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Ponza vista con gli occhi di 65 anni fa…

di Enzo Di Giovanni

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Non so quanti a Ponza ricordino la figura di Carlo Fontana: pittore, avvocato “a tempo perso”, velista, soprattutto appassionato frequentatore di Ponza, dove aveva casa. Frequentatore di Ponza negli anni del miracolo economico, i “magnifici” anni ’50 e ’60, quando l’isola aveva un tessuto sociale integro, ed un turismo sostenibile sia in termini di numeri che di “adattamento” all’ambiente umano, oltre che naturale. Certo, ‘u furastier’ era sempre tale, ma l’isola tutta respirava un’atmosfera, complice anche il periodo storico favorevole, che rendeva gli stessi rapporti umani migliori, più strutturati, nonostante le differenze culturali ed economiche che spesso condizionavano la spontaneità di tali rapporti.
Carlo Fontana era uno di questi frequentatori, ammaliato da Ponza al punto da esserne attratto fino alla fine dei suoi giorni (letteralmente: morì a seguito di una caduta sull’isola, nel 1982).
Tra le opere che ci ha lasciato, vi è un raro portfolio di suoi disegni – stampato in soli 500 esemplari – di cui ho la fortuna di avere una copia.

E poi, il pezzo che propongo: un articolo su Ponza, pubblicato nel 1956 per la rivista “Wagons-Lits”, una rivista da viaggio a disposizione dei passeggeri dei treni internazionali a lunga percorrenza, treni come il mitico Orient Express per intenderci.
E’ un pezzo che descrive quella Ponza, con un tono decisamente inusuale rispetto ai canoni delle attuali riviste patinate in cui prevale spesso una sgradevole sensazione di prodotto su commissione, preconfezionato, ammiccante.
Niente di tutto ciò.
Ci sono note di costume, come i rapporti conflittuali tra ponzesi e fornesi, o riti antichi come la “spumanda”, il pacco dall’America, o l’attesa del vaporetto; il tutto espresso con una garbata ironia.
Il che lo rende, a distanza di tanto tempo, un documento molto più interessante, più vero.

Ragguagli su Ponza
Tre ore e mezzo di vapore non è più un traghetto ma un viaggio per mare; così diventa plausibile allo sbarco nel piccolo porto borbonico di Ponza, disegnato da Vanvitelli con discrezione neoclassica, quell’arretramento psicologico nel tempo che rende attuale la catinella e la brocca, gli asinelli stracarichi nella cui scia, come la barchetta di salvataggio e rimorchio del peschereccio, trotterella una capra col suo capretto.

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Da novembre a primavera l’isola si rinserra e s’addormenta nella bruma; il vento e il mare la smerigliano. Paese della buona stagione che s’apre col passo delle quaglie e delle tortore a fine aprile. Sulla nave, dalla vetrata del ponte, i cacciatori sorvegliano abbasso bracchi e setter ammucchiati in desolate positure, convulsamente scossi dal mar di mare tra i cordami, le ceste della verdura e le casse di bottiglie.

Il viaggio è lungo ed interminabile per chi patisce e perciò di Ponza moltissimi ne parlano più per sentito dire che per vera conoscenza. Ma in luglio e agosto sbarcano nel crepuscolo sul molo rosa-salmone i Baldi Subacquei; i lunghi fucili ritti come la foresta delle lance nella battaglia di Paolo Uccello. Le grotte marine e i fiordi profondi e gli orli di spuma dei faraglioni rossi ribolliranno al riemergere dei mostri di gomma e di vetro. Ma presto le maschere si cuoceranno al solleone abbandonate sugli scogli o nelle barche, e le antiche prudenti cernie cacceranno tranquillizzate il muso fuori dalle profonde tane.

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Il mare, punteggiato di barchette, bianco nella luce divorante si fa smeraldo e viola-vescovo negli anfratti delle grotte e ai piè dei faraglioni.

Nel sollievo della notte, i boati emessi dal sonoro del cinema all’aperto allarmano le meduse acqua-e-anice. Dalle case rosa e bianche, spalancate all’alba, messe a presepio tra ciuffi di fichi d’India sulle lionate balze di roccia, sciamano i bambini che si chiamano quasi  tutti Silverio e Filomena: le madri invisibili sorvegliano dall’interno col richiamo intermittente di quei due nomi, ché ognuna ha la sua nota, la sua cantilena. Guinzaglio sonoro perfettamente idoneo, pare: i bambini restano sempre a portata di voce e il richiamo li sorregge e li salva quando stanno per farsi male sul serio.

Ma il merito è soprattutto di San Silverio, il protettore dell’isola che pensa a tutti. Vigile e tempestivo, strappa i naufraghi ai marosi, devia i sassi cadenti sulla perpendicolare delle teste dei suoi amministrati; né mai ha consentito l’espandersi di epidemie. Forti di questa impunità gli abitanti non lottano contro le mosche.

Ma un lungo brutto momento l’hanno passato verso la fine della guerra. Le flotte e gli eserciti dei liberatori avevano dimenticato Ponza. Pensavano forse che fosse una terra immaginaria come l’Atlantide. Mentre a Capri i marines se la spassavano tra canzonette, spaghetti e improvvisati commerci di souvenir, in questa negletta antica terra di Circe non c’era rimasto da mangiare che le foglie dei fichi d’India.

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Forse il Santo protettore garantì in sogno felice esito dell’impresa a quell’animoso che si accingeva a portare a remi alle autorità di terraferma l’esse-o-esse della fame isolana. Così almeno raccontano a Ponza e nessuno ne dubita; del resto Silverio appare nei sogni ogni volta che le circostanze lo richiedono.

Altra fondamentale risorsa locale è costituita dall’ininterrotto afflusso di pacchi vestiario dei parenti emigrati nelle Americhe; pare che contro i settemila nativi locali ce ne siano trentamila sparsi tra la Terra del Fuoco e il Canadà, «via» Broccolino. Ciò spiega la grande quantità di tute, camiciotti, blue-jeans, la spettacolare parata domenicale di sgargianti cravatte e vesti lustre di rayon, veri lembi di fumetti a colori.

Sovente gli «Americani» dopo trenta – quarant’anni ritornano a casa, col pacchetto dei sudati dollari, i denti d’oro e gli occhiali a pince-nez: hanno la parlata mista d’obbligo e si rimettono a zappare il loro fazzoletto di terra.

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I Ponzesi sono conosciuti in tutto il Mediterraneo come grandi pescatori d’aragoste; si sparpagliano oltre la Sardegna verso le coste di Spagna e giù fino a quelle africane.

L’aragosta si pesca calando in acque profonde ceste speciali, chiamate nasse, in cui il crostaceo entra attirato dall’esca e poi non ne può più uscire; l’arte consiste nel calare le nasse dove le aragoste ci sono. Il giorno appresso si fa il giro delle poste, si estrae l’aragosta e si butta la cesta in mare.

La scarsità della pioggia non consente, oltre la vigna, altre colture agricole che il fico d’India, che vien su per conto proprio. Dove appena le rocce lo consentono sugli stretti cornicioni verzica la vite, puntellata per ogni verso contro i venti marini. E se libecci e maestrali non li bruciano prima, i Ponzesi spremono i grappoli nel modo già usato da Noè. Più di Noè, perché la bottiglia a chiusura ermetica allora non c’era; il sugo dell’uva si trasforma in «spumanda», che sarebbe un vino gassato cento volte più di qualsiasi altro: chi stura senza cautela, gli scappa un finimondo. Con scoppio lacerante ‘a spumanda scappa via arrossando vestiti, pareti, soffitti; e le macchie non c’è modo di farle andar via. Il travertino del mio terrazzo serba da anni le chiazze violette.

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Tra le case bianche e rosa messe a presepio sulle rocce dell’isola

E’ un’isola cui ci si sente isolati; Circe la scelse per operarvi indisturbata le note trasformazioni; con buona pace dei sostenitori di ubicazioni differenti, la cosa sembra non sia da dubitare, se si considera che al tempo dei romani questo era luogo di esilio e di confino, e così pure nel medioevo e più tardi con i Borboni, fino al fascismo. Cos’è stato l’antico sequestro di naviganti se non un domicilio coatto sui generis, un modo di confinare? Nessun imperatore, principe o governatore ha mai pensato di relegare sudditi riottosi o nemici pericolosi nei dintorni del monte che usurpa il nome di Circeo.

Gli abitanti di oggi sono raggrumati in due centri alle opposte estremità dell’isola: Ponza e Le Forna, sobborgo questo che soffre complessi di inferiorità e velleità autonomistiche. E normale che l’un l’altro si roda; dicono i Ponzesi dei Fornesi «Stanno ancora al tempo prima di Cristo, nemmeno come parlano si capisce». Ma da quando Don Gennaro ed il Comune hanno issato sul campanile della chiesa della Forna un grande orologio e tutti gli abitanti correntemente vi leggono l’ora, va sfatandosi la leggenda di quell’ispettore scolastico che nel suo rapporto scrisse che la cognizione dell’ora sull’orologio era generalmente sconosciuta ai bambini della scuola. Ma accidenti che paese di sogno!
Casette a un piano con le volte a botte ripittate due volte l’anno, bianche celesti e rosa, come manciatelle di dadi gettati tra i fichi d’India o rimasti sospesi sugli strapiombi rosicati; rocce vive squarciate di bianco di rosso di nero striate di gialli sulfurei si tuffano nel mare che a forza di essere verde e turchino par quasi nero, e riemergono in catene di arricciolati faraglioni.

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Ciuffi di verdi agavi

Del piccolo arcipelago Ponza è la sola ad essere abitata. Nella selvosa Zannone, che nasconde la sua tozza struttura sotto la fitta vegetazione, come certuni il mento scarso sotto la barba, vive soltanto il guardiano del faro; e nella nuda Palmarola che ostenta pazze torri dolomitiche, archi naturali, grotte grandi come il Colosseo, fiordi variegati e bianche spiaggette dove il mare secondo l’ora è color topazio, o rosso-viola o perla, il silenzio è nuovo come il giorno dopo la Genesi; non anima viva, non case. I Ponzesi vengono di tanto in tanto a dare un’occhiata alle viti. M’avevano detto che in una grotta viveva un eremita centenario: trovai un contadino che non aveva settanta anni, ma in effetti ne dimostrava assai di più. Stava lì non per ascetica vocazione, ma per lavorarsi il suo pezzo di terra.

A Ponza c’è una banda di suonatori volontari quasi tutti ragazzi: se continueranno ad esercitarsi con le trombe così assiduamente come fanno adesso nelle ore calde del pomeriggio, finiranno col tempo per raggiungere la perfezione. Si producono tutti insieme nei giorni di festa e accompagnano i morti più in vista. Tra i pezzi del loro repertorio ho senz’ombra di dubbio riconosciuto la marcia funebre di Chopin.

L’arrivo del vaporetto è un avvenimento. Quando è l’ora si accedono i cinquanta padelloni al neon (folle spesa municipale) e con la celerità con la quale sul palcoscenico dell’Opera coristi e figuranti sbucano fuori e s’affollano intorno al tenore che un istante prima urlava nella solitudine, l’intero paese, esclusi i malati gravi, si riversa sulla banchina. La nave accosta, strepitando canzonette da enormi altoparlanti, forse per coprire i rantoli dei passeggeri che hanno sofferto.

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Poi, quando sbucano, i compaesani vengono violentemente sbaciucchiati da parenti ed amici, e i turisti fulmineamente classificati secondo le loro possibilità economiche. La banchina si sfolla di colpo mentre le trattorie si animano.

Scende la notte e il mare lentamente s’accende di lampare gialle che lo punteggiano a perdita d’occhio.