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Corrado Augias lascia la sua rubrica su la RepubblicaProposto dalla Redazione
Dopo vent’anni Corrado Augias lascia la sua quotidiana rubrica su la Repubblica. Avremo Francesco Merlo al suo posto. COMMENTI – da la Repubblica del 28/2/2021 Vent’anni di confronto nella massima libertà Caro Augias, lo spazio delle lettere è la parte più “politica” di un giornale. È la prima cosa che leggo. Caro Augias, da quando ho l’età della ragione, ho seguito le vicende del mio Paese, sempre però alieno dall’impegnarmi. Poi, tanti anni fa, tentai qualcosa contro quella specie di ignavia e scelsi la sua rubrica come para (dei miei) fulmini. Lei ha scritto una volta che ricevere lettere appropriate “alleggerisce il lavoro”, per me, le assicuro, è stato piacevole scriverle anche quando non c’era alcuna possibilità di essere pubblicato. Valeva il gesto. Due lettori tra quelli che hanno accompagnato i vent’anni della rubrica, mi hanno mandato un cenno di congedo. Molti altri mi hanno scritto: parole che mi hanno commosso. Li ringrazio tutti, quelli che mi hanno manifestato affetto, chi mi ha suggerito un’idea, chi m’ha (civilmente) criticato. Da quando Ezio Mauro mi affidò la rubrica all’inizio del 2001, Repubblica ha cambiato tre direttori dopo di lui: Mario Calabresi, Carlo Verdelli, l’attuale Maurizio Molinari. Li ringrazio per avermi confermato l’incarico, soprattutto per avermi lasciato piena libertà di esprimere le mie opinioni. Non sempre sono stato d’accordo con la linea del giornale in determinate circostanze o su certi passaggi della sua stessa storia. Considero però la rettitudine di Maurizio Molinari, al quale mi lega un lungo rapporto affettuoso, la migliore garanzia per chiunque scriva su queste pagine, o le legga. Nemmeno a lui comunque ho taciuto il mio dissenso quando se n’è presentata l’occasione. La forza di Repubblica , da quando Eugenio Scalfari la concepì e mi volle accanto a sé nel gruppetto dei “fondatori”, è stata l’ampia circolazione di libere opinioni – beninteso all’interno di valori di fondo condivisi. Così fu, per citare un caso illustre, quando Alberto Ronchey cominciò a collaborare e volle che la sua rubrica si chiamasse Diverso parere. Regola mantenuta: diverso parere su tanti aspetti della vita politica, non però sui valori di fondo che, a dirla in breve, sono quelli riconducibili a una linea politica e culturale incarnata – tra gli altri – nelle figure di Mazzini, Gramsci, Gobetti, Bobbio. Anime del pensiero laico, liberal-democratico, rimasto eterna ma stimolante minoranza in un Paese spesso dominato da alcune ‘chiese’. Sono contento che la rubrica sia stata affidata alle solide mani di Francesco Merlo, con tutti i miei auguri. Saluto l’amico Dario Cresto–Dina, i miei vicini di stanza Concita De Gregorio e Michele Serra. Sursum corda. Per scrivere a Corrado Augias: c.augias @repubblica.it
La pagina (in file .pdf) dell’intervista di Simonetta Fiori a Corrado Augias da la Repubblica di sabato 26 febbraio: *** Appendice del 4 marzo 2021 (cfr. Commento di Tano Pirrone) Catania, piazza Duomo, obelisco dell’elefante. Sotto: particolare della fontana
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Ieri, martedì, ha esordito come conduttore della rubrica di posta tenuta per vent’anni dall’amico Augias, l’acido Merlo, ‘macca liotru’ ma senza la sconfinata cordiale, teatrale simpatia dei catanesi! Però le cose le dice in faccia, senza giri di parole. Della serie ‘cu ttia l’aiu nora, sentimi soggira’.
Oggi rispondendo ad un lettore, che pone una questione complessa, testualmente, a conclusione, racconta: “C’è una storiella che Benigni raccontò a Scalfari. Si svolge in paradiso dove Gesù incontra un vecchietto che non riesce a trovare suo figlio: ‘Come ti chiami?’. E quello: ‘Il mio vero nome è Giuseppe, faccio il falegname, ho avuto un figlio in modo un po’ strano, non proprio naturale…’. Gesù lo interrompe commosso: ‘Papà!’. E il vecchietto: ‘Pinocchio!’’’.
Merlo eredita una grande rubrica. Al fianco ha l’articolessa della saputella e sotto questa un terzo spazio, mia immancabile lettura: piccolo oblò sugli angoli bui del nostro Paese. La rubrica si chiama, appropriatamente, ‘Pietre’ ed è tenuta da un ottimo Paolo Berizzi, cui va un mio particolare saluto.
Commento al commento
Sono un “notarolo”: cerco di aggiungere sempre delle note chiarificatrici a quello che scrivo per essere certo che chi legge, altro al disturbo di farlo subisca l’oltraggio dell’incomprensibilità. Ma aggiungere note ad un commento è quasi un eccesso. Mi sono ricreduto stanotte, rileggendo il commento: quanti siciliani avranno letto o leggeranno il commento? Pochissimi o nessuno, immagino. Ma ai non siciliani, altrettanto pochi, ma innocenti, devo la chiarezza di comprensione.
Eccomi allora a tradurre e spiegare le due citazioni in vernacolo: Macca liotru si usa a Catania per definire i catanesi .doc, tanto nativi che elettivi. Come me che non sono nato a Catania, città in cui ho studiato, in cui hanno abitato ed abitano familiari carissimi. La traduzione letterale è “Marca Elefante”, facendo riferimento all’elefante che porta in groppa un obelisco e che è il segno identificativo di Catania, il suo marchio, appunto. La statua è molto antica, risale al periodo greco (su un precedente insediamento siculo, nel 729 a.C.).
Con la parola dialettale “liotru”, si indica la statua dell’elefante e, quindi, inevitabilmente, all’animale dalle grandi orecchie raffigurato. Da dove viene questo nome? Si narra che la statua del pachiderma sia opera di uno scultore greco, Eliodoro. L’opera, nel tempo si identificò con il nome del suo autore, e, nel tempo, si modificò diventando in dialetto: Liotru, simbolo della città e della “catanesità”. Altre fonti suggeriscono che il nome sia stato dato alla raffigurazione scultorea in pietra lavica con riferimento ad Eliodoro (o Diodoro) famoso negromante catanese di età bizantina.
Dalla statua all’animale il passo fu breve, per cui oggi, quando un catanese vede un elefante lo chiama affettuosamente, familiarmente “U liotru”, confermandole inconsciamente la sua incondizionata gratitudine per l’originale identità trasmessagli.
La seconda citazione è conosciutissima in italiano, non escludo anche in altre varianti vernacolari. Nella sua versione nobile la locuzione è: dire a nuora perché suocera intenda, cioè rivolgersi a qualcuno con l’intenzione che altri senta e capisca che quelle parole sono rivolte a lui.
Il mistero è sciolto, sciogliamo anche l’assembramento. Alla prossima.
La foto dell’obelisco con l’elefante, in piazza Duomo a Catania è stata annessa all’articolo di base (a cura della Redazione)