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L’angolo di Lianella/5. Rientro in paese (seconda e ultima parte)

di Amelia Ciarnella

 

per la prima parte (leggi qui [1])

I giorni che seguirono a questo nostro rientro in paese furono un periodo veramente duro e problematico.  Dovemmo affrontare un tenore di vita a dir poco catastrofico. Poco cibo, niente acqua e niente luce. Per fortuna era estate e nelle campagne, sebbene non coltivate da tempo, gli alberi producevano ugualmente la frutta e si mangiava quella. L’acqua si prendeva dai pozzi come nei tempi antichi e per la luce erano pochi i fortunati da avere una candela. La maggior parte si serviva di una lucerna ad olio. Ma non certo di oliva. Era un olio di motore per autocarri o altri tipi di macchine lasciato in giro dai soldati e si usava quello per alimentare la lucerna che faceva un fumo nero e puzzolente, anche pericoloso da respirare.

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Però l’unica luce era quella e, in caso di necessità, se si doveva fare qualche lavoro di sera era inevitabile che si respirasse quel fumo, anche se dannoso.

Ovviamente, la mattina ci si risvegliava col naso nero, sia dentro che fuori, ma nessuno se ne preoccupava più di tanto poiché c’erano altri problemi molto più gravi di quello. L’unica fortuna era che, stranamente, in quel periodo, nessuno si ammalava (ancora doveva arrivare la malaria che mise a letto l’intero paese).
Invece, ciò che maggiormente preoccupava erano le mine, sparse ovunque.
Ogni giorno si sentiva qualche grossa esplosione e di sera, immancabilmente, si conosceva il nome dello sventurato che era saltato per aria.

Questo perché ogni abitante, spinto dall’impellente necessità di procurarsi del cibo, cercava di ricominciare a coltivare il proprio terreno per poter sopravvivere. Ma le mine erano tante soprattutto coperte dall’erba alta. Per cui quasi nessuno riusciva a vederle. Solo dopo diversi mesi arrivarono gli sminatori ma già erano saltate per aria diverse persone. Dopo gli sminatori, arrivarono anche gli incaricati a raccogliere i corpi dei soldati, caduti morti durante i combattimenti, che erano stati sepolti in fretta e rimasti semiscoperti.

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Ogni volta che io e mia nonna andavamo in campagna e passavamo davanti a due piccoli cimiteri, rasenti la strada, vedevamo le sagome di questi giovani corpi, coperti da pochissima terra e ci facevano una gran pena. Credo fossero poco più che ragazzi.
Ricordo che questo lavoro di “raccolta corpi” durò diversi giorni.

Quando questi uomini attraversavano il corso principale del paese, portando sulle spalle i sacchi con dentro quei poveri corpi disfatti e sgocciolanti dal tempo e dall’umidità, alcuni dicevano che la malaria che colpì in seguito l’intero paese fu provocata da quello sgocciolìo di cadaveri putrefatti che, secondo loro, era tutta infezione trasformatasi poi nell’epidemia di malaria. Ma niente di più falso, poiché la malaria fu dovuta esclusivamente all’impaludamento del Garigliano fatto, di proposito dai nemici del momento, affinché si sviluppasse un’epidemia di malaria che infettasse tutta la popolazione civile che abitava nei paesi lungo la costa. Cosa questa che si verificò puntualmente.

Pare addirittura che gli scienziati tedeschi inventassero anche una zanzara “particolare”, capace di fare sviluppare questa malaria. E tutto accadde regolarmente come avevano predisposto e desiderato (più soddisfazione di così!?). Se poi sono state solo voci di popolo, non so. Ma noi, purtroppo, abbiamo sperimentato proprio questo, insieme a mille altri disagi e alla fame.

Prima che si diffondesse questa epidemia di malaria si andava in campagna quasi ogni giorno poiché era l’unico posto dove si riusciva a trovare del cibo, come frutta e verdura e perfino “proteine”. Infatti gli steli delle erbe e tutti i fili di paglia erano pieni di lumachine, una specie di lumache molto più piccola delle solite lumache che si conoscono oggi,  e come “proteine” si mangiavano quelle. Ve ne erano un’infinità, ormai tutte scomparse da un pezzo, come pure le ranocchie che, prima della guerra, riempivano i fossi, le pescavano, le vendevano ed era un’attività redditizia come quella dei pescatori. Poi, con la comparsa degli anticrittogamici, che hanno avvelenato ogni cosa, sono sparite le ranocchie, le lumachine e altri animaletti simili.

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E’ stato davvero molto difficile ricominciare una vita normale!
Ricordo che una volta, insieme a mia madre, per comprare un chilo di farina di granoturco, siamo dovute arrivare a Suio, una località distante una ventina di chilometri dal nostro paese e a piedi.

Al ritorno, giunte alla base della collina che dovevamo ancora salire per essere a Tufo, io non ce la facevo proprio più e, appesa al braccio di mia madre, trascinavo letteralmente le gambe. Fare quaranta chilometri in un giorno  sarebbe faticoso per tutti, ma per una ragazzina di undici anni, debole e sempre inappetente quale ero io a quei tempi, lo è stato ancora di più.  E quella stanchezza così “spropositata” mi è rimasta impressa nella mente e ancora la ricordo.

Intanto iniziava a fare la sua comparsa la malaria che nessuno di noi conosceva.
Era piena estate e, di tanto in tanto, qualcuno cominciava a sentirsi male.
Tutto aveva inizio con un malessere generale e brividi di freddo che ben presto si trasformava in un freddo abnorme che costringeva i malcapitati a battere i denti, a stringersi e arrotolarsi su sé stessi per cercare di riscaldarsi, ma soprattutto per frenare quel tremore diffuso in ogni parte dell’organismo che provocava dolori ai tendini, ai nervi e alle ossa di tutto il corpo.  E nessuna coperta era sufficiente a riscaldare. Poi, il freddo passava, la febbre aumentava a dismisura e arrivava un caldo insopportabile, con febbre alta e delirio che durava due o tre giorni.

Finita la febbre, quando tutto sembrava essersi concluso e ci si illudeva di essere ormai guariti, tutto ricominciava daccapo come prima e si ripeteva puntuale, sempre alla stessa ora.
Questo durava diversi giorni. Tanto che alla fine se ne usciva deboli, pallidi e allampanati, da sembrare dei cadaveri ambulanti.

Io l’ho avuta in modo così grave da rimanere in coma tre giorni. Poi, quando tutti credevano che fossi morta sono tornata in vita e da quel giorno non mi è più venuta.

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Di quei tre giorni di coma conservo ancora una strana sensazione che ricorderò sempre.
Mi sembrava che una forza formidabile mi tirasse per strapparmi dal letto sul quale ero, ma io mi opponevo con tutte le mie forze stringendo i denti e tirando dalla parte opposta per non farmi portar via. Quando poi ho sentito che quella forza enorme aveva mollato la presa e mi aveva lasciato, mi sono risvegliata uscendo dal coma e mi sono ritrovata spossata e stanca.

Ecco, questa è stata la mia più brutta esperienza vissuta durante la Seconda Guerra Mondiale, che spero non debba più ripetersi. Per nessuno.

 

Fine seconda e ultima parte

Nota della redazione: le foto di repertorio sono prese dal web