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Il Vichingo. La scrittura tra cinema e vita

Proposto da Tano Pirrone e Sandro Russo
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Lontano lontano è un film di Gianni Di Gregorio, visto appena uscito, nel 2019, che ho avuto la gradita sorpresa ritrovare proposto da Raiplayhttps://www.raiplay.it/programmi/lontanolontano [2] (bisogna registrarsi). La sinossi del film è in fondo all’articolo.
Mi piace il mondo romanesco in via di scomparsa che il regista Gianni Di Gregorio (classe 1949, anche autore del soggetto e co-sceneggiatore, con Marco Pettenello) descrive con mano leggera (dai tempi del suo ‘quasi mitico’ primo film Pranzo di Ferragosto del 2008). È anche una dimostrazione di come vita, scrittura e cinema si arricchiscono e prendono reciproca ispirazione in una sintesi inestricabile e piena di fascino.
Ho ricordato il film per l’occasione di uno scritto inviatomi ieri da Tano (Pirrone), con queste parole di accompagnamento: “Questo è scrivere. Coinvolgimento totale, descrizione inconfondibile dei luoghi e delle persone e dei loro modi di vivere” – seguite dal commento a caldo di Angela (Caputi): “Sì, bella testimonianza, senza ombre. Sentimenti, vita, nessuna sbavatura sentimentale o di scrittura”.
È la descrizione di un amico di Gianni Di Gregorio – il Vichingo – che è poi diventato, nell’interpretazione di Giorgio Colangeli, uno dei personaggi del film.

[3]Luigi Marchetti detto il Vichingo

Il Vichingo
Testimonianza di Gianni Di Gregorio raccolta da Marco Pettenello

‘Luigi Marchetti, detto il Vichingo, era una figura storica del quartiere di Trastevere. Occhi azzurri, capelli bianchi incolti, canottiera quasi tutti i giorni, era una delle ultime schegge del popolo di Roma. Gianni Di Gregorio, regista, lo ha frequentato per tutta la vita.’

Il mio primo ricordo del Vichingo è un bambino in mutande nel Fontanone del Gianicolo, tutto gocciolante. Avremo avuto otto, dieci anni al massimo, e andavamo con altri bambini del quartiere a fare il bagno nel Fontanone, in genere la domenica. Lui insieme agli altri stava lì dentro l’acqua coi suoi occhi azzurri, che poi è per quello che lo chiamavano Vichingo.
Il bagno al Fontanone non era permesso, solo che non c’erano come adesso le guardie davanti all’ambasciata di Spagna e quindi te lo facevi lo stesso. Però se passavano i vigili erano cazzi perché loro – e noi ci cascavamo sempre – prendevano i vestiti che avevamo lasciato sul bordo della fontana e se li portavano via. Maglie, magliette, pantaloni, li prendevano e se ne andavano via. Noi allora uscivamo dall’acqua e li pregavamo di ridarceli, e stavamo lì anche mezz’ora in mutande a piangere, tutti bagnati sotto il sole, a chiedere per favore perché se tornavamo a casa senza i vestiti le nostre madri ci avrebbero ammazzati. Loro si divertivano un po’ con noi e dopo un po’ ce li ridavano. Ci dicevano di non farlo più e noi invece la domenica dopo lo rifacevamo. Era molto interclassista la cosa perché c’erano quelli del popolo di Trastevere ma c’erano pure i figli degli ambasciatori americano o spagnolo che stavano al Gianicolo. Scivolavi sempre perché sul fondo della fontana si era creato un muschietto quindi tu in piedi non ci riuscivi a stare, cascavi sempre. “Era la piscina nostra”, come disse più tardi il Vichingo.

Nel periodo delle scuole medie ci siamo un po’ persi di vista e poi ci siamo incontrati di nuovo nell’adolescenza, quando io ho cominciato a vivere dentro Trastevere nonostante i divieti dei miei, che mi dicevano di non andarci perché a quell’epoca il quartiere era malfamato. Che poi sì, c’era qualche ladruncolo ma roba di piccolo cabotaggio, contrabbando di sigarette, vendita di petardi.
“Non passare a Santa Maria”, mi dicevano, e io appena mi hanno detto così ci sono andato subito a Trastevere, e già da allora il Vichingo era sempre al bar. Ha vissuto sempre per strada, andando a casa meno possibile, una cosa che mi ha sempre affascinato. Allora non c’erano le droghe, si beveva e basta, noi bevevamo e stavamo molto all’osteria in mezzo ai vecchietti.

Un altro ricordo preciso risale a quando, sui vent’anni, cominciavo a interessarmi di teatro, e nella scuola che frequentavo veniva molta gente da fuori, tra cui una ragazza colombiana, Conchita, a cui un giorno a Trastevere fregarono la valigia, una valigiona grande con tutte le sue cose dentro. Lei sapeva che io ero un indigeno e allora mi chiese aiuto. Io andai al bar dal Vichingo, lui chiese in giro e miracolosamente dopo due o tre giorni uscì fuori ‘sta valigia, intatta, con tutto ancora dentro. È sempre stato un piccolo quartiere, si sapeva chi si fregava le cose.

Da quegli anni in poi ci siamo sempre frequentati. Lui ha avuto per tanti anni in affitto una casetta in via Mameli, che poi era solo una stanza ricavata in un appartamento. Era un posto a modo suo delizioso. Aveva qualche amica donna che ogni tanto andava lì e gli buttava via le cose inutili, perché lì gli oggetti si accumulavano, giradischi rotti, magnetofoni degli anni settanta, bottiglie vuote…

Sua madre aveva il banco di frutta al mercato di piazza San Cosimato, che non era come adesso ma un enorme mercato pieno di bancarelle e macchine, un grande casino. Lui pare che abbia lavorato qualche giorno nel banco della madre ma io non ce l’ho mai visto. Non l’ho mai visto lavorare in assoluto, mai, era proprio una cosa che non era prevista. Stava sempre al bar San Calisto, che c’è sempre stato, con la stessa conformazione e la stessa atmosfera che c’è adesso, tranne che prima c’erano più vecchietti ed era anche molto gelateria, c’era più popolo di Roma mentre adesso ce n’è veramente poco, e molti di quelli che ci sono vengono da fuori perché sono stati estromessi dal quartiere a cominciare dagli anni settanta e ottanta. Però anche se quello abita a Monte Spaccato, quell’altro all’acqua Bulicante etc. ogni tanto fanno un pellegrinaggio al San Calisto.

Il Vichingo la mattina usciva sul tardino, alle dieci, e se ne andava al bar. Stava lì fino verso l’una o le due, poi a volte si comprava qualcosa da mangiare da Venanzio, quello della pizza, che fa anche i primi, un po’ pesanti e lui infatti se ne lamentava. Se no qualche volta si cucinava da solo, perché la cucinetta ce l’aveva anche se era un casino. Dopo mangiato faceva una pausetta a casa fino alle tre o le quattro e poi tornava al bar. Lì poteva stare anche molto a lungo, perché alle nove andavano via quelli come noi e arrivavano tutti i ragazzi, ma lui conosceva anche quelli quindi fino a verso l’una stava lì, o anche più tardi. Conosceva tutti sti ragazzi, si faceva offrire da bere e a volte se ne andava un po’ imbriachetto, ma era quell’ubriachezza mai molesta perché lui aveva una misura, un’educazione.

Era molto amato perché cercava di capire tutti, stava a sentire tutti, si immedesimava e se c’era un problema dava dei consigli più o meno strampalati. Non solo a quelli della nostra età, anche ai più giovani, perché lui instaurava rapporti con tutti, aveva una grande capacità di assorbimento. Tu dirai “Certo, non c’aveva un cazzo da fa’ dalla mattina alla sera”, però mica tutti sono in grado di parlare con tutti, vecchi, ragazzi che studiano, ragazzi che non sanno manco leggere, con un’assoluta assenza di pregiudizio. Anche col prete per esempio lui ci parlava spesso, perfino con i poliziotti, lui non diceva mai: “E’ un poliziotto quindi sarà uno stronzo”. Sì, spesso può esserlo, però può essere pure che non è stronzo, se non ce parli non lo puoi sapere. Lui questa cosa ce l’aveva. Sarebbe una chiave per vivere meglio, ma non tutti ne siamo dotati.

È strano il fascino che aveva quest’uomo sulle persone, forse nei giovani si può spiegare con la libertà, perché lui viveva libero. È una cosa difficile da trovare oggi perché siamo tutti schiacciati dalla vita moderna ma lui invece non è mai stato succube. Ha vissuto con veramente pochissimi soldi, certe volte proprio zero soldi, ma c’era comunque un senso profondo di libertà, perché a lui non l’ha mai comandato nessuno, se voleva stare al bar andava al bar, se voleva andare verso casa andava verso casa. Decideva lui. E ogni volta sembrava un grande evento: “Andiamo a sederci là!” diceva, e sembrava sempre una decisione importante, anche se poi spesso ti sedevi e non dicevi niente, perché quando eravamo soli noi due potevamo stare zitti per mezz’ora, ma c’era comunque un grande senso di pienezza.

Partecipava sempre alle cose degli altri, ma aveva anche una sua vitarella, e quella sua vitarella era per me la vita più vera possibile. Lui era proprio “l’uomo”, l’uomo per definizione che non possiede niente ma ha però la sostanza, la vita, l’essenza dell’essere al mondo. E l’uomo che fa? L’uomo sta là. Non giudica, non ha malizia, non ha vendetta, se può fare qualcosa di buono lo fa, se no sta là e basta. Per questo anche dal punto di vista creativo, per il mio lavoro, è stato molto importante. Non avevo molti uomini a disposizione e a me interessava proprio l’uomo, quindi è diventato un ispiratore, una musa. Come disse un giorno mia figlia Teresa: “Gli altri registi hanno come muse delle attrici bellissime, tu c’hai er Vichingo”.

Perché il Vichingo vivendo rispondeva alle domande per cui io mi affanno da sempre. La mia ricerca, se vogliamo darle questo nome altisonante, è proprio intorno a questo: perché l’uomo vive? Perché cazzo tu stai lì su quella sedia e io su questa? Che cazzo è ‘sta storia? Beh il Vichingo un pochetto me l’ha fatto capire, direi che è l’unico che me l’ha fatto capire. Io cercavo di leggere il più possibile perché volevo capire ma lui invece stava proprio lì, e stando lì rispondeva alle mie domande più profonde. Mi ha dimostrato che la vita non è che fosse chissà ché, si trattava di stare. Stare. E stare nel modo più elegante, più plausibile, meno invadente e più collaborativo possibile, senza neanche cercare di capire che cosa stiamo facendo o vivendo perché questo non ci è dato di saperlo.
Le ultime parole che ha detto il Vichingo, quando stava per andarsene e un amico gli ha chiesto “E adesso dove andrai?” Lui ha detto: “Non lo so, non ti dicono un cazzo”. Non ti dicono un cazzo, hai capito? Quindi lui non sapeva dove stava andando però c’andava tranquillo, puntuale, non è che non ci volesse andare o fosse preoccupato, no, però “non ti dicono un cazzo”. Quello a cui l’ha detto si chiama Vittorio Terracina, adesso vive a New York ed era venuto apposta per lui, è arrivato appena in tempo per vederlo. Lui era un altro di quei bambini in mutande che facevano il bagno al Fontanone.

Insieme abbiamo fatto “Pranzo di ferragosto”. Il film gli cambio un po’ la vita, perché andò in tutto il mondo, lui stava sempre lì sulla sua sedia ma adesso c’era più gente che lo riconosceva. L’ultima volta per esempio si era impressionato perché un ragazzo di Oslo l’aveva riconosciuto. Me lo ricordo quando girammo la scena in motorino, l’avevamo fatto svegliare alle quattro e non puoi sapere quant’era incazzato. Erano i primi di settembre e lui con la canottiera aveva freddo, quindi durante quella meravigliosa passeggiata in motorino lui in realtà mi stava dicendo “mortacci tua,  guarda che cazzo me fai fa’ l’anima de li mortacci tua…”. Poi andammo tutti a Venezia e lui sul motoscafo mi disse: “Ahò, semo arivati fino a qua co’ quella cazzata che avemo fatto”.

Il giorno del suo funerale è stata una cosa memorabile. C’erano duemila persone dentro Santa Maria In Trastevere, c’era di tutto, i punkabbestia coi cani,  vecchi borghesi, intellettuali, negozianti. C’era una signora anziana, l’antica proprietaria del bar che sta proprio di fronte alla chiesa, che è entrata e si è fatta la comunione col cane al guinzaglio. Il prete lasciava fare perché aveva capito di essere stato superato dagli eventi. L’ha detto anche lui che tutta quella gente in chiesa non l’aveva mai vista. Il Vichingo era ben visto anche in chiesa. Il vecchio parroco, don Matteo, era molto suo amico, una volta gli diede anche una mano con i soldi. Adesso è vescovo di Bologna, al funerale non c’era ma ha mandato una cosa da leggere.

È stato un grande evento, c’era davvero tantissima gente. Quando sono andato per sollevare la cassa, perché ero uno dei suoi amici intimi, intorno a ‘sta cassetta piccola c’erano già venti persone e allora ho lasciato stare. L’hanno presa e la bara è uscita dalla chiesa, con tutta la gente che si avvicinava per toccare. Io gli sono andato dietro, pensavo lo mettessero nel carro funebre e invece loro sono andati dritti al bar, al San Calisto. Hanno posato la cassa sui tavoli del bar, con la piazza gremita e tutti intorno che piangevano, cantavano, facevano casino. Sulla cassa gli hanno messo il Campari Soda, le sigarette, l’accendino, io non c’avevo una canna se no ce la mettevo. È stato un momento pazzesco. Poi alla fine il carro funebre si è fatto largo tra la folla, piano piano l’abbiamo fatto passare e alla fine ce l’hanno messo dentro. E tutti a piangere.

In altri tempi magari dico una cazzata ma forse lo canonizzavano al Vichingo. Uno che non fa un cazzo, sta lì, poi muore e al funerale ci vanno duemila persone. Disperate. È una cosa curiosa, no? Pensa se fosse successo nel Medio Evo. A Trastevere per esempio ci fu un funerale grosso nel 1400, dalla parte di là verso Piazza in Piscinula, quando morì Santa Francesca Romana. Era una signora molto ricca che a un certo punto ha cominciato a dare i soldi a tutti, poveri, orfani, bisognosi, per la disperazione del marito. Era giovanissima, ventenne, ha fondato un ospedale, ha fondato il Monastero delle Oblate per assistere i poveri, ha fatto un sacco di beneficenza, e quando morì ci fu un casino, Trastevere fu invasa dalla popolazione, una ressa pazzesca. Come per il Vichingo. È chiaro che per lei c’erano gli elementi tecnici per farla santa e per il Vichingo no, però mi domando, non è che in altri tempi sarebbe successo qualcosa del genere? Forse sono io che mi faccio un’immensa pippa mentale ma credo di no.

E ho anche pensato che alla fine sarà il Vichingo a spiegarmi cosa c’è di là. Lo so che è molto mistico però io ho pensato che lui sicuramente in qualche maniera mi comparirà in sogno e mi dirà che cosa c’è, anche che è una sòla magari, ma prima o poi si fa vivo e me lo dice. È l’unico che non ti può dare ‘sta fregatura di sparire così. Se è vero che c’è qualcuno che decide dove vanno le anime allora lui sta sicuramente in paradiso, gli danno una sedia e se lo tengono lì. Non potranno fare più a meno di lui, perché un ricompositore dell’armonia serve anche lì. Una come mia madre per esempio sarà andata subito a rompere i coglioni perché si mangia male, che non è così che si fanno i carciofi… alla fine l’avranno accettata ma sono sicuro che un po’ ha rotto le palle. Lui invece secondo me dovunque è andato l’hanno accolto subito, bene, senza dover spiegare più di tanto che aveva fatto.

Perché tutto questo? Che ha fatto di tanto speciale? Ha fatto l’uomo. E un uomo è importante perché ce n’è sempre bisogno, dovunque ti trovi. Metti che stai vagando nel deserto e trovi un uomo buono che ti guarda e dice “Che stai a fa? Vuoi l’acqua? Pijate l’acqua”. E allora vivere diventa bello. Quello per me è l’uomo, non quello che ti dice “Che cazzo vuoi, questo pozzo è mio, vattene affanculo… “ Vicino a lui ho passato anche l’epoca del rampantismo, gli anni ottanta, novanta, e lui rispetto a questo era proprio l’antidoto. Molti lo hanno visto come un personaggio folcloristico e invece qua il folclore non c’entra veramente un cazzo. C’era qualcosa di spirituale, io lo so che dico una cosa assurda, che mi possono dire: “Ma che stai a di’, era il Vichingo”, ma invece io lo so che c’era qualcosa di elevato, qualcosa di più. Lui lo capivi che era stato messo lì per fare qualcosa di importante. Era buono, che è una parola assurda da dire adesso, con quello che succede, e invece lui lo era. Non ci sono parole più precise.

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A seguire, in link, una bella intervista di Arianna Finos a Gianni Di Gregorio, dove lui racconta la genesi del film, la conoscenza (poi diventata amicizia con Giorgio Colangeli e Ennio Fantastichini (morto un mese e mezzo dopo la fine delle riprese: è stata la sua ultima interpretazione) e, naturalmente, si parla anche del Vichingo.

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Gianni Di Gregorio: “L’età non spegne la voglia di libertà” [6]
Intervista al regista di Lontano lontano
di Arianna Finos – Da la Repubblica del 17 giugno 2020

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Lontano lontano; Italia 2019 Regia: Gianni Di Gregorio
Interpreti: Ennio Fantastichini, Giorgio Colangeli, Gianni Di Gregorio, Daphne Scoccia, Salih Saadin Khalid, Francesca Ventura, Silvia Gallerano.

Per cambiare vita non si è mai troppo vecchi. Questo almeno sperano Attilio, Giorgetto e il Professore, tre romani sulla settantina, variamente disastrati, che un giorno decidono di mollare la vecchia vita di quartiere e andare a vivere all’estero. All’estero dove? È solo la prima di una lunga serie di questioni da risolvere, ma il Professore, in pensione dopo una vita a insegnare il latino, si annoia moltissimo, Giorgetto, ultima scheggia del popolo di Roma, non riesce ad arrivare a fine mese, e Attilio, robivecchi e fricchettone, vorrebbe rivivere le emozioni dei tanti viaggi fatti in gioventù. Sono tutti decisi a cambiare vita e ci riusciranno, anche se forse non come si aspettavano.

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