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L’angolo di Lianella/4. Ricordi…

di Amelia Ciarnella

 

Ogni sera, quando vado a letto, faccio sempre le mie solite preghiere, come ogni buon cristiano e dico: “Mio Dio, se ci sei e mi senti, togli dal mondo le malattie, la miseria e la violenza. Facci tutti sani, santi e benestanti”. Poi passo alle richieste di protezione per la mia famiglia, per i miei figli, nipoti e la mia discendenza e dopo aver detto un pater, ave e gloria, aggiungo l’eterno riposo per tutti i miei cari parenti morti, per chi non ha nessuno e mi addormento.

Spesso però, il sonno non arriva e mi si affollano in testa mille pensieri che, se non sono piacevoli, mi innervosisco, il sonno mi passa completamente e devo mettermi a leggere. In tal caso faccio le due. Che disastro l’insonnia!

Qualche volta mi capita di pensare a quel brutto episodio, vissuto durante la seconda guerra mondiale: quando siamo rimasti nascosti in casa ventotto giorni, convinti che gli americani sarebbero passati entro un paio di giorni visto che erano accampati nella pianura del Garigliano, a soli cinque chilometri dal nostro paese.
Ma non fu così, perché i tedeschi erano ben protetti dentro l’Abbazia di Montecassino e dall’alto potevano vedere e controllare l’intera zona, compreso ogni movimento che facevano gli americani che, dal canto loro, si guardavano bene dal mettersi in mostra! Infatti, per poterli stanare dal loro nascondiglio, gli americani dovettero prima distruggere montagna e Abbazia, a colpi di cannonate e bombardamenti aerei, e solo dopo aver distrutto tutto, riuscirono a togliere le tende e avanzare verso Montecassino, attraversando il nostro paese. Cosa che avvenne soltanto tre mesi dopo, quando già eravamo sfollati a Roma.

Ricordo che durante quei ventotto giorni chiusi in casa trascorrevamo le intere giornate seduti accanto al camino a sentire le cannonate, sia dei tedeschi che degli americani, che ci fischiavano sopra la testa… ma stranamente nessuno di noi si mostrava spaventato.
Non avevamo nessuna paura, come fosse stata una cosa normale!
Quando arrivavano le cannonate, la sola cosa che istintivamente facevamo io, mio fratello e mia sorella, era quella di abbassare la testa, perché sentivamo il sibilo delle bombe che diminuiva d’intensità. Era come se dovessero cadere da un momento all’altro sopra il nostro tetto. Infatti, spesso, andavano a esplodere poco distante dalla nostra casa, e qualcuna non esplodeva affatto a causa del terreno troppo bagnato;  sentivamo solo il tonfo della bomba che si infilava nel fango!
(Se fossimo rimasti in casa fino all’arrivo degli americani, saremmo morti tutti fra le macerie, poiché una bomba centrò in pieno proprio la stanza dove noi trascorrevamo le nostre giornate vicino al camino!  Cosa che potemmo constatare al nostro rientro in paese, dopo il periodo di sfollamento a Roma.)

Il ventottesimo giorno che eravamo là, mentre fuori pioveva a dirotto, due tedeschi sfasciarono la nostra porta con un calcio e ci trovarono tutti seduti intorno al camino. Ancora ricordo l’espressione di meraviglia di uno dei due tedeschi, che fece un “ah!” prolungato: come per dire “ah! qua siete!”. E col fucile spianato si fermarono entrambi sulla porta ordinandoci in modo perentorio di uscire subito! Poi mio nonno, (non so con quali parole, visto che conosceva soltanto un po’ d’inglese!), li convinse a farci partire l’indomani quando fosse finito il temporale, e loro, stranamente, acconsentirono.
Dopo di che uno dei due tedeschi andò via e l’altro rimase, perché gli era piaciuto molto il vino che gli aveva offerto mio nonno! Infatti si era seduto vicino al tavolo e aveva cominciato a versarsi il vino da solo, fino ad ubriacarsi.

Dopo un po’, il tedesco, ormai più che brillo, mi prese le mani e canticchiando un motivo senza parole, fece, barcollando,  qualche passo di danza con me. Poi si sedette, prese in mano la pistola che aveva poggiato sul tavolo poco prima, intorno al quale era seduto anche mio nonno e il resto della famiglia, e, mostrandomela, mi disse con un sorriso: “Io adesso sparare te, solo poco poco eh?” Così dicendo poggiò  la pistola sulla mia fronte e premette il grilletto! Io sentii anche il “clic” del grilletto, ma rimasi quasi indifferente, come se la cosa riguardasse un altro e non me.
Ero inebetita completamente! Forse il mio cervello era stato già traumatizzato da qualche altro spavento, che nemmeno ricordo, e non recepiva più niente!
Di lì a poco il tedesco si sentì male e mio nonno insieme a mio fratello, lo accompagnarono vicino la finestra, dove si affacciò e vomitò. Dopo essersi svuotato e ripreso, disse di voler andar via, per cui venne accompagnato giù per le scale, fino al portone e barcollando sparì.

Era l’inverno del 1943. Se quel giorno mio nonno, all’insaputa di tutti, non avesse tolto le quattro pallottole dalla pistola di quel tedesco ubriaco, io sarei morta all’istante, senza nemmeno accorgermene! Avevo dieci anni.

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