabondo (seconda parte)

di Sandro Russo

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“La grande casa alla sua sinistra era grigia e silenziosa; sul giardino davanti c’erano dei grandi alberi: troppi per uno spazio così ristretto, così che erano cresciuti altissimi”.
(raccordo dalla puntata precedente [1])

[2]

Plunk si diresse quasi correndo verso l’angolo in fondo, dove pendevano sfilacci di stoffa di qualcosa che doveva essere stata un’amaca. Era ancora legata, ad un’estremità ad un’enorme mimosa in fiore.
Era febbraio avanzato: la stagione delle mimose, da quelle parti… Come aveva potuto dimenticare la prima volta?
Da sola riusciva ad illuminare quel giardino tetro, malgrado l’aria di pioggia e il cielo grigio. Piumini gialli, soffici, radiati; ciascun fiore come un piccolo sole; messi tutti insieme, di una bellezza insopportabile. Plunk li accarezzò con le mani e dai rami scossi venne giù una piccola pioggia.
Il Lungo rise. Plunk si guardò in giro: era una stagione morta per la campagna, ma da tanti indizi si vedeva che tutto era stato abbandonato da tempo.
La terra coltivabile era tutto un intrico di rovi e di erbacce; qua e là alcuni alberi da frutto erano riusciti ad emergere dal sottobosco e stillavano pioggia dai rami nudi.

Plunk li presentò al Lungo come suoi vecchi amici – Fico… Melo-cotogno… Pero… Limone… Pesco… e li toccava uno per uno prima di andare avanti.
Fece un giro complicato, contorto, guardando con attenzione dove metteva i piedi e passando più volte per lo stesso posto. A volte indicava qualcosa con la testa e il Lungo lo guardava in silenzio, senza capire. Tornarono verso casa con i pantaloni bagnati.
Vieni – disse Plunk – vediamo se riusciamo ad entrare.

 

[3]

Salirono per una scala di cemento quasi completamente sommersa dall’edera e dalla vite americana: sul ballatoio si aprivano tre porte vecchie e sconnesse. Plunk riuscì ad aprire quella centrale sollevandola di lato, dalla parte dei cardini, ed entrarono in casa.
C’era odore di muffa e di chiuso, e penombra, perché tutti gli scuri erano accostati sui vetri rotti.

Le camere erano molto grandi, ma completamente vuote, tranne qualche vecchio mobile che cadeva a pezzi e molte reti per letti, tutte arrugginite.
Nei grandi camini c’erano polvere e fili di paglia, forse caduti dai nidi che gli uccelli avevano fatto nei comignoli.
Plunk aprì una dopo l’altra tutte le porte; dedicò solo uno sguardo a ciascuna camera, restando sulla soglia e tornò indietro.
– Ti aspetto fuori – disse, mentre il Lungo continuava ad esplorare con metodo tutti gli angoli e rovistava i cassetti, una stanza dopo l’altra.
Il Lungo uscì dopo qualche tempo con un magro bottino. Aveva trovato una piccola corda, dello spago e dei grossi pezzi di cera già sciolta: – Con questa potremo accendere il fuoco anche se la legna è bagnata, vedi Plunk – e gliela mise sotto il naso.
Plunk si riscosse dai suoi pensieri e lo guardò: – Ti accontenti di poco – disse – vediamo se io riesco a fare di meglio…

Scese le scale spostando i rampicanti con le mani; c’era una vecchia porta al piano inferiore, chiusa con un paletto di ferro, senza lucchetto.
Plunk aprì piano. Le vecchie botti sui sostegni rialzati si erano sfasciate da un pezzo, ma nell’aria, insieme a un leggero sentore di muffa e di chiuso, persisteva l’odore pungente di cantina.
Plunk liberò dalle assi di legno l’angolo a destra dell’ingresso, scostò con un piede detriti e foglie secche e si inginocchiò per terra. Aveva raccolto un vecchio giravite arrugginito e con quello provò a far leva per sollevare i mattoni del pavimento.
Il Lungo era entrato in pieno nell’atmosfera da caccia al tesoro e guardava con la bocca aperta e in silenzio Plunk, che andava liberando uno spazio rettangolare dove i mattoni erano stati incastrati a secco.
Plunk cominciò a tirar fuori delle cose dal buco, come un prestigiatore in scena:
– Vecchi giornali ammuffiti! – dichiarò, sollevando con le due mani una poltiglia grigia – Argilla espansa! – e tirò su manciate di palline marroni che si sparsero sul pavimento.
– Kassettinen zinkaten! ..Ja.!? – tirò fuori dal buco, con una certa fatica una cassettina verde in discrete condizioni con i manici arrugginiti.
– E… voilà! – batté le mani – ...vero tesoro..!
Si alzò soddisfatto e richiuse la bocca del Lungo che era restata aperta.
– Ma.. Plunk … – disse lui ripulendosi la faccia dove Plunk l’aveva toccato con le mani sporche – è davvero… un tesoro?

[4]

Plunk era tornato di buon umore, ora; prese la cassetta da sotto, perché non si fidava dei manici e salirono in casa. Con grande ostentazione poggiò la cassetta sul tavolo e ne sollevò il coperchio. C’era ancora paglia, dentro.
La scostò e tirò fuori cinque o sei bottiglie che andava presentando al Lungo estasiato: – ‘Cardinale rosso’, annata ’7981… ‘Cardinale bianco’… ‘Ponzetto superiore’… – Il Lungo batteva le mani imparzialmente ad ogni nuova bottiglia che veniva estratta.
Plunk si guardò intorno con aria di disapprovazione – Uh… Vediamo di organizzarci meglio… C’è da sistemare il tavolo e da ripulire intorno al camino… Sì, mi sembra indispensabile… – Si guardò ancora in giro – Per sedere possiamo utilizzare queste brande… Vado a cercare un po’ di legna secca.
– Ah ha..! Si fa festa stasera..! – disse il Lungo.

Fuori era già quasi buio e piovigginava ancora di tanto in tanto; Plunk si diresse al casottino vicino all’ingresso, dalla parte del grande pino.
In tre viaggi a braccia piene portò in casa un grosso tronco da usare come ceppo, della legna di olivo ben stagionata e alcune doghe di botte che aveva visto in cantina.
In casa il Lungo si era dato da fare anche lui. Aveva sistemato sul camino la lampada a petrolio che portava appesa allo zaino; il tavolo era stato ripulito con uno straccio bagnato e le brande sistemate davanti al camino. Al centro del tavolo, sopra una delle bottiglie del tesoro, aveva sistemato una candela.

Plunk accese il fuoco e presto le fiamme vennero su altissime. – Mi piacciono i fuochi grandi – disse, aggiungendo ancora altra legna, mentre il Lungo arretrava la sua branda.
Ho letto un libro, una volta – disse Plunk – Era intitolato “Lo Zen e l’arte della manutenzione… del camino” – Beh, qualcosa del genere… Sosteneva che curare il fuoco era pura arte, una perfezione effimera… La bellezza che bruciava nel momento stesso in cui aveva raggiunto il suo culmine… Boh… mi pare, almeno… 

In pochissimo tempo la stanza diventò calda e accogliente e un buon profumo di affumicato impregnò l’aria e gli abiti dei due; le cose messe ad asciugare da un lato del camino cominciavano a esalare fumo, mentre le fiamme proiettavano sui muri ombre di giganti.
Più tardi avvicinarono il tavolo al camino, lontano dagli spifferi e mangiarono il pane abbrustolito sul fuoco insieme alle salsicce che avevano comprato in paese. E bevvero un po’ del loro tesoro.
Il Lungo provò a riconoscere i diversi vini, ma non gli riusciva molto bene e doveva provare di nuovo per “impratichirsi” – almeno così sosteneva.
Poi Plunk raccontò di come si fa il vino, e perché si chiamava “Cardinale”… e rivelò anche il segreto che dava quello strano sapore di rosa al ‘Ponzetto superiore’.

Più tardi raccontò anche altre cose, assolutamente personali, ma il Lungo non le avrebbe mai riferite a nessuno, perché si era avvolto nella sua coperta a russava, al riparo da confessioni troppo imbarazzanti.
Così Plunk i suoi segreti li raccontò al fuoco e alle fiamme che sembravano capire tutto e ondeggiavano per assentire.
Poi anch’esse si acquietarono.
Ora la legna era proprio finita e anche Plunk svolse il suo sacco a pelo e si stese sulla branda nuda, davanti alla brace ancora rossa.

[5]

Il casale chiuse le sue braccia di pietra intorno alla stanza; tappò gli spifferi e mantenne caldo il camino per tutta la notte.
Fuori aveva ripreso a piovere forte. Il grande pino resisteva al suo vecchio nemico vento e avvolgeva più strettamente le sue radici brune intorno alle fondamenta del casale. E intanto cantava… il suo cuore di fiume.
Lampi e tuoni saettarono dal cielo, ma il casale li attutì con le sue pareti spesse. Da qualche parte, da una falla del tetto veniva uno sgocciolìo insistente, ma una foglia si fermò tra una tegola e l’altra e il rumore cessò. Dormivano i barbagianni nei buchi del muro, i topi nei recessi delle cantine e i due uomini nella bolla di calore che si era formata intorno al camino.
Plunk sognò…

Vide la campagna verde e le viti cariche di grappoli. Stavano vendemmiando e c’era gente sconosciuta, con lui. Raccolse il suo cesto pieno e si voltò per andarlo a vuotare in un grande tino, sul carro dei buoi.

Il casale era là in fondo, tutto bianco e rassicurante con le porte nuove di legno massiccio e le finestre in perfetto ordine. La campana dell’arco centrale, sul tetto del casale, suonò alcuni rintocchi e tutti tornarono in ordine sparso, dai filari verso l’aia, per il pranzo. Un uomo con una veste lunga, color porpora, benedisse tutti loro, poi benedisse il pane e si sedettero per mangiare.

In un’altra scena c’erano dei ballerini e dei giocolieri sull’aia grande, che si esibivano per il Signore e la sua famiglia, vestiti elegantemente con abiti dalle grosse maniche a sbuffo. Plunk era tra i servi, con abiti da fatica indosso e teneva per le briglie un cavallo bianco.

Il sole sorgeva e tramontava così rapidamente e le scene e i personaggi cambiavano in modo frenetico – Come in un vecchio film in bianco e nero – pensò Plunk da qualche recesso della sua mente.

Si sforzò di fissare l’attenzione su una scena e tutto parve rallentare. Vedeva ora una colonna di gente spaventata, donne e bambini e animali carichi di masserizie entrare nel cortile interno e sistemarsi contro i muri, come a cercare un riparo …E ancora altra gente arrivava e si stava sempre più stretti…

Altri cieli, altri volti… Soldati con uniformi azzurre e rosse nascosti dietro le mura e colpi di fucile; gente che si sparpagliava tra i campi di grano maturo. Il pino davanti al casale era un albero come tanti altri, sottile e neanche troppo alto.

Ancora persone al lavoro nei campi e nelle vigne. Poi ancora soldati; ordini secchi in una lingua dura e tagliente gridati nella nebbia del primo mattino. Un’esplosione, uomini in fuga e un’intera ala del casale che crollava tra calcinacci e fumo.

Giorno.. notte.. Giorno.. notte.. così rapidamente… Le prime macchine sull’aia grande. Muratori al lavoro.

Ora Plunk stava lavorando sul tetto e c’era intorno a lui gente che aveva conosciuto. Musica, canti e balli sull’aia, ma durò un momento soltanto; poi di nuovo immobilità e silenzio.

Vedeva ora dall’alto due figure avvicinarsi attraverso la pioggia.
Ma.. li conosceva, questi.. Erano lui stesso con la cerata rossa e il Lungo con quel buffo impermeabile da ferroviere… Erano proprio loro due..!

[6]

Plunk si svegliò di colpo e si sollevò sulla branda. Udiva il fragore dell’uragano in lontananza e la pioggia leggera contro il legno delle finestre senza vetri. Guardò la brace ancora viva sotto la cenere e provò un senso di calore e di protezione.
Sorrise e si riaddormentò.

[7]

Si svegliarono la mattina poco dopo l’alba. In silenzio rimisero a posto le brande e allinearono le bottiglie vuote a lato del camino. Il Lungo avvolse con cura le ultime due rimaste e le infilò nel suo sacco. Poi uscirono chiudendo la porta dietro di loro.
Batterono i piedi nell’aria fredda del mattino. L’aria era limpida, come spesso accade dopo un uragano e in lontananza si vedeva la linea lucente del mare.
Plunk si voltava spesso a guardare indietro. Nell’aria del primo mattino e con il sole alle spalle era piacevole camminare e battere le mani ogni tanto, per scaldarsi.
– Sai, Lungo – disse Plunk sorridendo all’improvviso – Stanotte il casale mi ha chiesto di tornare a vivere qui –
– Chi..? – chiese il Lungo – il casale.?!
Quel suo amico mezzo matto aveva bevuto troppo la sera prima. Si girò a guardare la sagoma grigia alle sue spalle e scosse di nuovo la testa..
– Il casale!? – ripeté – bah, roba da matti..! 

[8]

[Il casale e il vagabondo (2)- Fine]
By Sandro – Datazione incerta; tra il 1982 e l’85