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Zannone e la notte della pesca miracolosa

di Enzo Di Fazio

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Il faro di Zannone, prima dell’automazione avvenuta nel 1975, era presidiato da tre fanalisti. Mio padre vi ha prestato servizio per molti anni e io spesso gli ho fatto compagnia. Il regolamento prevedeva che, con turni di 15 giorni a Zannone e 7 a Ponza, vi fossero sempre due guardiani. Le estati in genere le trascorrevamo con lui e spesso capitava, nel periodo giugno-settembre quando si era con la famiglia, che sull’isolotto rimanesse, previo accordi, un solo fanalista. Ciò consentiva di stare più tempo a Ponza, utile in particolar modo a chi aveva qualche catena di terra da coltivare e qualche filare di viti da curare.

Insomma non di rado succedeva di rimanere da soli sull’isola, piacevolmente da soli aggiungo io, padroni assoluti di una natura generosa e incontaminata. Dico generosa pensando soprattutto alla pratica della pesca e a quello che dalla pesca ogni fanalista traeva abitualmente.

A Zannone si praticavano tutti i tipi di pesca: con il lentino si prendevano le perchje, con le coffe (il palangaro) i saraghi, gli scorfani, le cernie e le musdee (mostelle), con le reti i pesci per la zuppa, con le cosiddette spugne calamari e totani, con i camage (lenze da posta da lasciare tra gli scogli) i gronghi e le murene, con i cuoppe e lo specchio i felloni (le granceole), con la lenza a traino dentici e ricciole, col le nasse polpi, scanderi (tanute) e, quando si era fortunati, anche qualche aragosta. E, infine, quando era cattivo tempo e il mare spumeggiava tra gli scogli non si perdeva tempo e con la cannella prendevamo le occhiate attirate dal famigerato remige, accattivante impasto di crusca, pane duro, pomodoro e colatura di alici salate
In definitiva le facevamo tutte e, che io ricordi, non siamo mai tornati a terra a mani vuote.

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La barca del faro. Ai remi mio zio, Silverio Scotti, a prua mio padre

E proprio di pesca voglio parlare, attingendo al cassetto dei ricordi, per raccontare la storia di una giornata che mio padre definì miracolosa e tale da me sempre ricordata in quanto mai più vissuta una simile negli anni che seguirono.

I fanalisti avevano una bella barca sfilata lunga cinque metri, messa a disposizione dal Comando Zona Fari di Napoli e dotata di un Moscone di 5 cavalli, un fuoribordo di non grosse pretese ma capace, per le cure che gli dedicavano i fanalisti, di non deludere mai.


lo scaro del faro, luogo ove venivano tirate a secco le barche

La pesca più frequente era quella a perchje c’u lentine. Le perchje c’erano in abbondanza e un po’ di posti dove pescarle i fanalisti li conoscevano grazie anche alle dritte dei segnali che i pescatori di Le Forna, frequentatori di quel mare, non lesinavano a fornire.
Le lenze con le esche, in genere rufele (gibbula) e patelle o pezzetti di calamaro quando ci andava di lusso, venivano preparate il giorno prima. Si usciva di buonora, col fresco, in modo da stare a terra verso le dieci/dieci e mezza, praticamente prima che la giornata si infuocasse.

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la perchia (serranus cabrilla)

Quel giorno non fu particolarmente fruttuoso per via della corrente che ci scarrocciava continuamente. A qualche centinaio di metri da noi, a ponente, c’era il gozzo di Pettenisso, abile pescatore di Le Forna, che stava tirando le coffe.
Come accadeva quando incrociavamo qualche gozzo proveniente da Ponza ci avvicinammo per fare due chiacchiere con l’equipaggio.
Quella volta anche per Pettenisso non andò granché bene.
“Tato’, vire cca… quatteciente ambere (1) e si e no 7/8 chile ‘i pisce”

Pettenisso mentre tirava toglieva dagli ami i pezzi di esca rimasti, più o meno mangiucchiati, riponendoli in una cassetta ai suoi piedi.
Mio padre gli chiese:
“Ma, dimmi Salvato’, che ne faie ‘i chille muorze (2) d’esca?”
“Tato’… niente… ‘i purtamme ‘ nterra p’i dda ‘i jatte”
“Salvatò, allora damme ‘na mezza cascetta, ce ‘a llesche (3) ‘na coffa ‘i cinquante ambarielle, accussi juste pe divertirci ie e ‘u uaglione”.

Salvatore prontamente porse a mio padre la cassetta e dopo qualche altra chiacchiera e i saluti finali, li lasciammo continuare nel loro lavoro mentre, girata la prua verso terra, avviammo il moscone per tornare al faro.

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Non erano ancore le dieci e a terra non c’era da fare granché. La pulizia alle ottiche era stata già fatta come quella ai vetri della lanterna e all’ottone della targa posta all’ingresso del portone.
Io alla guida del Moscone, mio padre seduto al centro. Ci godevamo il fresco del mattino respirando a pieni polmoni le essenze della fitta macchia del bosco che lo iodio sprigionato dal mare andava a contaminare.
“Uaglio’, nun fa niente si oggi mangiamme cchiu’ tarde? – disse mio padre guardando la cassetta con i mozziconi d’esca stesa sul pagliolo.
“No, papà! Dimme, ch’amme fa?”
“Bene, Enzu’ arrivamme nu mumente ‘nterre, tu scinne n’attime e va a piglià ’a cuffetelle che, già pronta, sta dint’ a rotta. Ampresse ampresse (4) ‘a llescamme e ‘a calamme, a parti’ da preta e fine a sotto ‘i fenestune”

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Quanto mi piacevano queste genialità di mio padre, rare ma sempre efficaci!
Calammo come programmato la cordicella del palamito con gli ami e per l’una e mezza stavamo a terra.
Il ritiro della coffa era stato programmato per il mattino del giorno dopo. Perciò pranzammo con tutta calma, un riposino per ritemprarci dalle fatiche mattutine e nel pomeriggio ognuno a coltivare i propri passatempo.

Mio padre l’orto, un pezzetto di giardino, situato lungo la discesa che portava allo sbarcatoio, da cui ci ricavava dell’insalata e dei gustosissimi pomodori che, quando li mangiavi, non c’era bisogno di condirli tanto erano buoni per via della salsedine che vi arrivava dal mare. Io mi dilettavo a disegnare quando ero ispirato, altrimenti me ne andavo per il bosco alla scoperta della ricca macchia mediterranea che, fatta di mirti, lentischi, lecci, corbezzoli, elicrisi, felci, euforbie e tant’altro, si combinava con le trasparenze del mare.

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Di norma si andava a letto presto, non più tardi delle nove ma non prima di essere stati una mezz’oretta sul muretto del cortile ad ammirare il cielo, a contare le stelle, a individuare Sirio, Venere e i carri.
A farci compagnia in quella pace assoluta la luce del faro, il frinire dei grilli e lo sciabordio del mare contro gli scogli a due passi da noi. Poche parole. Ognuno per proprio conto sapeva cosa cogliere dalla ricchezza di quel contesto.

Ruppe il silenzio mio padre:
“Enzu’, ma vide che calmaria. Dimme, tu tiene suonne?”
“No, papà, pecchè?”
“Allora, si nun tiene suonne pecchè nun jamme a tirà ‘a cuffetella? ‘U mare è cumme na tavola e ce sta ‘a luna chiena che ce da’ ‘na mano. Chillu muorze ‘i esche, già miezze miezze, se ‘a putute fa quaccose già l’a fatte”

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Il tempo di prendere un giubbotto a testa e una torcia elettrica che stavamo già a mare.
Uscimmo senza fuoribordo, non dovevamo andare lontano, il percorso da fare era breve e francamente il rumore del moscone non era proprio adatto per quella situazione. Non ci dicemmo nulla io e mio padre, c’era una tale complicità in certe momenti che bastavano gli sguardi a farci capire cosa dovevamo e non dovevamo fare.
Io ai remi, mio padre seduto a prua per darmi le indicazioni per arrivare al galleggiante
In meno di un quarto d’ora fummo sul posto.

“Fermati, Enzo, ‘u petagne (5) sta sott ‘a murata. Accummenciamme a tira’”

Beh, di notte era stato a pescare, a calamari, a totani… ma non mi era mai capitato di tirare un palangaro sotto il cielo stellato.

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Con la torcia illuminavo lo specchio d’acqua intorno alla corda che mio padre piano piano tirava su deponendola a cerchio sul pagliolo.
Ed ecco apparire sotto il pelo dell’acqua il primo pesce ancora vivo attaccato all’amo del terzo filacciolo: uno scorfano bello rosso, sicuramente superiore a mezzo chilo. E a seguire ogni 5/6 filaccioli altri pesci: ora un sarago, ora un grongo e poi ancora uno scorfano, una murena che si era impiccata al filacciolo a furia di dimenarsi, una musdea e perfino un polpo di un mezzo chilo che riuscimmo a tirar su con il coppo prima che si sganciasse dall’amo.

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Insomma una pesca miracolosa. Riempimmo un secchio di pesci belli, vivi, luccicanti, presi con delle esche che forse pure i gatti avrebbero rifiutato.

Erano anni quelli in cui anche i pesci si accontentavano di poco…

 

(1) ambere = amo; (2) muorze = pezzetto; (3)  allesche = mettere l’esca all’amo; (4) ampresse = presto; (5) petagne = galleggiante, boa segnaletica