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Salvate Aldo Moro: la trattativa e la pista internazionale (seconda e ultima parte)

di Fabio Lambertucci

 

per la prima parte (leggi qui [1])

Il secondo saggio è del giornalista del quotidiano “La Stampa” di Torino Francesco Grignetti (1961) che nel 2018 ha pubblicato Salvate Aldo Moro. La trattativa e la pista internazionale (Melampo Editore di Milano, pp. 164).

Nel libro vengono ricostruite, tramite fatti e documenti, le tappe della pista internazionale che portò ad intavolare la trattativa segreta per salvare Moro (in più si ricorda che anche la Svizzera e la Germania occidentale avevano stipulato accordi con l’OLP di Arafat). Tra l’aprile e il maggio 1978, quando tutto sembrava precipitare, con l’aiuto di Arafat e del Maresciallo Tito, i servizi segreti italiani cercarono una trattativa per salvare la vita di Aldo Moro, passando, come abbiamo già visto nel saggio di Alessandro Forlani, per i palestinesi del FPLP di George Habbash, la banda del terrorista Carlos e i tedeschi della Baader-Meinhof o RAF. I rapporti tra gruppi terroristi e la galassia internazionale dei movimenti “rivoluzionari” esistevano da lungo tempo e si trattava di riattivare certi contatti. Le mediazioni andarono molto avanti, al punto che il 9 maggio 1978 era in programma uno scambio che avrebbe avuto dell’incredibile: quattro terroristi tedeschi della RAF, sarebbero stati liberati e portati in Medio Oriente in cambio della vita dello statista italiano e per le Brigate Rosse l’agognato “riconoscimento politico” sarebbe giunto dai Paesi non allineati. All’ultimo però tutto saltò.
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Voglio segnalare a chi è convinto che il caso Moro sia stato telecomandato dagli statunitensi il paragrafo “Le conclusione della CIA” alle pagine 104-105:
 
<<“Il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse sta costringendo i politici italiani a costruire un ponte sopra un abisso politico. Le molte questioni sollevate dal caso potrebbero provocare cambiamenti fondamentali nella direzione del Paese”. E’ il 27 aprile 1978. L’ufficio della CIA a Roma scrive un lungo rapporto a Langley, la sede centrale. La CIA monitora gli eventi perché la stabilità dell’Italia non è assicurata. “Sei settimane dopo il rapimento” – si legge nel rapporto – “un’aria di incertezza e di sfiducia pervade la vita politica italiana. Questa sensazione risulta in parte dall’assenza di Moro, ma riflette anche la frustrazione molto diffusa per l’incapacità del governo di rintracciarlo”. L’uomo della CIA non nasconde minimamente l’inefficienza della polizia italiana in questo frangente. Né quanto fosse incerto l’equilibrio tra le forze politiche che hanno dato vita al governo Andreotti. Il terrorismo morde ma è l’economia malmessa che preme di più alla CIA. Gli statunitensi sono a conoscenza che il compromesso storico si fonda su una politica economica condivisa. Per paradosso della storia, Dc e Pci hanno concordato che si deve procedere sulla strada dell’austerity perché così vuole il Fondo monetario internazionale. E alla CIA va bene così.
E’ un fatto però che nel rapporto di quel giorno, ormai desecretato (è tratto da PAOLO MASTROLILLI – MAURIZIO MOLINARI, L’Italia vista dalla CIALaterza, 2005, ndA) si può leggere una valutazione largamente favorevole della CIA per la politica di Aldo Moro e il rammarico per il vuoto che sta lasciando: “La tensione riflette l’assenza dell”influenza stabilizzatrice di Moro, sia sul suo stesso partito, sia nelle relazioni con i comunisti. La capacità di Moro di mediare nei rapporti tra Dc e Pci rappresenta uno dei maggiori contributi alla politica italiana”. La CIA, in definitiva, pur parlando di Moro, ormai al passato, a questo punto s’interroga preoccupata sulla capacità di tenuta dell’Italia. Il rapporto si conclude domandandosi soprattutto quali effetti il sequestro avrebbe avuto “sulla coesione interna della Democrazia cristiana e sulla sua capacità di restare la maggiore forza politica italiana>>.
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Riporto per concludere le Conclusioni di  Francesco Grignetti:
<<Ciò che ho scritto finora sono i fatti. Occultati, nascosti, sottaciuti, o mai del tutto capiti anche quando vengono alla luce, ma sempre e solo fatti. Che i dirigenti palestinesi abbiano avuto un ruolo nel caso Moro, ad esempio, si viene a sapere presto. Il settimanale L’Espresso ne parla già nel 1979. Subito dopo lo storico Robert Katz riporta altre indiscrezioni nel suo libro.” Fonti arabe” – scrive – “avrebbero rivelato che Arafat, in collaborazione con l’ala estremista dell’OLP capeggiata da George Habbash cercò, nel corso del rapimento, di allacciare contatti con le Brigate Rosse per convincerle a risparmiare il prigioniero. Questi tentativi erano però falliti in quanto le Brigate Rosse erano impenetrabili”.

Distinte dai fatti, poi, ci sono le interpretazioni. I dubbi, le ipotesi, le speculazioni. Le chiavi di lettura. Ed è necessario addentrarci anche nelle interpretazioni. Di questa trattativa internazionale, infatti, sappiamo molto ma non tutto. Ignoriamo l’aspetto più importante: perché andò male e perché Aldo Moro fu ucciso il 9 maggio. Non resta che interrogarci. Perché la trattativa che doveva portare a uno scambio di prigionieri, condotta da personalità amiche dello statista, fallì così miseramente?

Non mi avventuro a sostenere responsabilità della CIA, del KGB o di chissà chi altri. Però evidentemente ci fu una spinta potente a dire di no. Ce ne potrebbe parlare chi sa, ma è inutile aspettarsi rivelazioni da parte del capo delle Br, Mario Moretti. Non a caso è chiamato “la sfinge”. Moretti è fermo nel rivendicare il carattere nazionale e autonomo del partito armato, chiuso in una partita tutta politica, tetragono nel sostenere che le Br avrebbero colto volentieri i segnali benevoli di Zaccagnini, ma non arrivarono mai… Eppure, quarant’anni dopo, all’apertura di certi archivi, qualcosa di diverso s’intravede in filigrana nella storia del caso Moro. Molti e continui furono i contatti internazionali con arabi, tedeschi, svizzeri, francesi e genti dell’Est. I rapporti con altre organizzazioni armate accompagnarono la nascita e l’intera parabola del terrorismo rosso. Né poteva essere altrimenti per un gruppo che si ispirava alla storia dei bolscevichi, intriso di cultura internazionalista, cresciuto nel culto dei movimenti rivoluzionari e di liberazione. I brigatisti che fecero prigioniero Moro, ormai ci è chiaro, erano un gruppo di fanatici comunisti che giocava a fare la rivoluzione.

Eppure non era affatto un gioco. Il sangue che scorreva nelle strade era drammaticamente reale. Moretti e gli altri erano giovani che avevano messo in moto un ingranaggio più grande di loro, prigionieri della loro stessa ideologia. Ce lo dicono essi stessi: a un certo punto non si poteva più tornare indietro. Possiamo così solo immaginare il loro smarrimento quando giunse inaspettato un messaggio da figure mitiche per il loro universo – il comandante Arafat, il Maresciallo Tito – che intimavano di smetterla, di accettare uno scambio diverso da quello che pretendevano, in definitiva di venire a patti con quello Stato che sognavano di abbattere.

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I figli della rivoluzione si ribellarono ai padri? Forse è questa la chiave per capire l’esito dei 55 giorni? Le pressioni che arrivarono da certi “amici”, a cui era sempre più difficile dire di no, indussero i brigatisti a chiudere brutalmente l’operazione? Se le cose sono andate davvero così, c’è da pensare che, la sera dell’8 maggio, Moretti e gli altri abbiano deciso di uccidere Moro non perché si era alla vigilia di una importante riunione della Democrazia cristiana, come si è sempre pensato, ma perché si era alla vigilia dello scambio dei prigionieri.

Ci si è sempre interrogati, infatti, sul perché non vollero più aspettare. Certo, i capi brigatisti e ancor di più i militanti semplici non comprendevano i bizantinismi del potere democristiano. Non ne padroneggiavano i riti, le parole, i silenzi. ma capivano fin troppo bene le pressioni, finora ignote, che venivano dal network del terrorismo internazionale. Le Br forse si resero conto che di lì a un po’ avrebbero dovuto accettare un riconoscimento politico che tale non era, per di più lungo una via tortuosa e non facilmente spendibile sul piano della propaganda. Fu per questo motivo che decisero di riaffermare con il sangue di Moro la loro piena e totale indipendenza? Di sicuro il 9 maggio non ci poté essere nessuno scambio internazionale perché il presidente a quel punto era un cadavere. Il fallimento della trattativa a un passo dal successo, fu un cruccio di tanti, ma soprattutto di Yasser Arafat. Con l’uccisione di Moro aveva perduto un alleato, ma anche la faccia.

Il solito Giovannone al termine di quella primavera di sangue e dolore scrisse alla Centrale un ultimo drammatico cablo cifrato. Riferì di un lungo colloquio al quartier generale dell’OLP in cui gli garantirono che per Arafat la questione non era affatto chiusa: chi aveva rifiutato le sue condizioni avrebbe pagato caro. Giovannone annunciava che per Nemmer Hammad, il noto ambasciatore dell’OLP a Roma, c’era un nuovo delicato incarico essendo stato “…personalmente incaricato da Arafat promuovere ricerca ogni utile elemento riguardante mandanti et esecutori operazione Aldo Moro utilizzando già attivata rete informatori palestinesi Europa et coordinando operazione con nostro rappresentante”. E’ l’ultima clamorosa rivelazione di cui dobbiamo essere grati alla commissione Moro. Questo vecchio telegramma di quarant’anni fa, emerso solo ora da un archivio del Sismi, ci dice che palestinesi e italiani (e jugoslavi?) avviarono una caccia all’uomo per scovare i mandanti e gli esecutori dell’omicidio del presidente. Ma questa è un’altra storia che ancora nessuno ci ha raccontato>>.

                                                                                   Fine seconda e ultima parte