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Scuola (9). La classe è classe. Per l’articolo precedente, di cui questo è l’ideale continuazione: leggi qui Nello schema ‘classico’ di scolarizzazione – se vogliamo chiamare così quello fondato sul modulo “classe” -, ancora largamente condiviso tra gli insegnanti – l’attività di istruzione in classe deve essere seguita e rafforzata necessariamente da compiti a casa ed esercizi individuali; verifiche scritte e interrogazioni orali sono quindi il sistema ‘oggettivo’ di accertamento delle conoscenze realmente acquisite e delle capacità sviluppate con lo studio e l’esercizio. Pur con molte varianti e ‘ammorbidimenti’ operativi, i fautori di questo modello pensano quindi all’istruzione in termini di conoscenze e non di capacità e competenze, che ne sarebbero il frutto al termine del percorso formativo. Per chi bene conosce la realtà scolastica l’applicazione pratica di questo modello pedagogico è fluida ed efficace solo sulla carta e in ben determinate combinazioni umane e sociali. Per tutte le altre vale invece la testimonianza amara e ironica di Pasquale Scarpati (1) che fa giustizia sommaria di tanti luoghi comuni e rende un’idea (solo un’idea!) delle difficoltà quotidiane in cui vivono ed operano ogni giorno docenti, operatori e studenti. Una realtà che a volte può apparire anche spassosa, ma è più spesso drammaticamente seria sotto il profilo umano, relazionale, didattico e persino legale.
Dal punto di vista di economia di esercizio l’organizzazione per classi permette di incrociare le variabili dello spazio (concentrare in piccoli spazi molte persone) con quelle del tempo (distribuire in modo proporzionato la conoscenza nei diversi settori specialistici) (3). Tutte le scienze così come le conosciamo oggi, nascono nella seconda metà dell’Ottocento e nasce l’esigenza di una istruzione meno generica ed umanistica. Questo sistema peraltro permetteva una vantaggiosa organizzazione dell’orario delle lezioni e delle risorse di insegnamento, sempre confermando l’assunto che età biologica ed età scolastica potessero (e dovessero!) coincidere con le capacità di apprendimento e che l’insegnamento dovesse disegnare una curva di progressione in funzione dei vari gradi dell’istruzione. Dopo la II Guerra Mondiale la scuola italiana venne provvisoriamente riorganizzata da un Maggiore dell’esercito americano (!) che sostanzialmente confermò l’impianto precedente della Riforma Gentile (salvo alcuni dettagli ideologici) ma lasciando immutato l’impianto di base: istruzione organizzata per età biologica e progressione ‘ciclica’ nei saperi. Così sarà quindi anche in tutte le riforme successive, soprattutto quella che si può considerare l’unica vera riforma della scuola italiana, quella degli anni ’60 (4) divenuta effettivamente operativa negli anni ’70. Con una massa via via sempre più imponente di operatori (ad oggi circa 800 mila insegnanti e 200 mila Assistenti Tecnici e Amministrativi – ATA) e di studenti (circa 9,5 milioni) la scuola italiana non può che essere un organismo che deve formalizzare per ragioni funzionali un modello coordinato: la classe, da questo punto di vista, è una soluzione che semplifica molti passaggi. D’altra parte parlare di classe in generale e semplicemente come unità organizzativa non è corretto né rispondente alla realtà della sostanza formativa (5). Di fatto esistono diversi tipi di classe e soprattutto non è neanche raffrontabile l’incidenza (formativa, socializzante e relazionale, educativa) di una classe della Primaria (le ex Elementari) con l’impatto che una piccola comunità omogenea solo dal punto di vista dell’età biologica ha sulla formazione di un pre-adolescente o di un giovane adulto. Negli anni però i tentativi di mettere mano al modello culturale e operativo della scolarizzazione sono stati numerosi, sospinti da onde di consenso diffuso e in molti casi con esiti molto incoraggianti. Alcune sperimentazioni furono attivate ufficialmente anche dallo stesso Ministero, come quella che diede vita alla magnifica attività pluriennale della Scuola Media ‘Rinascita’ di Milano mentre negli anni ’90 fu attivato un percorso sperimentale degli Istituti ad Ordinamento Speciale (ITSOS) nei quali prevalevano i percorsi ‘open’ (cioè corsi aperti alla partecipazione di studenti di ogni età scolastica e di pari competenze pregresse) su quelli ‘orizzontali’ (cioè limitati a gruppi omogenei solo per età biologica o curriculum). In tempi molto più recenti, nell’ambito della campagna pro-digitale attivata dalla ennesima riforma detta con ottima soluzione di marketing culturale (e con identica inaffidabilità sostanziale) ‘La buona scuola’, sono stati finanziati progetti come ‘Classe 2.0’, ‘Scuola 2.0’ e diffuso quella della ‘Classe scomposta’: tutti centrati sulla necessità di variare l’organizzazione dell’accesso ai saperi e dell’organizzazione interna degli istituti e sul tema della metodologia didattica. Tutti questi progetti, ed altri che qui non nomino, avevano però centrato il vero focus della questione. Se l’intento prioritario della scuola pubblica è quello della formazione dell’individuo, del cittadino e quindi del professionista, l’impianto pedagogico e l’intera a pratica didattica dovrebbero fare perno su una salda consapevolezza professionale degli insegnanti. Questo significa che lo Stato dovrebbe investire decisamente in formazione preventiva dei professionisti dell’Istruzione e che dovrebbe accompagnare la formazione in itinere dei docenti in servizio con percorsi che ne valorizzino competenze e professionalità. Non è la classe, il problema: è un sistema che troppo spesso risulta nella pratica poco adeguato al raggiungimento degli scopi dichiarati e che non è in grado né di monitorare efficacemente la propria efficacia né di correggere i propri percorsi, modellandoli sulla complessità del mondo. Citazioni (1) – Pasquale Scarpati in https://www.ponzaracconta.it/2021/03/11/la-scuola-ovvero-larte-di-arrangiarsi/
Vignette da Paolo Iorio in La Scuol@ di PAV. Il canale dedicato alla satira e all’umorismo – www.orizzontescuola.it
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