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Isolitudine, vecchia amica

segnalato da Silvia Boccardi
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Silvia Boccardi, amica di lunga data e lunga militanza di scrittura insieme, a conoscenza delle mie ascendenze isolane, mi segnala dal web questa parola: isolitudine, neologismo, ma neanche tanto, se è riportato nella Treccani.
Centro al primo colpo, tanto più che un suo analogo – isolaitudine – figura nell’indirizzo mail di uno dei collaboratori di Ponzaracconta e ce l’ho sotto gli occhi piuttosto spesso.
Sandro Russo

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i-so-li-tù-di-ne

Significato – Condizione esistenziale di appartenenza e di isolamento propria di chi vive o è cresciuto in un’isola, in senso letterale o più raramente metaforico

Etimologia – Incrocio di ‘isola’ e ‘solitudine’, derivate dalle parole latine ìnsula (di etimo incerto) e solitudinem (voce dotta, derivata di solus, ‘solo’). Il termine è coniato da Gesualdo Bufalino in “Isola nuda” (1988).

Benché la somiglianza possa ingannare, ‘isola’ e ‘solitudine’ non sono parenti di sangue: soltanto la seconda viene dall’aggettivo solus, mentre la prima è forse derivata da in + solum (che, tra i suoi vari significati, include anche il mare). Nella nostra testa però i due concetti sono coniugati ormai da secoli, tanto da aver generato diversi rampolli: ‘isolamento’ (da ‘isola’, appunto) e il più recente ‘isolitudine’.

Quest’ultima parola deve la sua invenzione – per lo meno entro i confini della lingua italiana – allo scrittore Bufalino, famoso per il linguaggio personalissimo e baroccamente spumeggiante. In particolare la parola nasce dal tentativo di catturare l’essenza dei siciliani (e degli isolani in generale), definita anzitutto dal fatto di essere racchiusi entro i confini del mare.
Tale condizione, scrive Bufalino, è intrinsecamente ambivalente: “Da una parte ci sentiamo rassicurati dal mare che ci avvolge come un ventre materno, dall’altra amputati di ciò da cui siamo esclusi”. Da qui i tratti contrastanti tipici del carattere isolano: il senso di appartenenza e l’orgoglio della propria differenza, ma anche la sensazione di isolamento.

Ciò si ripercuote anche sulla vita emotiva degli isolani, che tendono a formare “isole nell’isola”. Ne è espressione l’attaccamento alla famiglia e al paese, che è un’enorme risorsa ma anche la possibile premessa di chiusure mafiose o campanilistiche. E anche il peculiare carattere siciliano, che oscilla tra eccessi contrari: “l’estroversa ospitale socialità, talora quasi servile, per antidoto dell’esser soli; e l’ombroso, omertoso riserbo, il claustrofilo rifiuto d’ogni contatto e colloquio”.

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A ben guardare, tuttavia, l’isolitudine è semplicemente un’espressione estremizzata di quel “paradosso antropologico” che per De Carolis ci costituisce. In tutti gli uomini infatti agiscono due spinte contrarie: quella a delimitare una “nicchia” rassicurante, nettamente distinta dal resto, e quella di lanciarsi nel vasto mondo per sfruttarne tutte le potenzialità. Entrambe portano in sé un pericolo, ma entrambe ci sono necessarie.

Per questo la parola si presta anche a estendersi al di là del suo significato originario, e oggi in particolare sta avendo un ritorno di fiamma: in tempi di Covid, infatti, ogni casa tende a diventare un’isola. Qualcuno ha anche declinato il concetto come ‘iSolitudine’ (su modello di ‘iPhone’), viste le varie forme di socializzazione tecnologica che hanno cercato di contrastare tale isolitudine divenendone il segno più emblematico.
Anche in questo caso però la parola mantiene la sua natura ambivalente. Il suo volto oscuro è l’isolamento: l’indebolirsi dei legami sociali, la claustrofobica chiusura nei confini di casa, la monotonia di giorni sempre uguali. Ma ‘isolitudine’ può significare anche ripartire dal nucleo, acquisendo una nuova consapevolezza di ciò che è davvero importante. Può essere l’occasione per ritornare in se stessi, o per rinvigorire i legami famigliari più stretti; e, per contrasto, può esaltare la bellezza di ciò che prima si dava per scontato: le serate con gli amici, le cene al ristorante, i viaggi…
Insomma ‘isolitudine’ è una parola bifronte, come la realtà che descrive: sta a noi decidere da che lato guardarla.

[4]Il mare dipinto, di Renata Conti

Le immagini a corredo dell’articolo sono di Renata Conti (*)

(*) – Renata Conti è nata a Roma.
Dopo una formazione artistica (Liceo artistico/Corso libero di figura Accademia di Belle Arti/Corso di Illustrazione IED) ha lavorato come illustratrice, visualizer e grafica pubblicitaria (Roma1986/2002). Ha insegnato visual e acquerello presso l’Accademia di Illustrazione e della Comunicazione Visiva (Roma 2001/2002).
Nel 2002 si è trasferita alle Isole Eolie, dove vive e lavora attualmente e dove è iniziato il suo percorso pittorico, in primo luogo dedicandosi al racconto del paesaggio circostante, mutevole per opera della natura e ancor più per mano dell’uomo.

[ Da: Parole d’autore, di Lucia Masetti del 19 apr. 2021, in: https://unaparolaalgiorno.it [5] ]

Appendice del 21 apr. 2021 (Cfr. Commento di Sandro Russo)

Oceano mare. Incipit

Sabbia a perdita d’occhio, tra le ultime colline e il mare – il mare – nell’aria fredda di un pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento che sempre soffia da nord.
La spiaggia. E il mare.
Potrebbe essere la perfezione – immagine per occhi divini – mondo che accade e basta, il muto esistere di acqua e terra, opera finita ed esatta, verità – verità – ma ancora una volta è il salvifico granello dell’uomo che inceppa il meccanismo di quel paradiso, un’inezia che basta da sola a sospendere tutto il grande apparato di inesorabile verità, una cosa da nulla, ma piantata nella sabbia, impercettibile strappo nella superficie di quella santa icona, minuscola eccezione posatasi sulla perfezione della spiaggia sterminata. A vederlo da lontano non sarebbe che un punto nero: nel nulla, il niente di un uomo e di un cavalletto da pittore.

Il cavalletto è ancorato con corde sottili a quattro sassi posati nella sabbia. Oscilla impercettibilmente al vento che sempre soffia da nord. L’uomo porta alti stivali e una grande giacca da pescatore. Sta in piedi, di fronte al mare, rigirando tra le dita un pennello sottile. Sul cavalletto, una tela.
È come una sentinella – questo bisogna capirlo – in piedi a difendere quella porzione di mondo dall’invasione silenziosa della perfezione, piccola incrinatura che sgretola quella spettacolare scenografia dell’essere. Giacché sempre è così, basta il barlume di un uomo a ferire il riposo di ciò che sarebbe a un attimo dal diventare verità e invece immediatamente torna ad essere attesa e domanda per il semplice e infinito potere di quell’uomo che è feritoia e spiraglio, porta piccola da cui rientrano storie a fiumi e l’immane repertorio di ciò che potrebbe essere, squarcio infinito, ferita meravigliosa, sentiero di passi a migliaia dove nulla più potrà essere vero ma tutto sarà – proprio come sono i passi di quella donna che avvolta in un mantello viola, il capo coperto, misura lentamente la spiaggia, costeggiando la risacca del mare, e riga da destra a sinistra l’ormai perduta perfezione del grande quadro consumando la distanza che la divide dall’uomo e dal suo cavalletto fino a giungere a qualche passo da lui, e poi proprio accanto a lui, dove diventa un nulla fermarsi – e, tacendo, guardare.
L’uomo non si volta neppure. Continua a fissare il mare. Silenzio. Di tanto in tanto intinge il pennello in una tazza di rame e abbozza sulla tela pochi tratti leggeri. Le setole del pennello lasciano dietro di sé l’ombra di una pallidissima oscurità che il vento immediatamente asciuga riportando a galla il bianco di prima. Acqua. Nella tazza di rame c’è solo acqua. E sulla tela, niente. Niente che si possa vedere.
Soffia come sempre il vento da nord e la donna si stringe nel suo mantello viola.

– Plasson, sono giorni e giorni che lavorate quaggiù. Cosa vi portate in giro a fare tutti quei colori se non avete il coraggio dì usarli?

Questo sembra risvegliarlo. Questo l’ha colpito. Si gira a osservare il volto della donna. E quando parla non è per rispondere.
– Vi prego, non muovetevi – dice. Poi avvicina il pennello al volto della donna, esita un attimo, lo appoggia sulle sue labbra e lentamente lo fa scorrere da un angolo all’altro della bocca. Le setole si tingono di rosso carminio. Lui le guarda, le immerge appena nell’acqua, e rialza lo sguardo verso il mare. Sulle labbra della donna rimane l’ombra di un sapore che la costringe a pensare “acqua di mare, quest’uomo dipinge il mare con il mare”, ed è un pensiero che dà i brividi.
Lei si è già voltata da tempo, e già sta rimisurando l’immensa spiaggia con il matematico rosario dei suoi passi, quando il vento passa sulla tela ad asciugare uno sbuffo di luce rosea, nudo a galleggiare nel bianco. Si potrebbe stare ore a guardare quel mare, e quel cielo, e tutto quanto, ma non si potrebbe trovare nulla di quel colore. Nulla che si possa vedere.
La marea, da quelle parti, sale prima che arrivi il buio. Poco prima. L’acqua circonda l’uomo e il suo cavalletto, se li piglia, adagio ma con precisione, restano lì, l’uno e l’altro, impassibili, come un’isola in miniatura, o un relitto a due teste.
Plasson, il pittore.
Viene a prenderselo, ogni sera, una barchetta, poco prima del tramonto, che l’acqua gli è già arrivata al cuore. È così che vuole, lui. Sale sulla barchetta, ci carica il cavalletto e tutto, e si lascia riportare a casa.
La sentinella se ne va. Il suo dovere è finito. Scampato pericolo. Si spegne nel tramonto l’icona che ancora una volta non è riuscita a diventare sacra. Tutto per quell’ometto e i suoi pennelli. E ora che se n’è andato, non c’è più tempo. Il buio sospende tutto. Non c’è nulla che possa, nel buio, diventare vero.

[A. Baricco. Oceano Mare; 1993 – Rizzoli Libri S.p.A., Milano]