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Scuola (11). Quando in classe proposi gli haiku…

di Bruno Santoro

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Ho ritrovato per puro miracolo – potenza degli stimoli di Ponzaracconta! – del materiale del 1991, salvato poi negli anni seguenti in un piccolo database disegnato con un antico programma, File Maker: si trattava di un esercizio corale per stimolare lo spirito di gruppo, occorreva creare degli Haiku sul modello di quelli giapponesi, allora ancora poco conosciuti.

La classe, per gli antichi docenti Dudovich (*), era una prima delle sede di via Oderzo, specialità di Figurino e Moda: una classe molto numerosa (31 alunni), mista ma a larga prevalenza femminile e incredibilmente interessante: giovanissime e spiccatissime personalità con i maschi per una volta a non prenderle in quanto a sensibilità e apertura mentale.

Proposi l’esperienza che fu accolta molto bene da entrambe le componenti anche se con qualche perplessità da parte dei più timidi e stabilimmo le regole: poi tutti, a turno, per più settimane recitarono in classe le loro produzioni. Il tema era libero, così la struttura: l’unico vincolo era che fossero originali e non avessero alcuna rima obbligata e ripetuta: insomma, versi liberi.

Il più timido e introverso del gruppo, un ragazzino (che adesso avrà naturalmente 45 anni circa…) con dei grossi occhiali da miope e l’aria di essere capitato lì per puro caso si presentò con una serie di piccole deliziose composizioni di una freschezza che lasciò sbalordite le mie piccole raffinatissime e molto competitive allieve della classe (ricordo una Shirley, una Sabrina…): tanto che, dopo qualche giorno di sconcerto, dovettero ammettere che a confronto le sue erano davvero diverse e ogni settimana finirono per aspettare le sue composizioni. Fu così che, come in certi racconti un po’ mielosi, il più umile e meno aggressivo quattordicenne della classe acquistò agli occhi di tutti i compagni una sorta di ‘grandezza’ nuova e vertiginosa, una ‘adultezza’ indiscutibile e da invidia… una vera scoperta, anche per me, che dovevo trovare parole da arbitro imparziale che distribuiva a tutti una pacca di incoraggiamento, un cenno di approvazione e lasciando a loro tutto il resto…

Nessun errore veniva corretto, nessun verso modificato anche se qualche suggerimento poteva essere dato ma solo quando veniva sollecitato. Quelli di Paride, come si vede, avevano un uso molto disinvolto della lingua, ‘usavano’ le parole nel senso più puro, quello del suono, le torcevano alla bisogna, alla ricerca del metro, di un ritmo interno che tutti chiaramente sentivano.

Senza voto, senza giudizio, ognuno con quel che aveva da dire se ne aveva, non era poi così difficile esporsi, misurarsi: scoprirsi attraverso un verso, che se è autentico non compromette, non diminuisce, non stabilisce misure e confronti. I maschi scoprirono l’indiscutibile maggiore esperienza emotiva delle femmine, la loro superiorità di consapevolezza ed espressione: le femmine che anche i maschi avevano guizzi di vita interiore, parole per dire, emozioni da non sottovalutare e schernire…

L’esperienza durò un paio di mesi, poi continuò anche con la narrativa e piccoli racconti. So di certo che almeno uno di quei ragazzi ancora oggi scrive, ogni tanto mi manda qualche racconto, ancora vorrebbe qualche consiglio… e io rido sotto i baffi che non ho perché adesso  lui… adesso scrive certo meglio di me!

Questo è quello che sono riuscito a ritrovare delle poesie paridiane che mai volle in seguito partecipare a qualche piccolo concorso di poesia nonostante l’avessi tante volte invitato a farlo.
Fui con loro un solo anno e ancora adesso rimpiango quella prima M, quelle belle intelligenze e quei sorrisi soddisfatti alla fine di ogni lettura…

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(*) – Istituto Superiore Marelli Dudovich di Milano
Immagine di copertina: Hiroshige (1797-1858) – Tamagawa no shugetsu (Luna d’autunno sul fiume Tama)