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I ponzesi visti da… (2). Ettore Settanni

di Giuseppe Mazzella

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Ettore Settanni (1901-1985) originario di Capri, fu letteralmente affascinato dal sortilegio di Ponza e dei ponzesi. Dopo una folgorante carriera di scrittore “parigino”, creatore di quello che poi verrà definito il “monologo interiore”, paragonato da Valery Larbaud per il suo libro “Gli uomini grigi” all’Ulisse di James Joyce, in Italia è ancora tutto da  scoprire.
Chi si ricorda oggi di Ettore Settanni? Il suo nome non è di quelli che ingombrano gli indici letterari. Un destino che lui forse scelse deliberatamente, allontanandosi dal mondo letterario, chiudendosi ancora di più in se stesso.
Carattere schivo si apriva solo con i suoi amici isolani tra cui prediligeva Maurino, al quale dedicherà pensieri bellissimi.
Ignorato dall’establishment letterario, salvo pochissimi critici che cercavano inutilmente di promuoverlo, si allontanò dal suo stesso successo in terra straniera, forse anche a causa del suo carattere un po’ spigoloso, scoprì Ponza che divenne il suo paradiso terrestre. Soprattutto fu catturato dall’animo dei ponzesi di cui scrive: “Non esito ad affermare che il fascino vero di Ponza sta nella tempra genuina dei suoi abitanti. Sono, questi, rari rappresentanti di un mondo antichissimo, cui sono rimasti legati inavvertitamente da un filo esile ma saldo che un occhio distratto difficilmente scorge”. A Ponza sviluppò anche una sua attività di pittore autodidatta, di cui restano numerose testimonianze.

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Settanni con alcuni amici ponzesi

Il brano che proponiamo per una rilettura, è tratto dal suo “Isole del mito – Ponza e Ventotene”, uno smilzo volumetto di settanta pagine, edito nel 1966 con il patrocinio dell’Ente Provinciale del Turismo di Latina, ma così denso di immagini e di sentimento da farne un vero aureo volume. La sua scrittura raffinatissima sotto l’apparente semplicità è in grado di “togliere dal mare delle parole la petruzza d’oro che indica a se stesso, per dire: ecco la piccola scheggia d’oro che ho saputo trarne dal fango delle parole”.

Le sue pagine, a mio avviso, sono tra le più belle mai dedicate alle nostre isole. E quelle che si riferiscono a Le Forna fanno venire veramente un nodo alla gola e illuminano le ragioni vere dell’esplosione turistica che di li a pochi anni riverbera tra italiani e stranieri. Un successo esploso senza nessuna promozione se non il passaparola. Sono gli anni in cui giornalisti, scrittori, attori, pittori,  si costruirono qui il loro buen retiro per ritemprarsi e alimentare la loro vena artistica alla fonte diretta dei suoi abitanti.

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Troppa pace fra le agavi de Le Forna

Fino a qualche anno fa, prima che venisse iniziato il servizio della corriera per Le Forna, a questo paesello si andava via mare. Perchè era più comodo, dato che non si poteva giungervi con altri mezzi, se non a piedi. Chi poi preferiva intraprendere tal viaggio, lo faceva davvero a piedi scalzi, portandosi sulle spalle le scarpe legate con lo spago, per procedere più spedito nel cammino certo non breve, oppure per economia, perché un paio di scarpe, a Le Forna, ieri era un patrimonio.

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Le barche adibite alle comunicazioni via mare partivano dal porto per fare scalo a Cala dell’Inferno, da dove poi bisognava salire su. Cala dell’Inferno è un paesaggio unico al mondo: nella colata nivea della liparite, incastonata tra i massi rossicci di tramontana e il roccione bruno seppia a levante, è scavata una scaletta dai tempi romani: una scaletta che passa sotto un arco, quasi un finestrone gotico, ed è fiancheggiata e sormontata da blocchi candidi, simili ora ad una straordinaria flora fossilizzata, ora a fantastiche chimere medievali. E’ come se per un oscuro sortilegio, in una notte tempestosa tutte le chimere di Notre Dame avessero lasciato I loro piedistalli parigini per venirsi a sparpagliare su queste rocce, addormentandosi per sempre col sole negli occhi.

Una volta compiuta questa ascesa, in un ambiente da paesaggio lunare, si giunge su, al paese de Le Forna, dirimpetto alla chiesetta del villaggio.

Tremila anime circa, a Le Forna, che vivono in dipendenza dai venti e dal mare. La natura non è stata prodiga di spiagge, su questo lato dell’isola; anzi ce n’è appena una modestissima, ma i Fornesi hanno scavato grotte e grotticelle nel tufo, ove difendono l’unico loro mezzo di sussistenza dalle furie del mare. Qui la vita è assente per una buona metà dell’anno. Verso gli idi di marzo, secondo una costumanza che si perde nei tempi, i pescatori, che sono i quattro quinti della popolazione, armano i loro bastimentucci e partono alla pesca, chi del corallo, chi delle aragoste. Qualche giorno prima, essi hanno portato in giro, fra i cortili candidissimi di calce, il loro Santo protettore: il buon Silverio Papa, dal viso di vecchietto che la sa lunga e non si stupisce di niente più, preferendo giocherellare, incantato, con l’aragosta da una parte e il ramoscello di corallo dall’altra, che i pescatori for­nesi gli hanno messo nelle manine guantate di rosso.

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Quando l’ultimo gozzo scompare dietro l’isola di Palma­rola, dirimpetto, le porte delle case si chiudono e le finestre si riempiono d’ombra. E’ allora che le agavi, numerosissime qui, alzano i loro colli splendidamente fioriti, nell’approssi­marsi della morte. Da questo giorno, le strade diventano il dominio assoluto dei ragazzi e delle lucertole, e le apparizioni delle giovani donne sono sempre frettolose, come se il solo passo fosse un’offesa: una scia di peccato che si lasciano dietro nell’aria. Il largo mare de Le Forna, dominato a un’estremità dai tre blocchi dei Faraglioni di Palmarola e dall’altra dal profilo nervoso del Circeo bluastro, è diventato lo specchio di tutti i pensieri delle donne che passano le loro giornate a guardarlo: sulla sua distesa esse leggono i buoni e cattivi presagi della pesca. Da poco tempo, accanto alla parrocchia, è sorto un campanile bassotto, dalla cui sommità Don Gennaro, parroco dal cuore d’oro, e unico prete del villaggio, scruta per primo il ritorno dei suoi marinai e predice infallibilmente l’esito della campagna di pesca dal modo come le barche ritornano a casa: il filo della vela curva sulle onde, il vento che la porta, la speditezza delle manovre d’attracco, e cento altri minimi dettagli, che parlano prima delle voci, ancor per poco assenti.

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Il villaggio de Le Forna, con le sue rocce riarse, bruciate dal sole e vive solo di fichidindia e di agavi, coi campicelli a terrazza su cui la vite bassa, unica fioritura, si accuccia sotto i muretti rudimentali, per farsi coraggio contro i venti implacabili, non offre altri scorci di ampiezza o di rilievo. Non c’è peccato, in questa contrada della povertà più francescana, lieta e serenamente bella. Ovvero, uno solo… se tale si può chiamare. Volendo dargli un nome, lo chiameremo «la folle eresia», che ha per ostello un gruppo di casette a tergo del cosiddetto Forte Inglese, da dove il terribile Napier un tempo folgorava i Sanculotti, in fuga verso gli antri e i liti più sicuri di Sperlonga. Ebbene, in una di queste casette è sorta una nuova chiesa, per volontà di un ex-emigrato, ritornato dalla America, che ne è diventato il Pastore e che senza eccezioni, d’estate come d’inverno, battezza i suoi accoliti in una larga vasca cilestrina del mare sottostante. La piccola congrega conta una decina di anime doppiamente battezzate, e vive come una casta privilegiata in mezzo agli altri. Questo culto, avulso dalle radici di questa terra povera e tanto illuminata da una fede millenaria, ci dà lo stesso accoramento sconfinato degli alberelli solitari, il cui seme proviene chissà come e da dove, gobbi sotto le raffiche che spazzano queste balze.

C’è tanta pace a Le Forna, Forse troppa, perché la morte stessa ha perduto il suo recondito senso di abbandono e di ri­poso. Infatti, a Le Forna, che pur dista otto chilometri da Ponza, non c’è cimitero. Le bare vengono trasportate a spalle per tutto questo lungo cammino fino al cimitero romano di Ponza. Il corteo, senz’ombra di tristezza, si snoda per la stra­da serpentina, preceduta da Don Gennaro che fa da batti­strada infaticabile, a passo d’assalto, quasi si affrettasse, lui che tiene la contabilità di lassù, a deporre nelle mani del Si­gnore quest’anima fornese, già addormentata in anticipo, per metà dell’anno, dalla più pacifica vita di questa terra — una vita che, in sostanza, è piuttosto un sogno.

 

NdR: su Ettore Settanni leggi anche Case d’artista. Ettore Settanni, il “ponzese” di Capri [7], sempre di Giuseppe Mazzella