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A Zannone a pesca di emozioni

di Enzo Di Fazio 

 

“…sul mare non è come a scuola, non ci stanno i professori.
Ci sta il mare e ci stai tu.
E il mare non insegna, il mare fa, con la maniera sua.”
(Erri De Luca da “I pesci non chiudono gli occhi”)

La pesca a ricciole, quella a traino con il calamaro, a Zannone era la pesca più nobile e più gratificante che si potesse praticare.
Per tutta una serie di motivi. Perché era (ed è) bello il pesce come specie: forma  aerodinamica, coda forcuta, mantello dalla colorazione argentea azzurra, con una linea longitudinale color oro; perché, una volta braccato, era sempre impegnativo portarlo a bordo; perché se ne prendevi uno superiore ai 10 chili diventava un trofeo di cui poter parlare con orgoglio con gli amici  nelle serate estive quando ci si rilassava, accarezzati dai fasci della luce del faro, nel raccontare del mare e di storie vissute che alimentavano i sogni di grandi e piccoli catturandone l’attenzione.

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Spesso, da adolescenti, siamo stati attori in quei racconti per aver partecipato, quali gregari, a tutte le fasi della pesca.
Questa si praticava in genere in primavera e in estate perché è quello il periodo in cui le ricciole si avvicinano alla costa per la riproduzione.
Gli esemplari più giovani tendono a vivere in branchi e non di rado capitava a Zannone di incrociarne gruppi di venti/trenta a due/tre metri dal pelo dell’acqua. Il che non voleva dire che pescarle fosse più facile, ma era comunque uno spettacolo ammirarle. Gli esemplari più vecchi vivono, invece, in maniera isolata ed è molto più difficile catturarle perché diffidenti e scaltri.

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L’esca che usavamo era il calamaro preso la sera prima. Si cercava di tenerlo vivo facendolo nuotare in una tinozza piena d’ acqua di mare, ma a volte accadeva che non sopravvivesse, circostanza che non ne pregiudicava la valenza se lo si sapeva innescare in modo da salvaguardare l’assetto di navigazione. Importante era anche che conservasse intatti, rimanendo sodo, il manto e il colore roseo.
Certo che metterlo vivo era tutt’altra cosa; significava avere garantiti assetto, quota e movimento.

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La lenza, lunga non meno di 50 metri, recava all’estremità un tornichetto d’ottone cui veniva agganciata la marcatura, il pezzo di filo di nylon con gli ami nascosti nell’esca. A far si che pescasse ad una profondità di 20/25 metri ci pensavano, applicati prima e dopo la marcatura, due piombi, tra i duecento e i quattrocento grammi.

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Si usciva presto, col fresco.  Varata la barca con l’aiuto del verricello, il tempo di montare il Moscone due cilindri della Piaggio e, lasciato lo scaro (lo sbarcatoio di cui si servivano i faristi per tirare a secco la barca), si cominciava girando a destra verso la spiaggia della Cercola e punta levante.
In quel tratto di mare non si calava la lenza per via dei fondali troppo bassi. La pesca vera, quella delle emozioni, iniziava poco prima del faraglione del Monaco là dove il mare diventava scuro e misterioso. Si proseguiva verso ponente costeggiando la zona delle grottelle per arrivare fino allo scoglio del Mariuolo.

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Poi si tornava indietro fino al faraglione del monaco e da qui ancora fino allo scoglio del mariuolo. Questo era il tratto di mare che si batteva più e più volte, lentamente con il Moscone al minimo, andando incontro prima al fresco che arrivava da ponente e poi, al ritorno, al tepore del sole che, levandosi dal mare andava man mano a schiarire il cielo e a scaldarci l’anima.

Si procedeva concentrati, quasi in religioso silenzio, calati nei panni del predatore che attende la preda col pensiero rivolto ai fondali dove un altro mondo andava muovendosi, anche lì con gli stessi ruoli: il calamaro preda e la ricciola predatore.
Fin quando non sentivi la toccata che scuoteva il nylon teso della lenza.
Improvvisamente il corpo di chi teneva la lenza si metteva in allerta per tramettere vigore al braccio allungato sul filo mentre l’altro si teneva pronto per intervenire in aiuto e tirare. Una toccata voleva dire che il pesce era lì in perlustrazione ma non pronto ad abboccare. Il calamaro doveva stuzzicarlo e se rimasto sodo e funzionante avrebbe fatto egregiamente il suo lavoro. Ancora una toccata, una timida toccata
– Speramme ca nun se mette a pazzia’ – interrompeva il silenzio mio padre.
E intanto si aumentava un tantino l’andatura pe’ fangannari’ (1) ‘u pesce.

Saliva la tensione e con essa le aspettative.
La pesca è fatta di attese, di pazienza che non devi mai perdere, anche di delusioni, ma tutto è condito di emozioni che si ingigantiscono quando arriva il momento buono. Che ti avverte con lo strattone, quello che se non sei concentrato ti strappa la lenza dalle mani e può perfino farti perdere l’equilibrio con il rischio di cadere in mare.

I miei ricordi sono legati in particolar modo alla cattura di una ricciola di 13 chili avvenuta a metà giugno a ridosso della festa di san Silverio, poco dopo aver doppiato lo scoglio del monaco.

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Quella volta stavamo io e mio padre, lui in piedi con la lenza in mano e lo sguardo fisso al filo teso, io alla guida del Moscone. Ricordo una giornata limpida col cielo terso e il mare leggermente increspato per un abbozzo di ponente nella cui frescura si infilava la prora della barca.

La toccata, quella buona, arrivò all’altezza del Monaco e subito dopo quella che fece barcollare mio padre.
– Amme ’ncucciate (2), uaglio’, e ‘sta vote è bella grossa
– Papà ch’aggia fa’?
– Niente uaglio’, mantiene ‘st’andatura
E intanto cominciò a tirare il filo.

I personaggi del vecchio e il mare di Hemingway c’erano tutti: mio padre Santiago, Merlin la ricciola e io Manolin e c’era pure, per certi versi, un po’ di quell’atmosfera che ti avvolge leggendo il libro.

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Mio padre si accorse subito che il pesce doveva essere grosso, lo intuì dalla fatica che faceva nell’evitare che il filo gli sfuggisse di mano e dalle impennate, a tratti, della lenza verso il fondo.
– Accellere, accellere… – lo sentii gridare, con il viso cupo, nel momento in cui la lenza d’improvviso perse la tensione.

Accadeva a volte – ed era quello il momento più delicato – che il pesce invece di porre resistenza seguisse l’andatura della barca e, anzi, andasse anche più veloce, nel tentativo di slamarsi.
Chi va a traino sa che la lenza deve essere sempre tesa e che il pesce si porta a bordo solo se ha provato invano tutti i tentativi di fuga.

Quella volta faticammo non poco per tiralo su. Accelerate e decelerate continue, allentamenti alternati a tensioni della lenza. Braccia, mani e corpo di mio padre per una buona ora furono messi a dura prova fin quando sentì il pesce cessare la lotta.
E da lì a qualche interminabile minuto il momento del primo avvistamento a sei/sette metri dal pelo dell’acqua, quello che ti fa salire il cuore in gola.

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E  sono istanti quelli in cui insieme si mescolano sensazioni di folle gioia, di drammatica emozione, di rispetto e ammirazione verso un pesce maestoso che sta per essere vinto, sentimenti contrastanti difficilmente descrivibili.
Mio padre sapeva che doveva essere grossa quella ricciola, ma non pensava di quelle dimensioni.
Se ne rese conto quando nel suo colore grigio azzurrastro con riflessi argentati si presentò stremata sotto la murata.

– ‘U cuoppe,  Enz’, ‘u cuoppe!
Glielo porsi che lo avevo già a portato di mano.
– Tiene ‘a lenze cu’ ddoie mane, Enze, m’arraccumanne tiene… e ‘mpogne (3) i piere contr’i materie (4)…  è proprie ‘n’a bella riggiola!
‘U cuoppe ne ospitò solo una parte. Il resto lo fece l’adrenalina di cui le braccia di mio padre si erano nutrite. Una volta a bordo la vedemmo dimenarsi battendo la coda mentre occupava gran parte del paiolo di prua…

S’era fatto quasi mezzogiorno, lo capimmo dal sole ormai allo zenit.
Il tempo di fare ordine nella barca ed eccoci pronti con la prua diretta verso punta Lunghetiello per ritornare al faro.
In quel tratto di mare che ci separava dallo scaro procedemmo in silenzio rielaborando, ognuno per conto proprio, il film di quella incredibile mattinata.

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A  terra avvolgemmo la ricciola in un sacco di iuta per portarla in due; il che ci consentì di affrontare con meno fatica il sentiero che si inerpica lungo il costone di mezzogiorno per arrivare al faro. Giunti su, la bilancia bascula ci confermò che si trattava veramente di un bell’esemplare.
La ricciola pesava 13 chili e 300 grammi.

Che ne facemmo?
La consumammo di lì a qualche giorno con un bel gruppo di famiglia in occasione della festa di san Silverio di quell’anno.

 

Note
(1)
‘ngannari’ = allettare; (2) ‘ncuccia’ = agganciare; (3) ‘mpogne = puntare; (4) materie = madiere, ordinata (parte più bassa delle costole della barca)