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Fotografie tra due mondi. Siamo i nostri ricordi

Segnalato da Sandro Russo
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No memory is ever alone; it’s at the end of a trail of memories,
a dozen trails that each have their own associations
”.
[dal libro Ride the River di Louis L’Amour – cfr. in fondo all’articolo]

Del tutto nello spirito della nostra rubrica fotografica – la nuova serie “Una foto racconta” sul sito – questo articolo, ripreso qualche giorno fa da Repubblica on-line, racconta dell’idea di una fotografa canadese di recuperare le vecchie diapositive Ektachrome di famiglia ed attualizzarle con scatti recenti. Il risultato è suggestivo… Come suggerisce il titolo della raccolta fotografica, sottolinea la continuità tra il passato e il presente e in certi scatti crea quasi la suggestione di vite indefinite, esitanti tra il presente e il passato. O, pensiamo anche, a vite sospese tra due mondi, come quelle dei nostri emigranti.
S. R.

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Siamo i nostri ricordi
di Irene Alison – da repubblicaonline del 9 gennaio 2021

No Memory is Ever Alone è il progetto di una fotografa Usa, che ha recuperato gli scatti del padre tra gli anni Cinquanta e Sessanta.

«La memoria è fatta di stanze. Di angoli bui. Di porte segrete. La memoria è l’immagine di quel giorno al lago, con il verde denso dell’acqua che inghiotte i raggi del sole. Il fruscio del vestito che hai indossato quella sera d’estate, il bianco accecante della prima volta che hai visto la neve.
La memoria è un posto dove torni spessissimo, nel quale ti rifugi, o dal quale, alle volte, preferisci tenerti alla larga.

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Di questo, e di molto altro, ho parlato con la fotografa canadese Catherine Panebianco, [4] sentendola vicina nonostante i quasi 7mila chilometri di distanza (io a Roma, lei a Jamestown, New York). Con in mano un caffè – perché la nostra non è stata un’intervista, ma uno scambio sui temi del ricordo, della famiglia e del potere evocativo della fotografia – e negli occhi le immagini del suo progetto No Memory is Ever Alone: una serie di scatti in cui ha ri-fotografato, ricontestualizzandole nel paesaggio del presente, le vecchie diapositive realizzate da suo padre tra la metà degli anni ’50 e i primi anni ’60.

«Ogni Natale, queste diapositive venivano fuori dalla loro scatola, insieme a un vecchissimo proiettore. Il rituale era sempre uguale: srotolavamo questo schermo logoro e poi, una per una, caricavamo le diapositive, e ascoltavamo mio padre raccontare le stesse vecchie storie».
Di anno in anno, di trasloco in trasloco («mio padre, ingegnere, veniva continuamente trasferito, e prima dell’adolescenza avevo già cambiato nove case»), quello delle diapositive è diventato un rito. Una liturgia imprescindibile, un appuntamento immancabile: di quelli che fanno correre i bambini a infilarsi il pigiama e a prendere i pop-corn e che fanno alzare ostentatamente gli occhi al cielo agli adolescenti. I colori saturi della Kodachrome, i racconti sempre uguali e sempre diversi – ogni anno un particolare in più, un’esagerazione per strappare una risata ai piccoli – sono diventati il punto fermo di una famiglia in moto perpetuo.
«Potevamo trovarci, che so, in California, ma ci bastava chiudere le tende e fare partire il proiettore per rivedere la neve del Canada».

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Da lì, il padre di Cathy era partito con moglie e figli. E lì, ogni Natale, la famiglia ritornava, bocche aperte e facce illuminate dal riverbero della lampada, lungo il sentiero della memoria.
«Mio padre era stato adottato, ma non ricordava niente del suo passato prima di arrivare dai miei nonni, né tantomeno aveva alcuna memoria di chi lo aveva messo al mondo. Quelle foto erano il modo attraverso cui aveva scritto, e voleva ricordare, la storia della sua vita; erano i tasselli di una memoria che conservava gelosamente. Un modo di affermare e consolidare dei legami – con i miei nonni, con i miei bisnonni – e di condividerli con noi, radicando una grande narrazione familiare».

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Le gite in barca nel weekend. Il muso di Tex, primo, amatissimo cane di casa. Le cene della domenica.
«Quella era una costante nella sua famiglia. Non c’è niente di speciale nella foto, ma è sempre stata la mia preferita, perché lui ne raccontava la storia come se al tavolo ci fossero i personaggi di una commedia. Lo zio, con accanto la sua nuova fiamma, che aveva bevuto troppo e a metà serata era già ubriaca. Il cognato, che diceva cose totalmente inappropriate per scandalizzare mia nonna, fervente cattolica. Il nonno, che dopo cena si accasciava sulla poltrona a guardare il football, con i pantaloni allentati per avere mangiato troppo».

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I confini di quello scatto, con la famiglia riunita intorno al tavolo, i sorrisi unanimemente diretti verso l’obiettivo, si confondono ora con le geometrie di un altro luogo, le linee del tempo che sconfinano nell’ovale di un altro tavolo: quello della casa di Cathy, oggi.
Questo, come tutti gli altri scatti del progetto che la fotografa ha cominciato per caso nel 2016 («un giorno mia madre stava mettendo a posto le diapositive, io ne presi una, e iniziai a rigirarmela in mano chiedendomi cosa farne»), è il frutto di un meticoloso lavoro di ricerca del match perfetto: quello in cui l’incastro delle forme e l’inclinazione delle ombre cospira per confondere i piani e i tempi.
«Per mio padre, le diapositive erano una sorta di traccia che si lasciava dietro, un promemoria per ricordarsi da dove veniva. Erano anche una connessione tra il passato e il presente, e allo stesso tempo una riflessione su come il passato continua a viverti dentro, a segnarti, a cambiarti. Ecco perché ho deciso di realizzare il progetto: che noi la vediamo o meno, c’è sempre una connessione tra ciò che è accaduto ieri e ciò che accade oggi».

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Una fotografia può ricucire le fratture del tempo e riempire i buchi della memoria. Essere un antidoto alla dissolvenza dei ricordi, una lapide su cui piangere i propri morti e un sortilegio per tenere in vita i fantasmi.

«Quando guardo le immagini, mi sembra di veder apparire degli spettri. Collocandoli nel paesaggio del mio presente, ho la sensazione che le persone che non ci sono più siano ancora intorno me, nei miei luoghi, per proteggermi. Mia madre è morta un anno e mezzo fa, e mio padre ha 82 anni: quando ho cominciato questa serie non me ne rendevo conto, ma con il tempo ho realizzato che era anche un modo per lasciare una traccia della loro vita, per capire meglio quello che sono stati e cosa, in me, resta di loro».

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È solo quando il caffè è finito, e siamo ormai al termine della nostra conversazione, che mi ricordo di chiedere a Cathy perché ha scelto questo particolare titolo No Memory is Ever Alone, Nessun ricordo è mai solo – per il suo lavoro. Lei guarda in alto, sopra lo schermo dal quale mi parla, prende un libro da uno scaffale e comincia a leggere. “No memory is ever alone; it’s at the end of a trail of memories, a dozen trails that each have their own associations”. Il libro è Ride the River di Louis L’Amour, scrittore americano di narrativa western che, tra gli anni ’50 e gli anni ’80, ha sfornato un centinaio di best seller. E la frase è di Echo Sackett, eroina di frontiera che lotta con tutte le sue forze per difendere l’eredità della famiglia. E ci riesce. «Nessun ricordo è mai solo; è l’epilogo di una scia di ricordi, una dozzina di sentieri che hanno ciascuno le proprie connessioni».

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Louis L’Amour, pseudonimo di Louis Dearborn LaMoore (Jamestown, 1908 – Los Angeles, 1988) è stato uno scrittore americano molto prolifico – oltre 100 romanzi di narrativa soprattutto di ambientazione western -, di grande successo tra gli anni ’40 e gli anni ’80. E’ stato uno dei primi scrittori di bestseller americani e mondiali ed i film tratti dai suoi innumerevoli romanzi sono stati interpretati da John Wayne (Hondo, 1953, dal racconto The gift of Cochise), da Alan Ladd, Sophia Loren, Sean Connery, Natalie Wood e Brigitte Bardot.