- Ponza Racconta - https://www.ponzaracconta.it -

“Glie sciuscie” a Gaeta

Proposto dalla Redazione

.

Già segnalato stamane tra gli eventi della Rassegna Stampa [1] (cfr), riportiamo qualche notizia in più su questa antica tradizione di Gaeta

[2]

Glie Sciuscie (da http://www.prolocogaeta.it/ [3] )

L’ultima sera di ogni anno, la sera di San Silvestro, nella città Gaeta si perpetua un’antichissima tradizione. “Glie sciuscie”: termine dialettale  con il quale si indicano orchestrine itineranti composte da gruppi di persone, bambini, ragazzi, adulti e anziani, in alcuni casi anche senza minime conoscenze musicali, che portano i loro canti augurali in strada e nelle case. Il loro cantare in dialetto rievoca antiche tradizioni portando nelle case e nei cuori della gente il calore dell’augurio di fine anno.

Suonano strumenti tipici e artigianali legati alla musica tradizionale e popolare e strumenti che più avanti definiremo decisamente più moderni nonché frutto della pura fantasia. Sono pochi i gaetani che, almeno una volta nella vita, non hanno passato il 31 dicembre cantando i tradizionali stornelli nelle strade e nelle case fino a notte inoltrata…
Il fenomeno attira sempre maggiore attenzione, è stato oggetto di studio e su di esso molto è stato detto e scritto. Una tesi di laurea sull’argomento è stata pubblicata in un libro edito dal Comune di Gaeta nel 2000. E’ stato scritto di tutto e di più su questa tradizione, molte sono state le definizioni ad essa attribuite, molto si racconta e molto si tramanda da padre in figlio, da nonno a nipote.
– “Spettacolo folkloristico – tradizione popolare – revival consumistico – corrida ante-litteram” – sono alcuni degli appellativi con cui è stato definito questo fenomeno negli ultimi tempi.
Ancor di più sono le teorie riguardanti le origini ed il significato (1). Lo stesso termine dialettale “sciuscie”, continuamente “maltrattato” e distorto con tentativi di italianizzazione, non ha una definizione ben precisa ma trova diverse correnti di pensiero che tentano di spiegarne il significato. Nonostante questa tradizione vada evolvendosi nel tempo, modernizzandosi, attira intorno a se un numero sempre maggiore di osservatori, conoscitori e non, del fenomeno di costume popolare della città di Gaeta.
Il 31 dicembre di ogni anno sono migliaia i gaetani e non che si recano nelle vie più antiche del borgo della Città per assistere ad uno spettacolo di suoni, colori, musica, risate, schiamazzi, stonature, suonatori emozionati e sonate emozionanti…
Per chi ascolta e sa cosa sta ascoltando, l’emozione è fortissima, indescrivibile, per chi canta e sa cosa sta cantando, lo è ancor di più…

[4]

Dal Comunicato Stampa ricevuto in redazione:

L’Associazione Culturale “Le Tradizioni” è lieta di presentare “Calanne 2020”, la prima rassegna musical/popolare social, un format originale, ideato e pensato per non fermare la tradizione ed allietare il 31 dicembre dei gaetani.
Giovedì 31 dicembre a partire dalle ore 17:00, come da tradizione, attraverso la nostra pagina social potrete ammirare gli Sciusci più belli della storia. Abbiamo attinto alla nostra bacheca storica, e con l’aiuto di qualche amico, siamo riusciti a riportare alla luce esibizioni a partire dagli anni ’70. Sono video storici, patrimonio della nostra comunità che, in questo anno molto particolare, vogliamo condividere con tutti voi. È, inoltre, aperto un contest al quale tutti possono partecipare. L’intera cittadinanza infatti è invitata a realizzare un video amatoriale da casa, ad inviarlo ai nostri contatti affinché venga pubblicato sui nostri canali social. La partecipazione è del tutto gratuita, sono già pervenuti numerosi video, e stanno riscuotendo un grande consenso da parte del pubblico.
Un ringraziamento a tutti i partner dell’evento; sponsor ufficiale: Birra Cismo, www.gaetamedievale.com e RadioSpazioBlu.
Sarà un tuffo nel passato, una grande emozione. Promesso…

Oggigiorno, soprattutto in questo periodo, ovunque sentiamo parlare di “tradizioni”, ma quasi sempre non ci rendiamo conto di che cosa siano: le tradizioni sono un elemento “sacro” per la nostra società, sono il patrimonio morale ricevuto dai nostri avi di cui dobbiamo farne tesoro di vita, trasmettendone i contenuti alle giovani generazioni [qualche frase sulle tradizioni e sui riti, di Marino Niola, antropologo: leggi qui [5] (*)].

Pensiamo  sia doveroso, provare a fare qualcosa di concreto, per cercare di preservare e valorizzare la preziosa identità culturale di esse, dei valori che ci hanno accomunato, anche in questo momento così buio.
Riscoprire i suoni, i giochi e le scene di vita quotidiana quasi dimenticate, tuffarsi nel passato fino ai tempi dei nonni e di conoscere le radici e il patrimonio culturale della nostra Città, favorisce sicuramente lo sviluppo del senso di appartenenza e di identità culturale e soprattutto riporta in noi un mondo che non c’è più: la calma dei tempi andati con i suoi riti, la sua povertà, ma anche la sua dignità e la sua allegria.
Le tradizioni sono, le nostre radici. Siamo noi, il nostro sangue, la nostra cultura, la nostra identità, il nostro mondo. Un popolo senza tradizioni è un popolo privo di anima. Igor Stravinsky scriveva: “Una vera tradizione non è la testimonianza di un passato concluso, ma una forza viva che anima e informa di sé il presente”.

Inutile farsi illusioni, oggi è sempre più raro che un ragazzo si metta seduto ad ascoltare il nonno parlare dei tempi in cui era giovane. Siamo tutti di corsa, bambini e anziani, e spesso i nonni abitano lontano dai nipoti: bisogna quindi trovare metodi alternativi per trasmettere la memoria alle nuove generazioni. E per raggiungerle, cosa c’è di meglio che utilizzare il loro mezzo preferito, internet?
La nostra iniziativa ha infatti l’obiettivo di raccogliere più “storie” possibili riguardanti la più amata delle tradizioni gaetane, non solo video storici, che abbondano già sul web, ma soprattutto frammenti di “vita”, aneddoti ed emozioni che raccontino con occhi diversi dal solito, cosa vuol dire fare “gliu sciuscie”. Insomma, un documento che possa far comprendere ai ragazzi quanto siano importanti le tradizioni popolari.
(…)

Noi non vogliamo avere la presunzione di “insegnare” come si fa gliu sciuscie, di sedicenti maestri ce ne sono fin troppi, noi vogliamo che questa Tradizione sia tramandata, vogliamo che la gente capisca lo stato d’ animo dei veri sciusciaioli. Ciò che veramente si sente sotto la pelle quando si fanno le prove, quando senti la tromba che inizia ad introdurre la canzone, gli strumenti tradizionali che coprono le voci che con lo scorrere delle ore diventano sempre più basse e roche, e poi gli sguardi delle persone che ti ascoltano… Quando ti accorgi che la notte sta scorrendo velocemente e tu… Tu vorresti fermare il tempo… Vorresti che quella notte non passasse mai…
No queste cose non si possono “insegnare, non c’è studioso al mondo che possa farlo…
Gliu sciuscie non é una vetrina attraverso la quale far vedere come siamo belli e come siamo bravi. Gliu sciuscie non si fa per “avere”, gliu sciuscie si fa per “dare”.
E per finire ci sono i custodi della tradizione. L’elemento più importante, sono i nostri nonni, i nostri genitori; devono essere loro i protagonisti questo progetto, non servono competenze particolari basta attingere alla propria memoria… I loro occhi lucidi, i loro sguardi persi nei ricordi passati, devono farci capire cosa si prova veramente ad ascoltare i canti della tradizione, devono trasmetterci quei brividi e quella sana voglia di  emozionarci ancora con le semplici cose.

Associazione Culturale “Le Tradizioni” – www.letradizioni.org [6]
Via Salita Chiaromonte II Trav. Dx n. 4 04024 Gaeta (LT) 

[7]

“La bellezza di fare glie sciuscie non è solo l’esibizione del 31 dicembre, ma la preparazione negli altri 364 giorni dell’anno; dalla stesura di testi e melodie, alle prove e al divertimento “dietro le quinte”, alla realizzazione degli strumenti tipici.
I canti della questua, infatti, sono, nella tradizione, accompagnati da ‘martello’, ‘urzo’, ‘rattacase’, realizzati con ciò che si trovava in giro. Bastano una pentola, un pezzo di ferro, un triangolo, una scatola di pomodori avanzati, i tappi delle bottiglie; insomma, le cose più comuni per accompagnare il canto di augurio”.

Esempio di classica canzone cantata durante glie Sciuscie:

Nui simme glie pòvere pòvere e venimme da Casorie;
Casorie e Messine simme glie pòvere pellegrine.
Nui simme glie pòvere pòvere e venimme da Casorie;
Casorie e Messine simme glie pòvere pellegrine.
Casorie e Messine simme glie pòvere pellegrine.

Ogge è calanne, dimane è gli anne nuove,
buoni e buon anne cu nu buon principie d’anne.
Ogge è calanne, dimane è gli anne nuove,
buoni e buon anne cu nu buon principie d’anne.
Buoni e buon anne cu nu buon principie d’anne.

Ogge è San Servieste, dimane magnimme prieste,
venimme da luntane per purta’ ’stu buon signale.
Ogge è San Servieste, dimane magnimme prieste,
venimme da luntane per purta’ ’stu buon signale.
Venimme da luntane pe purta’ ’stu buon signale.

Ohi Patro’ (si dice il nome del padrone di casa davanti cui si suona), dacce ’nu sciusce,
annanze che s’ammosce dacce quatte fiche mosce.
Annanze che se secche dacce quatte pere secche.
Ohi patro’ (nome) caccia gliu buttiglione
che cu nu bicchiere a pprone
s’è fenute gliu buttiglione

“La conclusione del canto varia a seconda dell’offerta ricevuta; in cambio di doni si augura al padrone di casa ogni bene, nel caso in cui, raramente, l’offerta non veniva data o era deludente, arrivava lo sfottò”.

[8]
Note

(1) – Secondo alcune fonti consultate, “sciuscie” sarebbe il nome dialettale dei fichi secchi (https://www.gazzettinodelgolfo.it/tutta-la-verita-su-glie-sciuscie/ [9])

(2) – Scrive Marino Niola su la Repubblica dello scorso 24 dicembre:
“…la nostra maratona natalizia è l’effetto di una stratificazione di simboli fitta come una geologia. Che ci lascia eredi di uno straordinario giacimento di consuetudini famigliari, di comportamenti millenari, di funzioni religiose e di ritualità laiche”.
E da antropologo – per spiegare il senso di frustrazione, di vuoto che è derivato dal diversamente Natale di quest’anno – conclude l’articolo: “Ma una cosa il Covid ce l’ha insegnata. Che senza riti la collettività entra davvero in sofferenza. Perché in realtà non è la società a fare il rito, ma il rito a fare la società”.