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Ancora sulla Scuola. Dalla rivista inNatura

Segnalato dalla Redazione
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Per qualche strano caso, l’interesse da parte del sito ad un particolare argomento – la scuola, nel caso specifico: leggi qui [2] -, indirizza l’attenzione ad articoli correlati che compaiono sulla stampa. Come è accaduto per questo approfondimento pubblicato sulla rivista trimestrale inNatura, di cui abbiamo segnalato l’uscita proprio qualche giorno fa: leggi qui [3].

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Chi ha ucciso la Maestrina della Penna Rossa?
di Marianna De Padova

Il ruolo sociale dell’insegnante è cambiato in meglio o in peggio?
Una Scuola davvero democratica richiede l’impegno di tutti e si realizza solo con investimenti a lunga scadenza e una visione ad ampio orizzonte

Molto sì è detto sulla scuola, molto ancora si dirà tra DaD, DDI e banchi con o senza rotelle. Ma pensando liberamente a tutto questo, la mia mente va alla Maestrina della Penna Rossa, personaggio con l’unica nota di colore che la mia memoria attribuisce a Cuore, vetusto romanzo di formazione (1888), che tratteggia il carattere dell’Italia che si voleva; i nostri lettori meno giovani certamente ricorderanno. Un corpus narrativo di un mondo ormai inesistente, raccolta di valori allora indiscutibili ed assoluti in purezza e definizione, faro nella nebbia delle trasformazioni sociali a seguire.
Tra questi valori, il ruolo della scuola, unica istituzione capace di salvare il Franti che è in noi; istituzione territoriale capace di suscitare profondo rispetto, «perché in un paese – mi diceva mio padre – le tre figure di riferimento sono il prete, il maresciallo dei carabinieri ed il maestro, poi forse pure il farmacista, ma bisogna vedere quanti pazienti sono sopravvissuti».
II maestro, uno dei tre pilastri della verità e della retta via. Uno che ‘aveva studiato’, ‘che capiva le cose della vita’, che ‘se lo dice il maestro è così’.
Figuriamoci se il maestro era invece un professore: un tappeto di ammirazione e adorazione da sfociare nell’agiografia in vita. Un immaginario complesso che sopravvive alle bombe della seconda guerra mondiale, ma anche alle barricate del rivoluzionario ’68.
Infatti la figura del maestro come guida di riscatto la troviamo ancora proprio in quell’anno nelle librerie, con Un anno a Pietralata, storia autobiografica di Albino Bernardini (1973), che cinque anni dopo approderà sulla Rai con uno sceneggiato, Diario di un Maestro, diretto da Vittorio De Sica che, con il suo sguardo neorealista, ci restituisce la borgata romana negli anni della crisi abitativa, in cui spicca l’altissimo profilo morale ed educativo del maestro.

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Un anno a Pietralata / Albino Bernardini. – Firenze : La nuova Italia, 1973., 150 pp.

Vent’anni più tardi Lina Wertmüller sarà sedotta dallo stesso soggetto, con il più famoso Io speriamo che me la cavo, dove un inedito Paolo Villaggio ci fa desiderare di averlo avuto dietro la cattedra.

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Wertmuller. Villaggio. Locandina film (1992); dal romanzo omonimo di Marcello D’Orta (1990)

La scuola delle fiction
Negli anni a seguire le fiction, come ora va di moda chiamare gli sceneggiati, sono tornate ad occuparsi della scuola, con un Cuore poco vigoroso di storie lontane dal sentire di fine secolo, in una Italia che preferiva ricordare gli Yuppies cantati da Barbarossa.
Sono arrivate poi docenti impegnate a risolvere omicidi, oppure più preoccupate del lato sentimentale della vita propria che degli alunni; personaggi simpatici e accattivanti che nella vita sembrano avere tempo per tutto, mentre il loro mestiere di docente risulta marginale: di fatto, della funzione educativa e della passione per la trasmissione del sapere non è rimasta traccia nella funzione narrativa della società italiana nella cinematografia contemporanea. Un riflesso che parla di docenti poco impegnati, cosa di cui l’opinione pubblica è convinta – certo non solo per un paio di fiction simpatiche -, per cui gli insegnanti sono dei privilegiati che non fanno niente, e dunque diventa normale non averne più stima.
Giacché non v’è traccia alcuna di ciò che invece realmente è: “Lunghe riunioni pomeridiane, dove si produce carta e si discute sul nulla, sono la negazione della buona scuola: ore ed ore per programmare lezioni su slide; filmati; valutazioni soggettive”; interrogazioni scritte, “con risposta vero/falso” anche in filosofia come se l’elogio socratico del dialogo fosse passato invano. Non va bene. La tecnologia domina e, continuamente, chiede d’essere rinnovata”, così spiega Adolfo Scotto Di Luzio, docente di storia della pedagogia e delle istituzioni culturali all’Università di Bergamo, in una intervista del 2017 a Gilda Venezia. La Maestrina della Penna Rossa ed il Maestro Perboni sono morti. [7]

Adolfo Scotto Di Luzio. La scuola degli Italiani (2007)

Ma perché? Sono molteplici le concause che ci hanno portato ad oggi dove il Covid -19 spaventa come la Spagnola di più di cent’anni fa, in una società in cui la Scuola non è più il luogo della fatica, dello studio come trampolino di lancio per una crescita sociale e di benessere, che giustifichi e dia un senso ai sacrifici di genitori appena in grado di scrivere il proprio nome; oggi è invece un posto dove i ragazzi mettono da parte il sudore dello studio, dell’acquisizione delle conoscenze, a favore dello sviluppo delle competenze (più del sapere è impor-tante il saper fare), mentre i genitori vanno a lavorare per mantenere la baracca e forse permettere ai propri figli di avere una vita come la loro.

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E la scuola democratica?
La metodologia didattica è cambiata in modo irreversibile, ponendo al centro lo studente, le sue caratteristiche, grazie ad un attento sguardo alla pedagogia, disciplina in cui tutti docenti oggi devono essere eruditi. Mai più umiliazioni dietro la lavagna, sui ceci o con il cappello del somaro, mai più bacchettate sulle nocche. Mai più abusi didattici accettati passivamente da genitori indifesi.
Ottimo. Perfetto. Ma. Di Luzio nella stessa intervista spiega: “Stiamo andando, se non ci siamo già arrivati, verso un radicale svuotamento della scuola democratica.
La scuola democratica, quella destinata cioè alle persone di poche fortune, è destinata a trasformarsi in un dispositivo burocratico a basso funzionamento intellettuale.
E siccome la capacità di discriminare con precisione i significati del mondo, tanto del mondo che sta dentro di noi, che del mondo che si svolge fuori di noi – per dirla in altri termini per termini, la capacità di pensare – è la base reale dell’autonomia degli individui, stiamo andando verso una scuola che smette di avere come proprio obiettivo, se non nelle parole di una vuota retorica, quello di munire il sentimento di libertà individuale”.

A completezza di ragionamento Wikipedia, alla voce ‘Storia dell’istruzione in Italia’, riporta quanto segue del pensiero di Di Luzio: “Leggi e direttive degli ultimi anni, trasversali alle diverse forze politiche, hanno imposto un modello di scuola “confindustriale”, che «muove nella direzione di uno scuola di formazione, conforme alle esigenze del lavoro», nel quale «storia, filosofia, letteratura, persino la matematica, non contano più. Tutto quello che i docenti sanno, non vale nulla», gli insegnanti «sono considerati portatori di un sapere vecchio e inutile, non aggiornati, e additati come ultimi depositari di privilegi ingiustificati», e si genera un’istruzione lasciata al mercato, alle risorse dei singoli” [chi scrive non ha saputo recuperare la fonte originale].

A tutto ciò va aggiunto l’aspetto puramente amministrativo ed infrastrutturale: all’ammodernamento dell’apparato ministeriale, con gli organismi degli ex provveditorati allo studio (oggi uffici regionali e provinciali), l’aggiornamento professionale dei docenti e dei maestri, non è seguito di pari passo l’ammodernamento delle strutture edili che ospitano le scuole, solo per citare il più vistoso dei problemi infrastrutturali scolastici: note le cronache di edifici ottocenteschi con soffitti che crollano, o reti LAN o WiFi inefficaci o inesistenti, in tempi di Didattica Digitale Integrata, fondamentale per non interrompere la funzione didattica dei docenti, mentre però in strada sfilano automobili ibride e si ipotizzano basi spaziali sulla Luna.

L’ex ministro del Miur, Lorenzo Fioramonti, predecessore della Azzolina, dimissionario a fine 2019, così motivava: “La verità è che sarebbe servito più coraggio da parte del governo per garantire quella linea di galleggiamento finanziaria di cui ho sempre parlato [tre miliardi di curo – n.d.r.] soprattutto in un ambito così cruciale come l’università e la ricerca, vero motore del paese che costruisce il futuro di tutti noi. Il tema non è mai stato accontentare le mie richieste, ma decidere che Paese vogliamo diventa-re, perché è nella scuola che si crea quello che saremo”.
Ecco il punto: “Decidere che Paese vogliamo diventare, perché è nella Scuola che si crea quello che saremo”.
È amaramente chiaro che alla politica tutta manca un progetto di Paese da qui a venti anni e la crisi del Covid-19 ce lo sta plasticamente dimostrando.

[di Marianna De Padova, da inNatura, anno 6, n °3]

File .pdf dell’articolo originale: SCUOLA. Chi ha ucciso la Maestrina della Penna Rossa? [9]

Nota
Lo scrittore Marcello D’Orta, autore fra l’altro del libro “Io speriamo che me la cavo“ (1990) è, nato a Napoli nel 1953 ed è morto nel 2013 nella sua città, dopo aver invano combattuto contro il cancro.