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Il gusto del futuroSegnalato da Sandro Russo . Propongo da la Repubblica di oggi, 30 aprile 2021, un bell’articolo di Michele Serra, tra la politica, l’antropologia e l’utopia. Di questi tempi c’è bisogno di pensieri ‘alti’, per sopravvivere all’appiattimento dilagante. La fede nel cambiamento Draghi: riscopriamo il gusto del futuro Il «gusto del futuro», evocato da Mario Draghi in conclusione del suo incontro con le Regioni, è un concetto talmente desueto da far sobbalzare. Il futuro, per convenzione, è ciò che abbiamo perso. È la posta che ci siamo giocati. In quel vecchio Paese (vecchio all’anagrafe, dunque oggettivamente) che siamo, futuro è una parola che può far pensare, al massimo, alle difficoltà dell’Inps. È una parola che si pronuncia con una certa apprensione: mio dio, il futuro, ce la faremo a reggerlo? Poiché Draghi non è un rivoluzionario, ma uno stimato funzionario dell’establishment occidentale, ci si deve sentire un poco in colpa, tutti quanti, di fronte alla sua rivalutazione del futuro. La sinistra per prima, che aveva nel futuro – il sol dell’avvenire, l’alba di un mondo nuovo – il suo core business, è deperita anche in conseguenza di questa morte annunciata, quella del futuro. Un gigantesco passato – vedi le sontuose commemorazioni del centenario del Pci – occupa tutto intero lo scenario. Quanto al futuro, si contano sulle dita di una mano, però una mano ignota, le occasioni nelle quali ci sentiamo in grado di desiderarlo. Quanto ai giovani sono una minoranza, talmente minoranza che Enrico Letta, con comprensibile premura, vuole dare il voto ai sedicenni, nella speranza che una flebo anagrafica possa rinvigorire la nostra vecchia società, ridando un senso al concetto stesso di futuro. Dare il voto ai giovani, in uno dei Paesi più vecchi del mondo, è soprattutto un atto di fede nel tempo e nella sua capacità di cambiare un mondo che a volte pare irriformabile. Ancora non si è capito se la pandemia sia davvero un’occasione di cambiamento, di ribaltamento dei paradigmi, oppure lo sia solo retoricamente. Certo la pandemia dovrebbe aiutarci, desiderando la fine di un presente contagioso e asfittico, a desiderare il futuro, se non altro come liberazione da questa galera inevitabile, ma non perciò desiderabile. Poi, naturalmente, le chiavi del futuro sono tante quante le differenti porte che ognuno vorrebbe aprire. Nella sbrigativa, piatta idea salviniana, il futuro comincia dopo Pasqua, giusto il tempo di riaprire le serrande e tornare identici a come si era prima. Devi essere collegato per poter inserire un commento. |
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