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Aldo Moro, Gheddafi e Arafat (1)

di Fabio Lambertucci

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Scrive di Aldo Moro (Maglie 1916- Roma 1978) ministro degli Affari Esteri dal 1969 al 1974 (1) lo storico e suo biografo Massimo Mastrogregori (Roma 1962) (2): “Ai tempi della crisi libica del 1970-1971 e di quella petrolifera del 1973-74 strinse contatti col mondo arabo, certo impopolari, utili per il futuro. In essi rientravano anche caute mosse di avvicinamento alla galassia dei gruppi della resistenza palestinese” (citato da “1978 La geometrica potenza” in: Storia mondiale dell’Italia, a cura di Andrea Giardina, Laterza 2017, p. 752).

In questo articolo in tre parti si racconta di come il ministro degli Esteri Aldo Moro contribuì a sventare in Italia nel marzo 1971 un temibile golpe contro il leader libico Gheddafi (1942-2011), della sua politica nei confronti del mondo palestinese, dopo la strage all’aeroporto di Fiumicino del 17 dicembre 1973, che sfocerà in un accordo segreto detto “Lodo Moro” per preservare l’Italia da altri sanguinosi attentati e di come in seguito l’uomo politico democristiano tentò di sfruttare nel 1978 questi contatti mediorientali per salvare, questa volta, la propria vita dalle Brigate Rosse che lo avevano sequestrato per “processarlo” e poi infine assassinarlo.

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La comunità italiana cacciata dalla Libia nel 1970
Il ventisettenne colonnello Gheddafi, al potere dal settembre 1969, decise nel 1970 di nazionalizzare terre e imprese e di liberarsi degli “imperialisti”, arrivati quando la Libia era una colonia italiana. Il 21 luglio 1970 emanò un primo decreto che confiscava case e proprietà a chi non era “libico musulmano”, e un altro che negava i permessi per lavorare. Gli italiani, circa 20mila, dovettero abbandonare il Paese entro ottobre, con un visto di sola uscita.
Gli italiani cacciati speravano in un intervento dello Stato italiano ma Roma mantenne una linea prudente. Precisa lo storico Federico Cresti, già professore di Storia dell’Africa all’Università di Catania: “Data la situazione petrolifera della Libia, l’Italia aveva molto da perdere. I rapporti diplomatici tra due Paesi spesso dipendono da quelli economici”. Infatti mentre migliaia di connazionali partivano a forza, altri arrivavano per lavorare nelle grandi società italiane (soprattutto ENI e FIAT) che si stavano espandendo in Libia.

Nel suo saggio del 2009 L’Italia e l’ascesa di Gheddafi. La cacciata degli italiani, le armi e il petrolio (1969-1974), edito da Baldini Castoldi Dalai di Milano, lo storico Arturo Varvelli (Torino 1976), ricercatore dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano, ha ricostruito per la prima volta, grazie alla documentazione inedita degli archivi del ministero italiano degli Esteri integrata con le carte degli archivi inglesi e statunitensi, quegli anni cruciali quando Moro seppe riallacciare i rapporti con Tripoli, scartando le misure di ritorsione, contribuendo a sventare anche un golpe contro Gheddafi e puntando a compensazioni indirette in campo economico.

[2]
Riporto dal quinto paragrafo “Il fallimento del colpo di Stato di Omar Shalhi: il ruolo di Italia, Gran Bretagna e Stati
Uniti” del terzo capitolo: La ripresa delle relazioni italo-libiche.
Scrive Varvelli: “L’Italia il 21 marzo 1971 contribuiva a sgombrare il cammino della normalizzazione dei rapporti dalla più temibile delle incognite: un rovesciamento del regime di Gheddafi. Quel giorno, infatti, a Trieste, la polizia sequestrava un battello, il Conquistador XIII, che avrebbe dovuto trasportare armi e mercenari in Libia per un tentativo di colpo di Stato voluto dal potente Omar Shalhi, ex emissario di re Idris I (1890-1983, primo re di Libia dal 1951).
I fatti sono dettagliatamente narrati nel libro del 1973 dei giornalisti Patrick Seale e Maureen McConville, dal titolo The Hilton Assignment (pubblicato in Italia da Longanesi nel 1974 con il titolo Piano Hilton: uccidete Gheddafi – ndA), e sono confermati indirettamente dai commenti del ministro degli Esteri britannico sir Alec Douglas-Home (1903-1995, conservatore) riportati in un documento del 14 maggio 1973 del Foreign Office e riguardanti proprio l’uscita del libro. Dalla ricostruzione dei due giornalisti inglesi emerge la volontà dell’Italia, della Gran Bretagna e anche degli Stati Uniti di conservare al proprio posto il leader libico Gheddafi.
Il piano di Shalhi prevedeva l’invio di mercenari europei in Libia con lo scopo di prendere la prigione di Tripoli (il forte del porto costruito dagli italiani negli anni Trenta, nel codice dei golpisti “Hilton” – ndA) e liberare i dissidenti e i maggiori rappresentanti del vecchio regime imprigionati da Gheddafi, tra i quali il fratello di Omar Shalhi, Abdul Aziz (ex comandante in capo dell’esercito libico – ndA), mentre contestualmente sarebbe dovuta scattare una sollevazione militare per rovesciare lo stesso leader libico. Il colpo si sarebbe compiuto a nome di re Idris, ma di fatto avrebbe portato al potere gli Shalhi. Omar, che aveva mantenuto costantemente contatti all’interno della Libia, poteva contare sulla fedeltà delle forze di polizia, che personalmente aveva contribuito a rinforzare a scapito dell’esercito, sulla risposta positiva di quelle componenti della società libica per niente soddisfatte della politica di Gheddafi nel suo primo anno di potere e di alcune tribù legate alla Senussia (confraternita islamica fondata nel 1837 – NdA). Ma soprattutto, Shalhi pensava di contare sull’indifferenza, o meglio, sulla tacita connivenza delle potenze occidentali.
Gheddafi aveva chiuso in Libia le basi inglesi e americane e aveva espulso la comunità italiana: erano buoni motivi per pensare a possibili aiuti. Il piano, infatti, difficilmente avrebbe potuto passare inosservato ai servizi segreti occidentali. Quelli italiani avevano cominciato proprio su ordine di Moro a tenere sotto controllo gli esuli libici a Roma e le comunicazioni tra l’Italia e la Libia. Questa attenzione ai fuoriusciti libici e la collaborazione con altri servizi segreti permisero di venire a conoscenza con una certa facilità dei preparativi in corso, di seguirne gli sviluppi e infine di mandare tutto a monte.
Le valutazioni dei cospiratori si rivelarono inesatte: se vi erano ragioni sufficienti per ipotizzare almeno un tacito appoggio al rovesciamento del regime di Gheddafi, ve ne erano ancor di più per non correre pericolose avventure nel tentativo di abbatterlo. Secondo quanto riportato da Seale e McCorville, sin dall’inizio, ossia da metà 1970, quando era cominciata la preparazione del piano, gli organizzatori inglesi ai quali si era rivolto Shalhi si erano mossi con cautela cercando di ottenere una sorta di beneplacito all’azione, ma avevano ricevuto sia dal Foreign Office che dai servizi segreti un fermo no al ricorso a cittadini britannici quali mercenari per il colpo. Uno dei due organizzatori britannici era il colonnello David Stirling (1915-1990), eroe della Seconda guerra mondiale. Egli, quasi subito ritiratosi dall’impresa, aveva avuto nell’estate un incontro con il sottosegretario agli Esteri Antony Royle (1907-2001, conservatore) dal quale emerse la preoccupazione che un’avventura in cui fossero compromessi Stirling e altro personale britannico, già appartenente alla SAS (Special Air Force, il corpo speciale creato durante la Seconda guerra mondiale) sarebbe stata inevitabilmente attribuita alla Gran Bretagna. […] I funzionari britannici erano convinti che il fallimento del golpe avrebbe fatto della Gran Bretagna il bersaglio principale delle reazioni del colonnello. […] Anche gli Stati Uniti, agli occhi dei cospiratori, potevano avere buoni motivi per contrastare Gheddafi: avevano perduto la base aerea di Wheelus e ora le loro compagnie petrolifere erano costrette a ritrattare. […] Tuttavia la politica statunitense non era stata affatto ostile al nuovo regime.
Opponendosi agli allarmisti, secondo i quali il colpo di Gheddafi aveva costituito una vittoria sia per l’Egitto che per l’Unione Sovietica nel Mediterraneo occidentale, David Newson (1918-2008), sottosegretario di Stato a Washington per l’area nordafricana, e l’ambasciatore a Tripoli Joseph Palmer avevano sostenuto che bisognava lasciare un’opportunità a Gheddafi, vedendo in lui, nazionalista arabo, un baluardo contro il comunismo. […] Le continue dichiarazioni di Gheddafi in senso anticomunista confermavano l’esattezza della convinzione statunitense. […].
Washington era contraria a un intervento per rovesciare il regime e infatti non fece nulla per favorire quell’operazione, anzi, come testimoniano oggi alcuni documenti americani contribuì a farla fallire avvisando della sua preparazione i libici.

[3]

La posizione italiana era ancora più chiara e pragmatica: appoggiare una controrivoluzione avrebbe significato un rovesciamento insensato della politica araba dell’Italia […]. Per il governo italiano lo scopo primario era garantire la stabilità della Libia. Un altro colpo di mano avrebbe comportato un ulteriore allungarsi dei tempi di una riconciliazione tra i due Paesi, obiettivo che rimaneva tra le priorità da perseguire. Non sembrava lontana la stipula di accordi favorevoli fra l’ENI e il regime di Gheddafi. La posizione dell’ente in Libia sembrava privilegiata se confrontata con le grandi difficoltà che incontravano le altre compagnie petrolifere. La tattica italiana nei confronti, delineata fin dall’autunno precedente, prevedeva in alternativa a improbabili risarcimenti per gli espropri, l’ottenimento di rapporti economici privilegiati.
Nella primavera del 1971 già sembrava che alcune aziende italiane intrattenessero scambi proficui. Per tutte queste motivazioni, come ammise il politico italiano Giulio Andreotti (1919-2013, nel 1971 capogruppo della Democrazia Cristiana alla Camera dei deputati – ndA) 11 anni dopo, parlando davanti a una Commissione parlamentare d’inchiesta (è quella sulla Loggia massonica P2 – ndA), i servizi segreti italiani diedero un contributo fondamentale nel fallimento dei preparativi del colpo di Stato: “Il colonnello Roberto Jucci (Cassino 1926, capo del SIOS Esercito – ndA), adesso Generale (Comandante generale dell’Arma dei carabinieri – ndA), aveva lavorato nei servizi e si era occupato anche di un problema particolare della Libia una volta che doveva partire una nave da Trieste, se non ricordo male, carica non tanto di merci, quanto di qualcosa che doveva procurare guai alla persona di Gheddafi. Allora fu dai servizi sventata questa operazione e questo fu personalmente fatto dal colonnello Jucci”. Jucci, persona fidata di Andreotti, sarebbe stato ancora impegnato nelle vicende italo-libiche proprio su mandato di quest’ultimo, divenuto l’anno seguente presidente del Consiglio (nota dell’Autore: secondo il giornalista Mino Vignolo (Genova 1945), inviato speciale per l’estero del “Corriere della Sera” per oltre trent’anni e autore di “Gheddafi. Islam, petrolio e utopia”, Rizzoli 1981, ad aver avuto una parte di primo piano nel sequestro della nave è stato invece il generale Vito Miceli (1919-1990), capo del SID, Servizio informazioni della Difesa, ben informato dalla CIA, pp. 56 e 146).
Ciò che fu subito rilevante era il fatto che aver contribuito al fallimento del piano potesse avere ripercussioni molto positive sull’andamento delle relazioni tra Roma e Tripoli”. Come si vide nella visita di Moro a Tripoli il 5 maggio 1971.

Note
1.  Moro ricoprì la carica di ministro degli Esteri in due periodi: tra il 5 agosto 1969 e il 26 luglio 1972, nei governi guidati da Mariano Rumor (II e III), da Emilio Colombo e da Giulio Andreotti (I) e tra il 7 luglio 1973 e il 23 novembre 1974, nei governi Rumor (IV e V).
2. Massimo Mastrogregori: Moro. La biografia politica del democristiano più celebrato e discusso nella storia della Repubblica, Salerno editrice, Roma, 2016.