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Libri sulla scrivania, dvd in attesa in pila, disordinati ma pronti all’uso, tempo a perdere e l’insegnamento dei padri sull’otium latino, che tutti sanno, ma ricordarlo non è inopportuno, essere ben altra cosa del dolce far nulla: è, infatti, il suo esatto opposto: l’otium era ed è, cavolo!, la cura di sé e della propria saggezza, che passava (e passa, tuttora soprattutto, in tempi di pandemia) per la contemplazione spirituale e lo studio. L’otium era veramente lo stato ideale, cui ogni cittadino potesse aspirare.
Aggirati gli impegni “ineludibili” e allontanati gli incontri fastidiosi e che assorbono – inutilmente, anzi nocivamente – tempo ed energie fisiche, nervose ed intellettuali, sono finalmente libero in uno stato di semi beatificazione in cui come in liquido amniotico mi muovo leggero, per quanto vecchiezza e peso permettono.
Conquistata quest’autonomia (se non indipendenza) da obblighi sociali, legali, amministrativi, rituali, etichettologici, posso al fine oziare. Non porto la toga (anche se mi piacerebbe), ma vesto di nero, alternando pantaloni magliette e maglioni pressoché uguali e foulard, anch’essi neri o grigi. Non comprerò nuovi capi di abbigliamento, non mi dedicherò, come moltitudini di decerebrati, ai riti insani e depravati dello shopping, alla sfida sfibrante del far spazio in un armadio in cui almeno l’ottanta-per-cento degli indumenti è inutile o superfluo o inadeguato o almeno poco utile e il rimanente mi deve riconoscenza perché li indosso random, a turni irregolari.
Compagni fedeli, ineguagliabili, della mia vita, gli attrezzi di navigazione dell’homo sapiens sapiens nella sua presente fase di transizione, le barche, i triremi, le canoe, le zattere con cui, pena la sopravvivenza può allontanarsi dalla terra ferma, dalle paludi, dai ricettacoli delle fiere e dei serpenti, da insetti, microbi e virus esiziali: l’iPhone, intendo, ed il cugino iPad, e il notebook, possente e capiente, capace per stive sottomesse e collaterali, pronto, veloce, atto alla fuga e alle lunghe transumanze marine. L’Ulisse contemporaneo non viaggia più nel Mediterraneo, tomba catastrofica, ma in forma di onde cibernetiche su navi eteree e possiede 10 100 1000 vite.
Così, per intervalla insaniae, cerco, indago, leggo, confronto, faccio due-più-due; spesso incrocio trìvi interessanti e divertenti, degni di nota e di condivisione, nessuna scoperta dell’acqua calda, ché tutto è stato già scoperto e da scoprire ci sono solo cose dimenticate o che hanno cambiato nel tempo valore e quindi interesse.
Ho incontrato su YouTube, ieri e per caso (per caso… o per necessità?) un film di Roberto Rossellini (R.R.), risalente ai suoi esordi registici, esattamente il secondo della cosiddetta “Trilogia della guerra fascista”: Un pilota è tornato del 1942 con un imbambolato Massimo Girotti e non ancora in canottiera, che sarà di lì a poco, coerente e assoluto, il maschio dell’anticipazione neorealista di Luchino Visconti Ossessione (1943), complice il fascino, la bellezza e la bravura, superba triade dal nome indimenticato di Clara Calamai; con loro bravo e coerente Juan Marcuzzo, lo spagnolo.
L’anno prima R. R. aveva diretto La nave bianca e l’anno dopo L’uomo dalla croce. Quest’ultimo si svolge in Ucraina sul fronte russo: un reparto di carristi del CSIR (1) deve spostarsi per una manovra bellica; partono tutti tranne un prete, il cappellano militare, che rimane con un carrista ferito gravemente. Arrivano i rossi e li fanno prigionieri, ma i due riescono a fuggire, rifugiandosi in un kolkhoz, in cui il cappellano converte tutti (siamo in terre comuniste mangia-bambini e c’è tanto da fare), compresa la “miliziana” sovietica, interpretata da un’attrice tedesca, magari nazista. Il pasticcio è servito…
Torniamo al primo film della trilogia: la nave di cui trattasi è una nave ospedale, bianca per essere identificata dai nemici e non essere attaccata: farlo è sempre stato considerato un grave crimine di guerra, tanto che furono riconosciute dalla Convenzione dell’Aja del 1907.
Sulla nave in questione (l’Arno, nella foto) il marò fuochista Augusto Basso scambia le sue lettere con Elena Fondi, una maestrina di scuola elementare, madrina di guerra. Vicissitudini con sullo sfondo battaglie perdute con gli inglesi che avevano già il radar e si permettevano il lusso di sparare da oltre la linea dell’orizzonte. Rossellini mischia il film di guerra (voluto e finanziato dal Ministero della Marina con il beneplacito di Vittorio Mussolini, che fu attivo mecenate anche per gli altri due film) con il film rosa: la storia d’amore puro, che partecipa alla complessiva mediocrità del prodotto).
Per quanto riguarda la posizione di Rossellini bisogna dire che lui, cattolico, e diciamolo pure, coerentemente democristiano, fece seguire alla Trilogia fascista la Trilogia antifascista: Roma città aperta (progettato nel 1944 e realizzato nel 1945, Paisà (1946) e Germania anno zero (1947), che lo rese giustamente famoso e riconosciuto in tutto il mondo.
Faccio manovra e cerco di uscire dall’angolo in cui mi sono andato a incastrare senza graffiare il veicolo e cercando di portare a casa un risultato accettabile: non volevo parlare delle mie magliette e dei film di Rossellini, almeno non soltanto; quello che mi ha spinto ad abbandonare il complicatissimo puzzle che stiamo cercando di comporre sul tavolo grande di casa, è stato il legame fra i film di propaganda di guerra girati dal colto Rossellini e un altro grande genio del cinema italiano.
Vengo e mi spiego. La critica italiana, chi da una parte chi dall’altra, ha tenuto in ombra il fatto che Rossellini abbia girato tre film di propaganda bellica fascista, con altrettanto – seppur acerbo – talento. E l’ha fatto parlando d’altro, evidenziando l’uso di attori non professionisti, come embrione del neorealismo. Quegli embrioni, anche a mio avviso furono impiantati altrove e da altri: in Quattro passi tra le nuvole da Blasetti, in Ossessione da Visconti, in I bambini ci guardano da De Sica, l’unico grande cineasta antifascista fin da prima del fatidico 25 luglio 1943.
A Vittorio De Sica, per chiudere in tema, dobbiamo affiancare Roberto Roberti, nome d’arte dell’irpino Vincenzo Leone, che studiando Giurisprudenza alla Federico II di Napoli ebbe occasione di conoscere Scarfoglio che lo presentò a Serao, Bracco e Di Giacomo. D’Annunzio, suo compagno di studi lo introdusse alla Duse che lo fa entrare in teatro. Per non fare sgamare il “sacrilegio” alla famiglia assolutamente contraria a queste esperienze, cambiò il suo nome, sulla falsariga del grande Ruggero Ruggeri, in Roberto Roberti.
Nel 1912 iniziò a lavorare come regista; prolifico e con dei buoni film in carniere, fra cui ricordiamo: Napoli che canta (1926) e Assunta Spina (1932). Nel 1916 sposò l’attrice Bice Waleran (al secolo Edivige Valcaregni): dall’unione dei due nel 1929 nacque il figlio d’arte Sergio, sì, Sergio Leone, proprio lui, che in onore del padre firmò quel po’ po’ del suo primo film (Per un pugno di dollari) con lo pseudonimo “Bob Robertson”, che per l’appunto significa “Roberto figlio di Roberto”.
Evviva il Cinema!
Il Generale Inverno su Le Petit Journal del 9 gennaio 1916
(1) – CSIR Corpo di Spedizione italiana in Russia, l’agguerrito esercito con cui l’Italia fascista e romanoide, in scarpe di cartone e moschetto 91 pretendeva di conquistare l’immensa Russia alla cui guida era ancora una volta l’eterno vincitore Общая зима (il Generale Inverno, modestamente a parte!). La seconda guerra mondiale costò alla Russia 26milioni di morti: ventiseimilioni.