- Ponza Racconta - https://www.ponzaracconta.it -

Il dolore dei pesci

Segnalato da Sandro Russo
[1]      

.

Mi rendo conto che un titolo del genere, per una comunità di isolani discendenti da pescatori e contadini possa risultare indigesto o quanto meno provocatorio. Posso assicurare che non vuole esserlo; io stesso sono stato pescatore, ho avuto parenti pescatori e tuttora mangio pesce, ma è un problema che mi sono posto spesso.
Ho trovato questa testimonianza stamattina
– su la Repubblica on line – nel Blog di Concita De Gregorio, che ha trasferito sul Blog la corrispondenza con i lettori che prima pubblicava nell’edizione cartacea. Mi è sembrata interessante e meritevole di essere partecipata.

[2]

Il dolore del pesce

Michele Zaccone, 52 anni, nato a Napoli vive a Roma, insegnante (precario) di sostegno  in una scuola media.
Michele ha lavorato in una comunità per minori e ora è insegnante di sostegno.

Quand’ero bambino e andavo con mio padre a pescare, ero convinto che i pesci non provassero nessun dolore. Saltavano fuori dall’acqua trascinati da in filo invisibile e da un amo infilato nella bocca. Qualcuno, addirittura, l’amo se lo ingoiava, ma non c’erano segni di sofferenza in quelle creature. Soprattutto, non emettevano nessun suono.

Per molti anni ho pensato che il dolore non espresso non fosse dolore. Ma non era cosi. Lo capii ad un tratto sulla mia pelle, quando incrociai la sofferenza che era dentro di me. Una sofferenza invisibile all’esterno, proprio come quella dei pesci che pescavo con mio padre. Avevo sempre un sorriso sulla faccia e il mio egocentrismo mi faceva sembrare una persona leggera che voleva solo gustarsi la vita. Per questo, le altre persone si sentivano autorizzate a farmi del male. Io continuavo ad ingoiare i loro ami e loro si divertivano a vedermi saltare fuori dall’acqua. Restavo ogni volta in silenzio con un’ espressione del viso sempre uguale, così i miei carnefici potevano non sentirsi in colpa per quello che mi avevano fatto.

Non erano loro ad essere insensibili, ero io che mi ero trasformato in un pesce. Averlo capito non mi ha però cambiato così tanto. Ho ridimensionato il mio egocentrismo e ho smesso di recitare il copione dell’uomo leggero, ma ho continuato a tenere dentro la mia sofferenza.
Non ho smesso di essere pesce e nemmeno pescatore. Ho solo capito che il dolore può essere silenzioso e nascondersi dietro un sorriso. E che ha perfino una sua bellezza, se hai imparato a guardarlo e a riconoscerlo.

[Da “Invece Concita” – Blog su la Repubblica on line del 9 aprile 2021
https://invececoncita.blogautore.repubblica.it/lettere/2021/04/09/ [3]]