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Il gusto del futuro

Segnalato da Sandro Russo

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Propongo da la Repubblica di oggi, 30 marzo 2021, un bell’articolo di Michele Serra, tra la politica, l’antropologia e l’utopia. Di questi tempi c’è bisogno di pensieri ‘alti’, per sopravvivere all’appiattimento dilagante.
Quindi grazie a Draghi per non usare (soltanto) le categorie della politica e a Serra per averlo rilevato.
S. R.

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La fede nel cambiamento
di Michele Serra

Draghi: riscopriamo il gusto del futuro
Averlo evocato è un merito qualcosa che tocca un sentimento condiviso. Un bisogno di giovinezza, di respiro

Il «gusto del futuro», evocato da Mario Draghi in conclusione del suo incontro con le Regioni, è un concetto talmente desueto da far sobbalzare. Il futuro, per convenzione, è ciò che abbiamo perso. È la posta che ci siamo giocati. In quel vecchio Paese (vecchio all’anagrafe, dunque oggettivamente) che siamo, futuro è una parola che può far pensare, al massimo, alle difficoltà dell’Inps. È una parola che si pronuncia con una certa apprensione: mio dio, il futuro, ce la faremo a reggerlo?

Poiché Draghi non è un rivoluzionario, ma uno stimato funzionario dell’establishment occidentale, ci si deve sentire un poco in colpa, tutti quanti, di fronte alla sua rivalutazione del futuro.
Spetterebbe, in teoria, ai visionari, ai progressisti, agli utopisti, l’idea che il futuro sia alle porte, e sia così attraente, così nuovo, così diverso da darci «gusto», da farci desiderare il suo arrivo. Dal punk in poi (chissà se Draghi conosce il punk) la cultura no-future, la mentalità no-future, la psicologia no-future ha via via egemonizzato l’Occidente (non l’Oriente, che dalla globalizzazione ha invece tratto grande energia: ma quello è il mondo giovane). Ci si è convinti della decadenza, ci si è immedesimati nella decadenza, si è introiettata l’idea di vivere tutti in una grande Bisanzio.

La sinistra per prima, che aveva nel futuro – il sol dell’avvenire, l’alba di un mondo nuovo – il suo core business, è deperita anche in conseguenza di questa morte annunciata, quella del futuro. Un gigantesco passato – vedi le sontuose commemorazioni del centenario del Pci – occupa tutto intero lo scenario.

Quanto al futuro, si contano sulle dita di una mano, però una mano ignota, le occasioni nelle quali ci sentiamo in grado di desiderarlo.
In prevalenza depressi, delusi e lagnosi, ci chiamarono baby boomer ma di quel boom non avvertiamo più nemmeno l’eco.

Quanto ai giovani sono una minoranza, talmente minoranza che Enrico Letta, con comprensibile premura, vuole dare il voto ai sedicenni, nella speranza che una flebo anagrafica possa rinvigorire la nostra vecchia società, ridando un senso al concetto stesso di futuro. Dare il voto ai giovani, in uno dei Paesi più vecchi del mondo, è soprattutto un atto di fede nel tempo e nella sua capacità di cambiare un mondo che a volte pare irriformabile.

Ancora non si è capito se la pandemia sia davvero un’occasione di cambiamento, di ribaltamento dei paradigmi, oppure lo sia solo retoricamente. Certo la pandemia dovrebbe aiutarci, desiderando la fine di un presente contagioso e asfittico, a desiderare il futuro, se non altro come liberazione da questa galera inevitabile, ma non perciò desiderabile.
Il «gusto del futuro» evocato da Draghi ci trova dunque sensibili. Sì, è proprio vero, è un gusto che dovremmo ritrovare, è un motore che dovremmo riaccendere. Vogliamo rivivere. Ci piacerebbe farlo. Abbiamo necessità di farlo.

Poi, naturalmente, le chiavi del futuro sono tante quante le differenti porte che ognuno vorrebbe aprire. Nella sbrigativa, piatta idea salviniana, il futuro comincia dopo Pasqua, giusto il tempo di riaprire le serrande e tornare identici a come si era prima.
Nei sogni che in tanti abbiamo fatto, in pandemia, il futuro è invece più sconosciuto e più gentile, comunque differente dal passato. Quale futuro immagini Mario Draghi non è ben chiaro, forse neppure a lui. Ma averlo evocato è comunque un merito, qualcosa che tocca un sentimento condiviso. Un bisogno di giovinezza, di respiro a pieni polmoni, dopo un anno passato a respirare piano, centellinando l’ossigeno.