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Di cosa parliamo quando parliamo di scuola. (1)

di Bruno Santoro

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È un po’ che su Ponzaracconta non scriviamo di Scuola, folgorati come in molti altri campi dalla forzosa paralisi e dalle tante novità che ci sovrastano. Poiché tra i nostri collaboratori ci sono “educatori” di vecchia data e insegnanti ancora in attività, ci rimettiamo mano con una serie di scritti che tornano sull’argomento.
Per l’occasione abbiamo chiesto aiuto a Bruno Santoro (1), già collaboratore (ancorché discontinuo) del sito, con una grossa esperienza di insegnamento e ricerca in campi correlati.
Ecco il suo contributo.

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Da antico insegnante della secondaria e per forma mentis ormai consolidata di formatore, ancora oggi, pur di recente pensionamento, mi sento molto coinvolto dalle questioni di didattica e di politica scolastica, tanto da credere spesso di potere utilmente intervenire sui problemi del mondo della scuola; di quelli della secondaria, in particolare. In tempi così difficili intervenire mi sembra anzi un contributo doveroso quanto un obbligo professionale.

Con quattro decenni di esperienza diretta e di ricerca alle spalle, e almeno due decenni di sperimentazione metodologica sul campo, pensavo di poter dare con una certa sicurezza un contributo fattivo, magari proporre persino qualche soluzione al dibattito, sui nodi più urgenti del ‘fare scuola’, in presenza e adesso, anche a distanza.
Da molti anni peraltro, una parte consistente della scuola sperimenta i nuovi linguaggi della telematica e tenta di visualizzare anche “in presenza” percorsi di insegnamento e apprendimento adeguati ai tempi ed ai protagonisti della formazione.
Pensavo insomma che sulla scorta dei risultati già acclarati di questa ricerca collettiva, ormai di lungo corso, e di quella specifica che ho avuto modo di sviluppare personalmente (2), non sarebbe stato poi così difficile fare il punto sulla situazione, ribadire gli obiettivi fondamentali dell’istituzione e comporre le questioni primarie tenendo anche conto delle riflessioni sul tema, di idee e suggestioni nel frattempo maturate.
Mi sbagliavo.

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Mentre, da vecchio didatta, cercavo di documentarmi sui termini ultimi del dibattito in corso, sono stato invece sorpreso dalle posizioni e dagli schieramenti nel frattempo delineatesi sull’argomento. A occuparsi di scuola, oggi, si viene in effetti travolti e dal numero degli interventi e dalla pletora di articoli, dal diluvio dei post e in generale dalla pioggia opinioni quotidianamente prodotti da chiunque, con ogni mezzo, ad ogni occasione.
Come orientarsi, mi sono chiesto, in questa babele di considerazioni critiche sul momento che la scuola sta vivendo, di lamentele sulle conseguenze della forzata chiusura e persino di richieste perentorie, con le motivazioni più varie, di riapertura immediata delle aule scolastiche pur in presenza dei pericoli connessi?

Molto complicata invece una composizione ragionevole della questione: per la perentorietà con cui spesso le argomentazioni vengono proposte (organizzazione interna, viaggi e spostamenti, didattica “in remoto” o “in presenza”, formazione a distanza, controllo legale degli accessi e della frequenza, digital divide, (3),verifiche e controllo delle conoscenze, certificazione del percorso e così via). La divaricazione dei pareri e delle prese di posizione è tutt’altro che dialettica: tutto ciò in ragione di una distanza reale, e aggiungo finalmente ben visibile, tra diverse e radicate concezioni dell’istituzione scolastica.

Convinzioni radicate, argomentazioni sostenute dalla ricerca didattica e pedagogica; pregiudizi sull’effettivo lavoro dei docenti; conoscenze superficiali e ingenue (mis-concezioni) autoalimentate sulla scarsa importanza della cultura; convinzioni socialmente tanto diffuse quanto arcaiche sul ruolo stesso della scuola nella vita dell’individuo e del cittadino; tambureggianti campagne di promozione di didattiche innovative e funzionali anche a distanza… Tutto il panorama delle opinioni possibili rende assai poco invidiabile il ruolo di chi in questi momenti si trova comunque a dover decidere cosa effettivamente fare della scuola italiana nel prossimo futuro traendone consenso e contributo sufficienti.

Qualche considerazione è dunque d’obbligo, poiché sarebbe più opportuno che per parlare di scuola e di formazione si potesse controllare preventivamente di avere dei riferimenti comuni, delle premesse condivise: in caso contrario gli stessi operatori si troveranno ad affrontare empiricamente e praticamente da isolati professionisti problemi che invece vanno affrontati e possibilmente risolti con contributo plurale.

[3]

La mia prima impressione è che oggi, se non altro, tutti si rendono conto di come, qualsiasi decisione si prenda, essa non potrà non avere importanti ricadute su quello che la scuola potrà essere da questo momento in avanti.
Quando, come speriamo tutti, questo momento difficile sarà passato, esisterà in ogni caso un lascito di ricerca e azione anche tra quanti finora non hanno mai veramente pensato di doversi (pre)occupare dell’efficacia reale dell’azione didattica e formativa.

E’ noto come la scuola italiana della secondaria si muova con una organizzazione didattica fondamentalmente basata – nella effettiva sostanza delle cose e al di là di tutte le iniziative (alcune veramente degnissime e di successo) di formazione e collegialità formali – sull’iniziativa e sulla responsabilità dei singoli insegnanti.

Negli anni si sono moltiplicati a dismisura gli obblighi di certificazione dei percorsi di insegnamento, suddivisi per discipline ma aggregati in discipline affini e dipartimenti, condivisi dagli organi collegiali. Ciò ha aggravato spaventosamente i carichi di lavoro e di rendicontazione formale a carico dei docenti, compresi i piani didattici riservati ad allievi in possesso di problemi certificati, mentre la realtà della didattica disciplinare resta, per un fraintesa lettura della libertà di insegnamento, onere e patrimonio dei singoli docenti.
So che molti si premureranno di smentire questa affermazione, preoccupati magari che la figura dell’insegnante ne esca ulteriormente indebolita e discreditata: non è questa l’intenzione ma non è neanche il punto cui voglio arrivare.

Trovandosi a sperimentare una scuola di emergenza si è comunque direttamente coinvolti in modalità didattiche affatto diverse da quelle usuali, molto meno semplici da organizzare e rendicontare. Obtorto collo, spinti dalla situazione eccezionale, ci si trova ad attivare perciò percorsi originali di insegnamento e apprendimento, ma, quello che più colpisce, ci si trova a farlo (e questo vale per i docenti come per i discenti, per le istituzioni come per le famiglie) su una realtà di scala impensabile per qualsiasi ricerca, dalla primaria alla secondaria di II grado.

Anche tra le sperimentazioni più avanzate promosse con più decisione negli ultimi anni dal Ministero della Pubblica Istruzione sarebbe stato impossibile ipotizzare – persino sul brevissimo periodo – l’adozione di nuove pratiche massive a questo livello. Quale traccia resterà nella scuola come nei suoi ‘operatori della conoscenza di questa esperienza? Avendo imparato ad utilizzare grandi piattaforme telematiche, avendo cominciato a sperimentare la multi-connessione video, la possibilità di registrare filmati da distribuire e da rivedere, avendo in generale utilizzato molte delle opportunità che la telematica e i suoi operatori ci offre, in che luce apparirà in seguito l’organizzazione scolastica tradizionale e in sola presenza?

Non è difficile realizzare, pur in questa emergenza organizzativa – ma quanti anni sono che si parla di ‘emergenza educativa? – che siamo al centro di un impressionante esperimento di pedagogia sperimentale di massa, un’esperienza di didattica mediata in cui per la prima volta su una scala così imponente e persino non limitata ad una singola realtà nazionale, gli ambienti di rete, non solo gli ambienti social ma le grandi piattaforme telematiche dedicate, si propongono come ambienti di apprendimento legittimati e non solo come strumenti di apprendimento indiretto e sussidiario.

Le espressioni ‘ambiente di apprendimento’ come quella di ‘comunità di apprendimento’ sono diventate familiari, in questi ultimi anni, e adoperate spesso a sostegno di progetti, nella pianificazione di attività, nell’organizzazione di iniziative: altrettanto spesso vengono utilizzate da documenti ufficiali, report di ricerche internazionali, saggi e contributi accademici di settore. Due concetti importanti, però, che andrebbero maneggiati con cura e che soprattutto fanno riferimento ad orientamenti pedagogici e metodologici particolari quali il sofisticato costruttivismo.

Questo percorso forzoso, metodologico, didattico, di pianificazione alternativa, di costruzione delle competenze potrebbe essere – sempre che il sistema non lo ‘incisti’ e non lo svuoti di significati – il più grande corso di formazione professionale mai sviluppato per i nostri insegnanti ed una svolta radicale nel nostro modo di attivare i processi di insegnamento e apprendimento .

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Note

(1)  Bruno Santoro – CV (professionale) – Insegnante di Letteratura Italiana e Storia, Laureato in Filosofia c/o Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università della Calabria e specialista di sistemi di rete, ha sviluppato molti progetti di metodologia didattica, alcuni pluriennali, dedicati agli ambienti digitali di apprendimento. Amministratore di rete e progettista di servizi telematici per la scuola, ha svolto per molti anni attività di tutoring in percorsi di formazione per insegnanti. Tra le sue iniziative recenti i progetti Let’s Net!, Scuol@ttiva e Paper, Pen and Phone [5].
Un CV più ampio in file .pdf: Bruno Santoro – Curriculum vitae [6] – http://www.letsnet.it/PPP/CV.htm [7]

(2) – Cfr. www.letsnet.it [8]

(3) – Il divario digitale (in inglese digital divide) è il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell’informazione (in particolare personal computer e Internet) e chi ne è escluso, in modo parziale o totale.

[Di cosa parliamo quando parliamo di scuola (1) – Continua]

[9]

Il libro di Raymond Carver What We Talk About When We Talk About Love (1981).
Traduzione italiana: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (Garzanti, 1987; minimum fax, 2001; Einaudi, 2009)