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“Odio gli indifferenti”

 di Rosanna Conte

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Oggi ricorrono i cento anni della scissione di Livorno con la nascita del Partito comunista d’Italia e Gramsci fu tra i suoi fondatori.

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Una personalità come la sua, di grande spessore intellettuale ed umano, è difficile da circoscrivere in poche parole. Nonostante la breve vita in cui un peso non indifferente l’hanno avuto gli undici anni di carcere a Turi, dopo il breve periodo di confino a Ustica,  ha scritto molto e ci ha lasciato idee di tale forza  che ancora oggi ci fanno riflettere, .

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Gramsci insieme agli altri confinati a Ustica (1927)

Alla sua lezione hanno fatto riferimento, nel corso di questi cento anni, personalità come Ingrao, Berlinguer e tanti militanti di quello che fu il PCI. Libertà di pensiero, giustizia sociale, equità economica, democrazia, valore del genere femminile, cura dei bambini, importanza della cultura e della scuola, necessità dell’istruzione per tutti sono solo alcuni dei punti forti  che ne contraddistinguono il pensiero.

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Qui riporto un suo testo in cui emerge chiaramente che ogni essere umano è anche cittadino e come tale deve assumersi le responsabilità della vita in una comunità, coltivando una coscienza vigile  e una partecipazione attiva. L’indifferenza ai problemi e alle scelte fatte dagli altri per risolverli non può essere considerata priva di colpa perché significa non solo non avere un’idea di società in cui voler vivere, ma significa anche, se questa idea la si possiede, non volersi impegnare per realizzarla o per accidia o per scaricare sugli altri il peso del lavoro di realizzazione per goderne poi, comunque, i frutti. Insomma si è parassiti.
La parola “partigiano” in questo testo indica, appunto, avere un’idea di società e fare tutto il possibile per realizzarla e, nel caso di Gramsci, quest’idea viene profilata nella parte conclusiva. E’ una società in cui la <<catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma all’intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio>>.
Buona lettura.

Odio gli indifferenti (Antonio Gramsci)

Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che <<vivere vuol dire essere partigiani>>.  Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.

L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E’ la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costrutti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo di molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.

La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa.

Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare, ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi era  stato indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochissimi fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.

I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenza di nessun genere.

Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto a ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma all’intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato, perché non è riuscito nel suo intento.

Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

Torino, 11 febbraio 1917