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Il casale e il vagabondo (prima parte)

di Sandro Russo

 

Come tutti i grandi amori, il casale dove abito – con alterne vicende – dalla metà degli anni ’70, mi ha suscitato grandi sommovimenti emotivi. È stato anche – per me – un topos letterario. Molte delle vicende adombrate nello scritto hanno una base reale. Ancora un’informazione, per la comprensione del racconto – elaborato tra il 1982 e l’85, non ricordo la data precisa. In quel tempo avevo una divorante passione per Herman Hesse – scrittore, poeta, filosofo e pittore tedesco naturalizzato svizzero (1867–1962) di cui credo di aver letto quasi tutto.
In due puntate. Buona lettura
S. R.

[1]

Come fiori sono gli uomini,
anch’essi torneranno a primavera.
Non saranno più malati
e tutto è perdonato.
[Hermann Hesse, Storie di vagabondaggio – Knulp il vagabondo; 1915]

 

– Si può sapere dove mi stai portando? – chiese il Lungo, arrancando sulla stradina di campagna. Per quanto fosse più piccolo, Plunk aveva un passo svelto e regolare e sembrava quasi che corresse.
– Stai zitto, Lungo, e cammina – fece, guardando verso la cima della collina, in fondo, dove si intravedeva la chioma di un grosso pino e una grande costruzione grigia e cadente. Apparentemente abbandonata.
– Ma lo sai che sei strano, tu – riprese lamentoso il Lungo – mi trascini per queste campagne fuori mano con aria misteriosa e pretendi che cammini, digiuni e stia zitto! Dai! …fermiamoci a mangiare qualcosa.
Plunk guardò il cielo nuvoloso dell’inverno che stava per finire e arricciò il naso. – Va bene… – disse – ci fermiamo subito, tanto tra un po’ pioverà. Guardò ancora avanti, come cercando qualcosa oltre la siepe alla sua sinistra e sorrise.
– Ah! – fece il Lungo, deluso, vedendolo entrare in un varco della siepe e abbandonare la strada Credevo che ci saremmo fermati a quel casale..
– Casale.. casale.. – ripeté Plunk, come una vecchia filastrocca – Chi ha paura del vecchio casale… Chi ha paura del vecchio casale…

A sinistra della strada, oltre la siepe, c’era un pozzetto che i contadini utilizzavano per sciogliere il verderame e una specie di rifugio fatto con vecchi pali di vigna, raccolti insieme in una rozza impalcatura coperta da lamiera ondulata.
– Di qui il casale puoi vederlo tutto – disse Plunk – siamo riparati e poi… Insomma… stiamo meglio qua!
Il Lungo fece una smorfia come per dire che non era né convinto né d’accordo, ma scelse comunque un tronco per sedersi, sotto la tettoia; si sistemò e cominciò a tirar fuori da mangiare, dal suo logoro zaino a spalla.

Cominciava a piovere; una pioggia fitta e sottile da un cielo grigio uniforme: di quelle che durano a lungo. I due avevano spezzato in due un grosso pezzo di pane e mangiavano senza parlare.
Dal tetto di lamiera veniva un rumore sordo e continuo che sovrastava il fruscio della pioggia sull’erba.
Il Lungo era perso nella contemplazione dei rivoli che scendevano lungo i pali e scavavano piccoli rigagnoli nella terra morbida. Plunk guardava attraverso la pioggia verso il casale, come in una nebbia..
Rimasero così a lungo. Era il primo pomeriggio, ma l’aria era scura; sarebbe stata una lunga sera, fino alla notte.

Fu il Lungo che parlò per primo, dopo un lungo silenzio – Ehi Plunk..! perché ti fai chiamare così? ..Non è il tuo vero nome, vero?
– E’ vero come il tuo, Lungo… Tutti mi chiamano così, ora..
– Non ti piace parlare di te, eh? – disse il Lungo soprappensiero, intento a seguire con uno stelo d’erba i percorsi tortuosi di un tarlo, sulla superficie di un palo.
Plunk considerò a lungo la domanda – Un tempo questo nome mi piaceva… ora… sono ancora cambiato, credo… – scosse la testa – No… non cambiato… nessuno cambia davvero. Solo capisci meglio quello che hai in testa…
– E cos’hai in testa, Plunk? – chiese il Lungo.
Plunk fischiettò un motivo; poi restò con le labbra atteggiate al fischio, ma senza fare alcun suono. Il naso gli poggiava direttamente sulle labbra. Restò così per un po’.
Il Lungo era abituato ai suoi silenzi.
– Sogni..! Lungo.. come tutti – rispose dopo un bel pezzo, direttamente alla pioggia, seguendo un filo che si era svolto nella sua testa formando ingarbugliati gomitoli.
Il Lungo sussultò. Il rumore continuo della pioggia sulla lamiera gli avevano appesantito gli occhi e la testa.
– Eeh..!? Non sognavo.. Davvero, Plunk… non sognavo!
Plunk rise. Stese la mano oltre il bordo della tettoia e gli schizzò dell’acqua in faccia.
– Io sognavo – disse – Ero io che sognavo.

[2]

Il Lungo lo guardava attentamente, ora. Plunk aveva preso un’aria come di uno che sta guardando lontano e a lui piaceva starlo ad ascoltare.
– Una volta ho conosciuto un vecchio che viveva da solo su una piccola isola. Quando l’ho incontrato io era un tipo rubicondo, con i capelli bianchi, un mezzo sigaro sempre in bocca e la pancia prominente, scoperta e abbronzata.
Lo chiamavano ’o Francése perché da giovane era stato a lungo a Marsiglia. Ne era tornato con una moglie francese, che però non l’aveva voluto seguire e se ne stava sull’isola più grande, a due ore di barca.
Il Francese aveva sempre fatto il muratore e si era costruita una casa sull’unica spiaggia dell’isola, di fronte al tramonto.
Per molto tempo era stata l’unica casa, in quel posto sperduto, e anche adesso non ce ne saranno più di tre o quattro, oltre a una ventina di grotte scavate nella roccia, sulla parete dietro la spiaggia.
A differenza di tutti gli altri, il Francese sull’isola ci viveva sempre. D’inverno era completamente solo e restava isolato per giorni o settimane; in primavera arrivavano i cacciatori, a fargli compagnia e per un breve periodo i guardiacaccia, che lui odiava. D’estate invece di gente ne arrivava anche troppa, a invadere la sua isola con barche, motori e confusione.
Il Francese era molto tollerante, e si era organizzato per sfruttare la situazione. Aveva scritto a grosse lettere rosse, sul muretto a calce dalla parte del mare: ’O FRANCES – Restaurant’ e continuava la sua vita come al solito.
Era raro che cucinasse per gli altri; il più delle volte tirava fuori la pasta e i barattoli di pomodori; diceva – Ici ci son aussì les òve.. Halà.. – e se ne andava sul retro della casa a curare il suo orto e le sue costruzioni.
Io ci sono stato nella sua cucina, discretamente sporca e in disordine, con i piedi del tavolo infilati in barattoli con l’acqua, contro le formiche, e altre cose appese per aria, con strani congegni, per bloccare i topi.
Quando era pronto, veniva anche lui a mangiare pane e frittata con i pomodori insieme agli altri, e poi ti portava pure il conto! ..scarabocchiato a matita su un quaderno con la copertina nera.
Per tutto l’anno il Francese curava i suoi piccoli lavori; aveva fatto le prime rampe di scale sullo scoglio dov’è la cappelletta del Santo protettore; poi faceva muretti e colonnine: ritagliava ogni anno un metro per parte ai suoi vicini e metteva al confine un muro che sembrava stesse lì da sempre; era così che allargava le sue proprietà. Anche dietro la casa, in fondo, dove tra le canne la spiaggia confinava con la montagna, aveva scavato e intonacato due o tre grotte che affittava d’estate ai turisti a prezzi spropositati. Non si riposava un attimo.. il Francese… –

Plunk tacque per un po’, come a contemplare l’isola di cui parlava, al di là del muro grigio di pioggia che aveva avanti. Il Lungo si era messo comodo, con le gambe distese e le spalle appoggiate ai pali; rigirava tra le labbra e i denti un pezzetto di legno.
Plunk riprese:
– Qualche anno dopo seppi che il Francese era morto.
L’avevano portato in ospedale perché era diventato tutto giallo; l’avevano operato ed era morto.
Devo essere stato una delle persone cui è dispiaciuto di più: non riuscivo a rassegnarmi al pensiero delle ultime ore del vecchio, lontano dalla sua isola… Vedi, ci aveva passato metà della sua vita, su quell’isola, e non era riuscito a morirci. La morte avrebbe stretto quell’ultimo definitivo legame, e questo gli era stato negato.
Io vorrei morire nel posto che ho amato di più, tra le cose che conosco…

Plunk si stiracchiò con cura e si appese a uno dei tronchi che reggevano la lamiera, provocando un’oscillazione di tutta la struttura; il Lungo guardò preoccupato il tetto – Ma i sogni, Plunk! …che c’entrano i sogni? – chiese.
Plunk annuì con l’aria di uno che sull’argomento la sa lunga: – Ma ci pensi… Lungo! …Uno che sta sull’isola in ogni stagione, per anni! Che giorno dopo giorno vede il sole comparire da dietro il crinale; lo segue mentre fa il suo giro… fino a che non tramonta all’orizzonte, davanti alla spiaggia. Tutti i giorni! L’unico a guardare il mare nei giorni di vento e di tempesta, quando il ponente porta onde alte e schiumose che sembra debbano portare via la casa. Lui da solo, a parlare con i gabbiani in primavera, quando le rocce quasi diventano bianche, tanto sono affollate di ali in movimento e il cielo è pieno di grida rauche…
Immagini come doveva essere, restare di nuovo da solo alla fine dell’estate, quando i movimenti della gente e delle barche diventavano sempre più radi, fino a che nell’autunno avanzato solo qualche pescatore si fermava a lasciargli del pane, in cambio di una tazza di caffè caldo.
Il Francese sull’isola ci viveva. Era sua!
La vedeva in primavera ricoprirsi di una peluria di verde e del lilla delle rose marine; soffrire la sete d’estate, il vento e la salsedine in tutte le stagioni. Doveva conoscere le tane dei conigli e i rifugi delle serpi; i posti degli asparagi e delle more più grosse e sapeva dove era rimasta ancora dell’uva, sulle terrazze abbandonate.
E quando lui è morto, l’isola non si è fermata… capisci Lungo? Tutto ha continuato ad andare come se niente fosse.
Non mi è mai sembrato giusto!
Ho sempre pensato che l’isola gli dovesse qualcosa e che lui continuasse ad aggirarsi tra le cose che aveva tirato su e aveva amato. Pensa a quanto deve averci pensato, nei lunghi anni in cui faceva il muratore in Francia, fino a che non è riuscito a tornarci. Poi l’aveva avuta negli occhi di giorno e nei sogni la notte; per anni. Non è possibile che di tutta questa energia poi scompaia ogni traccia!

Seguì un lungo silenzio. Plunk sentì il rumore della risacca sulla sabbia ghiaiosa trasformarsi poco a poco nel fruscio più delicato della pioggia sulla vigna spoglia.
Il Lungo riunì pensieri sparsi e gli fece una domanda diretta:
– Perché mi hai portato da queste parti, Plunk..? Cosa c’è in quel casale? ..Tu questo posto lo conosci, vero..?
Plunk non rispose; cominciò a raccogliere le sue cose, poi si sistemò il sacco in spalla – Vieni, Lungo – disse – Piove più piano, ora… Ti faccio vedere delle cose…

Uscirono uno dopo l’altro dal rifugio di pali. Plunk andava avanti. Portava una cerata rossa lucida che gli dava un’aria da Cappuccetto Rosso; il Lungo aveva un rozzo impermeabile nero da ferroviere, con uno strano cappello ovale, dalle falde larghe: una coppia davvero buffa, quei due, a guardarli dall’alto, attraverso l’aria ancora pregna di pioggia.
Plunk si era incamminato lungo un viottolo, tra la vigna e la stradina da cui erano venuti, e andava toccando i pali e i tralci bagnati delle viti, come un cieco che riconosce al tatto la strada di casa.

[3]

Il casale era davanti a loro, sfuocato come un ricordo. Ma a guardare bene doveva essere la nebbiolina che aveva preso il posto della pioggia sottile.
Lo aggirarono di lato, il casale; c’erano diverse costruzioni con i tetti sfalsati su piani diversi, rosso bruno e lucidi per la pioggia.
Plunk guidò il Lungo verso il grande pino che avevano visto da lontano. Forse c’era stato un portone, una volta, a chiudere l’apertura nel muro, proprio sotto il pino, ma ora ne restavano solo due grossi pilastri, cardini arrugginiti e legno marcio.
Plunk entrò con sicurezza facendosi strada tra l’erba alta che superava il bordo dei suoi stivali e gli bagnava i pantaloni di velluto a coste.
La grande casa alla sua sinistra era grigia e silenziosa; sul giardino davanti c’erano dei grandi alberi: troppi per uno spazio così ristretto, così che erano cresciuti altissimi.

[Il casale e il vagabondo (1) – Continua]