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Un vero racconto natalizio, lo scaricatore e il fabbricante di giocattoli (terza parte)

di Emilio Iodice

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per la prima parte (leggi qui [1])
per la seconda parte (leggi qui [2])

L’autunno lasciò il posto all’inverno. Lo scaricatore fece ritorno a casa dopo una giornata di duro lavoro e controllò la posta. La sua attenzione venne attirata in particolare da una busta, l’aprì con attenzione e rispetto.

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Fiorello H. La Guardia, Sindaco di New York, 1944 ca.

Era una nota scritta a mano dal suo idolo, Fiorello H. La Guardia, sindaco della città di New York. Lo scaricatore aveva molta stima del “Piccolo Fiore” che considerava il Sindaco migliore che la Città avesse mai avuto. Aveva partecipato alla campagna elettorale in suo favore ed era orgoglioso della sua origine italiana. La Guardia gli aveva inviato una lettera, che lui avrebbe conservato per sempre, in cui gli esprimeva la sua riconoscenza.

Arrivò la vigilia di Natale. Lo scaricatore non aveva molti soldi per comprare doni. Avrebbe regalato alla moglie uno scialle di lana e a suo figlio un soldatino di piombo. La famiglia si preparò per andare alla messa di mezzanotte con i cugini ed i parenti: suo figlio indossava una versione da bambino di un’uniforme dell’esercito e la moglie un cappotto rosso con un collo nero di rayon. La chiesa si trovava ad un isolato di distanza. La nascita di Cristo venne celebrata dal pastore e da altri tre sacerdoti.

Padre Francis, che gestiva la chiesa, scrutava la congregazione durante la messa per vedere chi fosse presente. Lo scaricatore doveva agire con attenzione, lui e la sua famiglia si impegnavano molto nelle attività della parrocchia e inoltre, lui era il Presidente della Società di San Silverio e aveva bisogno del pastore per patrocinare la processione, la messa e la festa che ogni anno si tenevano in onore del santo patrono di Ponza.
Allo scaricatore non piaceva andare in chiesa in una notte gelida di dicembre come quella. Tuttavia, sentiva un senso di responsabilità verso la famiglia, gli amici e i compatrioti e doveva dare l’esempio.

Si tolse il cappello di feltro, che aveva indossato durante la luna di miele a Napoli e che era un prezioso ricordo dell’Italia, così come le scarpe lucide bordeaux che si allacciavano con un fermaglio automatico e rivelavano l’eleganza del Vecchio Mondo. Teneva molto al suo abbigliamento e al proprio aspetto. Si guardò allo specchio nel bagno per accertarsi di essersi ben rasato e si spuntò i baffi. Il vestito blu cominciava a stargli stretto e aveva bisogno di camicie più grandi perché aveva messo su peso. Sua moglie era una brava cuoca e a lui piaceva mangiare. Alla fine indossò il cappotto di tweed, si avvolse intorno al collo la sciarpa di lana, fatta da sua madre e, assieme alla famiglia, si recò in chiesa.

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Martin Lewis. New York, anni ‘40 (per gentile concessione del Detroit Institute of Art)

Prima di spegnere la luce, lo scaricatore si affacciò alla finestra, stava nevicando, le strade erano ricoperte da una coltre bianca. Questa piccola fetta di Italia a New York assomigliava ad una sposa che si preparava per il matrimonio, rifletté.

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Notò una grande limousine nera, una Cadillac, su cui si stava ammucchiando la neve, ferma davanti all’edificio. Era tirata a lucido e splendeva come uno specchio al chiaro di luna. Le sole persone che possedevano quel tipo di macchina nel quartiere erano i criminali e i politici.

Lo chauffeur chiese allo scaricatore come si chiamasse, volendo assicurarsi di essere nel posto giusto. Quando l’identità venne confermata, gli porse la scatola che era piuttosto pesante. Lo scaricatore affermò che doveva esserci uno errore e disse, “Signore, ha sbagliato posto, questo non può essere per noi”.

L’uomo con il cappotto nero replicò: “No, questa è la casa giusta e lei è la persona giusta”, e si tolse il cappello. Una grossa cicatrice gli solcava la fronte. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. “Se non fosse stato per lei”, disse: “non sarei qui stasera. Lei mi ha tirato fuori dall’auto in fiamme, mi ha donato il suo sangue perché potessi sopravvivere. Mi ha salvato la vita non una volta, ma due. Sono venuto per dirle grazie”.
Il giovane uomo tirò fuori dalla tasca interna del cappotto il portafoglio e ne trasse alcune banconote da cento dollari che offrì allo scaricatore, era quasi un anno di lavoro, ma lui le rifiutò, dichiarando: “Signore, tutto ciò che mi interessa è che lei stia bene e che sia sopravvissuto. Per favore dia il denaro all’ospedale e ai dottori perché aiutino chi ne ha bisogno”. Il giovane si mise a piangere, era il figlio di uno dei maggiori produttori di giocattoli in America.

Prima di lasciare l’appartamento, si udì bussare alla porta. Lo scaricatore andò ad aprire e si trovò davanti un uomo alto in completo grigio, con il berretto da chauffeur. Aveva in mano una grande scatola bianca con sopra un nastro rosso. Accanto all’autista c’era un uomo giovane, con indosso un cappotto nero ornato da un collo di visone ed una sciarpa di seta bianca.  Sulla camicia inamidata portava una cravatta rossa a farfalla. Il cappello era calato sulla fronte come se volesse nascondere qualcosa. Lo scaricatore ebbe l’impressione di aver già visto quel viso.

Una settimana dopo, lo chauffeur ritornò a prendere lo scaricatore, la moglie e il figlio per portarli ad un fabbrica a Long Island.

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Stavolta venne con una Cadillac Coup de Ville cabriolet, color verde scuro, lavata e tirata a lucido, con i pneumatici bianchi e i parafanghi cromati che mandavano luccichii con la luce del sole, come la luce di un faro. Si trattava di una fuoriserie che poteva trasportare comodamente fino a 8 passeggeri.

Si sedettero nella parte posteriore che aveva due file di sedili di pelle marrone. La macchina era riscaldata e la radio stava trasmettendo musiche di Mozart. L’autista portava un cappello marrone chiaro con attorno una fascia di pelle, l’uniforme era dello stesso colore e aveva bottoni dorati lucidi. Le mani erano protette da guanti di capretto beige abbottonati al polso. Assomigliava al capitano di un transatlantico. Tra i sedili posteriori c’era un piccolo bar con bicchieri di cristallo, bottiglie di vino e di liquori sistemati in uno scomparto di mogano. L’autista offrì allo scaricatore sigari, sigarette e bevande, ma egli oppose un gentile rifiuto.

Dal Bronx, impiegarono un’ora di macchina per arrivare a destinazione, un luogo attraversato da una ferrovia e da un sentiero che conduceva direttamente alla fabbrica. L’autostrada sembrava costruita per dare spazio allo stabilimento. L’edificio era enorme, di forma rettangolare e occupava un intero isolato cittadino. Dei grossi camion, su cui campeggiava il nome della società, erano parcheggiati in un’area accanto all’edificio. Alcuni uomini erano intenti a caricare e scaricare casse e scatole dai mezzi. In un’altra area erano posteggiate centinaia di macchine. Nei pressi della struttura c’era una navetta che andava a prendere i lavoratori in città e li riportava a casa la sera.

Una semplice porta di legno costituiva l’entrata. Lo chauffeur l’aprì e fece entrare la famiglia in un ufficio pieno di macchine da scrivere, telescriventi e telefoni. Su ciascuna scrivania erano posizionati dei pesanti calcolatori di metallo. Furono accompagnati in una zona aperta davanti alla fabbrica che si trovava di fronte al cuore del centro produttivo.

Quando la famiglia del South Bronx entrò, 2000 persone, che lavoravano alle catene di montaggio, interruppero quello che stavano facendo. Tutti rimasero sull’attenti, come se fossero testimoni di un momento storico, ed applaudirono. L’immigrante italiano, che lavorava al porto di New York, con in braccio il figlioletto, rimase sorpreso e confuso.

Una semplice porta di legno costituiva l’entrata. Lo chauffeur l’aprì e fece entrare la famiglia in un ufficio pieno di macchine da scrivere, telescriventi e telefoni. Su ciascuna scrivania erano posizionati dei pesanti calcolatori di metallo. Furono accompagnati in una zona aperta davanti alla fabbrica che si trovava di fronte al cuore del centro produttivo.

Quando la famiglia del South Bronx entrò, 2000 persone, che lavoravano alle catene di montaggio, interruppero quello che stavano facendo. Tutti rimasero sull’attenti, come se fossero testimoni di un momento storico, ed applaudirono. L’immigrante italiano, che lavorava al porto di New York, con in braccio il figlioletto, rimase sorpreso e confuso.

Il padrone della fabbrica, padre del giovane che lo scaricatore aveva salvato, gli si avvicinò. Era di bassa statura e calvo. La fronte e il volto erano solcati da rughe che testimoniavano la sua ansia e aveva gli occhi cerchiati. Indossava il kippah. Le lacrime gli scendevano dalle guance, prese la mano callosa dello scaricatore tra le sue e disse, “Signore, grazie a lei il mio unico figlio è salvo. La sua morte avrebbe ucciso anche me e sarebbe stata la fine della nostra azienda. Queste persone avrebbero perso il lavoro.” Gli operai si avvicinarono allo scaricatore e alla sua famiglia, lo salutarono e abbracciarono. Tutti piangevano per l’emozione, con i cuori colmi di gratitudine.

Per i successivi dieci Natali, una grande scatola di giocattoli arrivava ogni anno nella casa a Little Italy nel South Bronx.
Il giocattolaio e lo scaricatore rimasero amici per cinquant’anni. L’ultima volta che il fabbricante di giocattoli lo vide fu ad un funerale. Quello dell’uomo che aveva salvato la vita di suo figlio.
Fu allora che la persona che realizzava balocchi spedendoli in tutto mondo mi raccontò ciò che accadde quella gelida notte di ottobre del 1944, quando un uomo rischiò la sua vita e diede il suo sangue in modo che un altro uomo potesse vivere.
Quello scaricatore era mio padre.

[Un vero racconto natalizio, lo scaricatore e il fabbricante di giocattoli (terza parte) – Fine]