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Nomadland, il film che ha vinto l’Oscar. Nelle sale riaperte da poco

proposto da Sandro Russo
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Con un certo ritardo, rispetto alla riapertura delle sale, ho visto anch’io, come primo film per festeggiare il rientro, Nomadland, il film premio Oscar della regista americana di origine cinese Chloé Zhao e di Frances McDormand.
Spazi sconfinati e grandi cieli d’America, magistrale interpretazione di Frances McDormand che l’ha fortemente voluto e lo interpreta con grande bravura. Una regista quasi esordiente che ha fatto Bingo! al primo colpo. Ma anche un film difficile, divisivo nei giudizi.
Visto alla periferia dell’impero (Genzano/Castelli) circa una settimana fa, in un breve messaggio all’uscita scrivevo a Tano Pirrone – amico e mio preferito punching-ball: Ho appena visto Nomadland. Sarei perplesso se dovessi farne una critica. A prima vista sembra un documentario che parla di anziani/vecchi senza lavoro e malati senza assistenza… Gli emarginati dell’America ex-opulenta che per mettersi in pace la coscienza dà il premio Oscar al film?”

Per fortuna partecipo ad un gruppo con cui condivido (per mail) opinioni di cinema e varia umanità – ci si vedeva in passato per vedere film scelti, a casa di una amica che non c’è più – e le vivaci opinioni scambiate mi sono state molto utili.
Ne riporto due, che ho apprezzato molto, anche se alquanto divergenti. Niente di ufficiale, non recensioni di giornale, ma solo scambi tra noi. Non per questo meno significativi. Le riporto così come sono state espresse, limitandomi ad aggiungere qualche nota in fondo su libri e film citati nel testo.

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Scrive Adelina Nannetti
Concordo con chi l’ha detto prima di me: rientrare al cinema è stata un’emozione che ho provato perfino quando sono entrata nel locale, pur avendo visto in questo anno di pandemia tantissimi film sulle piattaforme, su Netflix o in altro modo. Ma non era la stessa cosa, per noi inguaribili cinefili.
Quindi voglio dirvi anch’io la mia su Nomadland. A me il film è piaciuto e mi ha attratto molto probabilmente perché siamo usciti da un anno difficile, perché il desiderio di evasione dopo un disastro è presente in tutti noi, così come nella povera Fern che sfugge alla fine del suo mondo, del suo lavoro, della sua stessa città oltre che alla morte del marito.

A me sembra che il film abbia il merito, con un punto di vista elegiaco e mai drammatico, di puntare al cuore dello smarrimento attuale, di mostrare la pandemia emotiva in cui proletari come Fern e Bo, il marito, erano immersi dopo che le inevitabili crisi di un capitalismo spietato che cancella vite e punti di riferimento.
Questo film ci fa riflettere, con leggerezza di tocco, sul senso della ricerca di radici non nelle ordinarie soluzioni di coppia o relazionali o domestiche, ma in un errare alla ricerca di sé che ci mostra solitudini patologiche o esistenziali, vissute come scelta di una natura errabonda che percorre e ripercorre strade e luoghi, perché come dice uno dei personaggi: “Non ci si dice addio per sempre, ma ci si rivede sempre lungo una strada”.

All’origine del lungo viaggio di Fern non c’è solo la morte del marito ma la fine della sua società determinata dalla grave crisi economica americana del 2008. Tutto è perduto nel piccolo mondo di lei, che vende tutto, azzera il suo passato, le sue relazioni, senza alcuna sicurezza sociale. Vittima della recessione, della povertà, di lavori saltuari ed alienanti, tipici degli ultimi precari della società americana, Fern vive da nomade cercando se stessa, anche nell’incontro con altri errabondi come lei, tutti alla ricerca di una nuova identità.

Come in Furore di Steinbeck (1) o il film di J. Ford del 1940 (2), c’è una crisi sociale con cui fare i conti e un sogno americano da riparare, forse proprio decretandone la morte.
E così ecco l’errare, in tempi lenti e riflessivi, fatti di piccole storie e piccoli gesti di accoglienza, ascolto e solidarietà, alla ricerca della propria anima.
Certo che in questo film ci sono degli stereotipi, ci sono i cavalieri solitari nel deserto delle Montagne Rocciose, il mito della frontiera, c’è qualcosa di Easy rider ma senza la rabbia e la rivolta di di quel film, il mito della vita solitaria nella natura selvaggia [vedi Thoreau (3)], ma tutto si svolge in un’aria elegiaca, un po’ country, malinconica, a cui danno un bel contributo le musiche di Einaudi, gli ampi e straordinari scenari naturali, dal tono dominante del grigio e dell’arido che riflettono l’assenza di luce dei destini di questi uomini e donne.

È un film edulcorato, perché sarebbero stati più realistici ed accettabili per tutti noi il grido sociale e la rivolta che avrebbero ancora una volta risposto agli stereotipi dei “brutti, sporchi e cattivi” di Scola o della “spazzatura bianca degli homeless americani”?
Ma non a caso, i personaggi del film non si definiscono loro stessi homeless, ma “houseless” proprio per distinguere la loro condizione di chi, pur essendo privo di uno spazio abitativo, possiede però una dimora in cui ritrovare se stesso.  È questo un fenomeno che sembra coinvolgere oltre tre milioni di persone negli USA e questo ci dice qualcosa di una complessità culturale che, forse, non deve essere letta solo con la lente dell’emarginazione sociale, ma con una finezza prospettica un po’ più articolata

E infine vi chiedo, un film può essere efficace e bello (categoria molto ambivalente) se si sceglie la strada della riflessione più intima ed individuale e non quella, poniamo alla Ken Loach,  che pure parla a tutti noi con la potenza della denuncia?

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Più disincantata e critica la posizione di Paolo Palazzi
“Sì l’idea è bella e romantica, peccato purtroppo che non abbia nulla a che vedere con la realtà negli Usa. Gli agglomerati dei cosiddetti “nomadi” sono la cosa più triste e desolante che si veda in giro negli States, non a caso la gente chiama i loro abitanti “white trash”, bianchi spazzatura (neri non ce ne sono visto che quei poveracci sono anche razzisti e trumpiani).
L’ottica nella quale sono descritti nel film è quella romantica dei cavalieri solitari che colonizzavano il west nell’ottocento, anche loro inventati dalla narrazione hollywoodiana e riproposti dalla simpatica regista.
La realtà è invece quella di un sottoproletariato ignorante, senza basi sociali, isolato e disperato, che odia i neri e gli asiatici che li superano in benessere e socialità. È la base elettorale della destra fascista e bigotta, molto comoda in quanto non è in grado neppure di fare qualcosa per migliorare la propria condizione.
E’ il triste risultato della storia della sconfitta definitiva del popolo bianco emarginato ben descritto da Steinbeck e Woody Guthrie (4) al tempo in cui ancora aveva una minimo di coscienza sociale”.

Luigi Narducci alla luce di questa versione dei fatti, risponde:
“Nomadland. Se le cose stanno così, non si può che essere d’accordo con Paolo. Peccato perché a me la favola piaceva. La morale è che purtroppo non si può sperare che negli scarti nasca un fiore”.

Ma Paolo Palazzi trova malgrado tutto delle parole di speranza:
“Non sarei così pessimista. Dagli scarti non nasce nulla di buono sino a quando sono trattati da scarti (in positivo o negativo) e non normali cittadini bisognosi e da privilegiare. È lo sguardo – gli atteggiamenti, le parole e gli atti di chi non è o non si considera “scarto” – che deve cambiare.
Lo so è difficile, e non è certo la pur encomiabile singola o organizzata beneficenza e attenzione che può cambiare le cose; forse è da trasmettere l’idea di una possibilità concreta di cambiamento che dovrebbe venire da chi ha il comando che potrebbe modificare le cose. Ma a chi ha (a turno) il comando, conviene farlo, ne è capace?”

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Note
(del curatore, prevalentemente da Wikipedia)

(1) – Furore (The Grapes of Wrath – letteralmente: I grappoli dell’ira) è un romanzo di John Steinbeck. Pubblicato il 14 aprile del 1939 a New York, è considerato il capolavoro dello scrittore statunitense, premio Nobel per la letteratura nel 1962.

«E gli occhi dei poveri riflettono, con la tristezza della sconfitta, un crescente furore. Nei cuori degli umili
maturano i frutti del furore e s’avvicina l’epoca della vendemmia»
(dal romanzo di John Steinbeck)

(2) – Dal romanzo è stato tratto un film omonimo già nel 1940 – in una versione non del tutto fedele al romanzo, ma di straordinaria qualità cinematografica – per la regia di John Ford, che ottenne 7 nomination al premio Oscar, sceneggiato da Nunnally Johnson. Resta indimenticabile, nell’immaginario collettivo, Henry Fonda che interpreta Tom Joad, il protagonista.
Il personaggio di Tom Joad è stato fonte di ispirazione per altri artisti americani. Woody Guthrie gli ha dedicato l’omonima canzone, presente nel suo Album Dust Bowl Ballads del 1940, mentre per Bruce Springsteen è stato d’impulso per la stesura dell’Album The Ghost of Tom Joad del 1995, più di mezzo secolo dopo la pubblicazione del romanzo.

(3) – Henry David Thoureau (1817 – 1862), filosofo, scrittore e poeta statunitense. È principalmente noto per lo scritto autobiografico Walden ovvero Vita nei boschi, una riflessione sul rapporto dell’uomo con la natura, e per il celebre saggio Disobbedienza civile in cui sostiene che è ammissibile non rispettare le leggi quando esse vanno contro la coscienza e i diritti dell’uomo, ispirando in tal modo i primi movimenti di protesta e resistenza non violenta. Fu anche uno strenuo oppositore dello schiavismo.

(4) – Woody Guthrie (1912-1967), musicista, cantautore, scrittore e folklorista statunitense; considerato tra i folk singer più importanti della storia della musica statunitense, ebbe molta influenza su artisti quali Bob Dylan, Joan Baez, Bruce Springsteen (per citarne solo alcuni). Di idee socialiste e per un certo periodo militante comunista, attenzionato dall’FBI e dalla Commissione per le attività anti-americane durante il maccartismo, e a lungo bandito dalle radio, era solito esibirsi con lo slogan “This Machine Kills Fascists” impresso sulla chitarra (1943).