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Quanto è importante la memoria

proposto da Tano Pirrone

Alcuni libri (e film) “illuminano” i complessi rapporti tra memoria, nostalgia e storia. Una recensione letteraria da “Il Foglio” per l’uscita del libro “Voglio che sappiate che ci siamo ancora” di Esther Safran-Foer, attraverso la citazione di un altro libro importante (“Ogni cosa è illuminata”, curiosamente, ma non a caso del figlio dell’Autrice, Jonathan Safran Foer) ci permette una immersione in storie e in un tempo che non sono mai passati. Quest’ultimo romanzo e il film che ne è stato tratto sono stati già citati sul sito: leggi qui [1].

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La memoria ritrovata di Esther
di Francesco M. Cataluccio

E’ tornata nell’Ucraina che suo figlio Jonathan Safran Foer non aveva “illuminato”.
I tanti per
ché di un viaggio.
“Voglio che sappiate che ci siamo ancora”, il libro che racconta ( e si interroga) sul destino degli ebrei in Ucraina.
Alla base sta inoltre una riflessione sulla “postmemoria”: l’idea che i ricordi traumatici continuino a vivere nella generazione successiva

da: Il Foglio Quotidiano dell’11 novembre 2020

Nel 1999 il giovane scrittore Jonatahan Safran Foer (1977) si recò in Ucraina per scrivere la sua tesi per l’Università di Princeton ma, in realtà, per fare delle ricerche sul campo sul destino dei suoi parenti.
L’insuccesso della spedizione lo ha raccontato, con molta autoironia, in un bel romanzo che ha avuto molto successo: Everything Is Illuminated (“Ogni cosa è illuminata”, Guanda 2002), dal quale è stato tratto il tragicomico, e omonimo, film con la regia di Liev Schreiber (2005).

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Molti ebrei americani si sono recati in Ucraina alla ricerca di tracce dei loro parenti e dei villaggi scomparsi durante la Seconda guerra mondiale.
Più di recente (nel settembre 2017), anche un altro scrittore statunitense, Paul Auster, è andato a Ivano-Frankivisk (un tempo: Stanislawów/Stanislaviv/Stanislav) per trovare, senza successo, qualche traccia dei suoi parenti: “Non c’era ragione di andarci se non la curiosità o quello che potrei chiamare il richiamo di una finta nostalgia, perché in realtà non ho mai conosciuto mio nonno, morto 28 anni prima che nascessi: un uomo-ombra che appartiene a un passato non scritto e non ricordato (…). Capivo che il luogo dove aveva passato l’infanzia e l’adolescenza non era più il posto in cui io avrei passato un pomeriggio” (P. Auster, I lupi di Stanislav, in Literary Hub/Internazionale, 31 Luglio 2020).

Ogni cosa è illuminata racconta di un giovane ebreo statunitense, Jonathan, che si reca in Ucraina alla ricerca di Augustine, la donna che salvò la vita a suo nonno durante le deportazioni naziste. Armato di una fotografia che ritrae Augustine con suo nonno, Jonathan inizia così la sua ricerca del paesino fantasma di Trachimbrod, lo shtetl in cui all’epoca suo nonno viveva, distrutto dai nazisti durante la guerra e perciò scomparso dalle mappe. Nel suo viaggio è accompagnato da guide locali della sgangherata “Agenzia viaggi tradizione”: Aleksandr (Alex), con il quale stringerà presto amicizia, e lo strambo nonno di Alex, che sostiene di essere cieco (ma in realtà ci vede benissimo), e che per questo si fa condurre dal proprio cane-guida, Sammy Davis Junior Junior. Incontreranno infine Lista, una delle amanti di Safran, il nonno di Jonathan. Lista, unica sopravvissuta al pogrom, racconterà loro di come Trachimbrod sia stata rasa al suolo dai tedeschi, e della morte di sua sorella Augustine…
In realtà Jonathan doveva trovare un uomo che salvò, coraggiosamente, suo nonno.


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Lo sappiamo oggi dal libro di sua madre, Esther Safran Foer, I Want You to Know We’re Still Here (“Voglio che sappiate che ci siamo ancora”, Guanda 2020).
La madre non si è accontentata degli scarsi risultati delle ricerche del figlio (“Il fatto che Jonathan non avesse trovato nulla, l’ha autorizzato a inventare”) e si è messa caparbiamente sulle scarse tracce dell’uomo, che compare in una vecchia fotografia accanto a suo padre, dopo averlo salvato. Il padre, immigrato negli Stati Uniti nel dopoguerra, si suicidò poi nel 1951, ufficialmente a causa di un tracollo finanziario (“So che scampare alla guerra non voleva dire, necessariamente, esserle sopravvissuti”, nota amaramente la figlia a p. 52).
Mettendo in piedi una rete internazionale tra i sopravvissuti dello shtetl di Trachimbrod, Esther raccoglie migliaia di informazioni, visita di persona i possibili testimoni e, alla fine, assieme al suo primo figlio Franklin (1974), giornalista di The Atlantic ed ex redattore di The New Republic, si recherà anche lei in Ucraina e scoprirà la verità.
Partirà contro la volontà della sua anziana e sempre reticente madre: “Là tutti i suoi famigliari erano stati ammazzati dai nazisti mentre i vicini restavano a guardare e qualche volta davano addirittura una mano. Lei non aveva alcun desiderio di tornarci, mai e poi mai, e non capiva perché chiunque altro ci volesse andare. Mi ha detto: ‘Lì non c’è niente da vedere’”.

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Nell’Ucraina postsovietica, Esther e il figlio vivono una sorta di spaesamento temporale, un viaggio a ritroso nel tempo ma anche la sensazione che esso non sia trascorso: “Il tempo sembrava essersi fermato: quello che era successo settant’anni prima avrebbe potuto essere successo il giorno prima o quel giorno stesso”. Ritrovano la foresta di Yaromel dove i loro parenti furono trucidati e sepolti in una fossa comune. Su quella terra seppelliscono dei bigliettini: “Volevamo far sapere ai nostri antenati che ci siamo ancora”.
Viene loro raccontato che gli ebrei di Trochenbrod erano arrivati lì e avevano visto la fossa profonda scavata da altri ebrei poi uccisi e sepolti più in là: “Ordinarono loro di togliersi i vestiti e i gioielli. I nazisti intimarono loro di mettersi in fila per sette e di voltarsi verso la fossa, e li colpirono alle spalle”. Esther nota che ovviamente non era la prima volta che sentiva raccontare questa terribile storia, “tuttavia il racconto ripetuto si trasformava in memoria e la memoria in storia”.

Questo del rapporto tra Storia e Memoria è uno degli aspetti centrali del libro, perché rimanda a una questione molto importante per la cultura ebraica. Infatti nella lingua ebraica manca di una parola precisa che connoti la Storia. Come ha mostrato lo storico Yosef Hay- im Yerushalmi (1932-2009), nel libro del 1981 Zakhor. Jewish History and Jewish Memory (in italiano: “Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica”, Pratiche Editrice 1983, poi Giuntina 2011), la parola “storia” viene tradotta con zakhor che signica “memoria”.
Esther Safran Foer scrive che ha sempre interrogato i suoi parenti e amici su che relazione ci sia tra il racconto della storia e la storia stessa; tra il racconto e il ricordo; tra il racconto e la rievocazione storica. Le sue idee, in proposito, sono chiare: “La memoria riguarda racconti ed esperienze selezionate. La storia è la fine di qualcosa. La memoria è l’inizio”. La storia è pubblica, la memoria è personale.
Alla base del lavoro di ricerca di Esther Safran Foer sta inoltre una riflessione sulla “post- memoria”: l’idea che i ricordi traumatici continuino a vivere nella generazione successiva, anche se essa non ha sperimentato direttamente quegli eventi.

E’ stata la docente della Columbia University, Marianne Hirsch (1949), che ha introdotto il termine “postmemoria” (The Generation of Postmemory: Writing and Visual Culture After the Holocaust, Columbia UP 2012), ipotizzando che le storie con cui si cresce, poiché trasmesse a livello affettivo, diventino ricordi a pieno titolo e che tali ricordi ereditari, frammenti traumatici di eventi, si sottraggano a una ricostruzione coerente: “Ho usato per la prima volta il termine postmemoria in un articolo dedicato alla grafic novel Maus (1990) di Art Spigelman. Chiamiamo postmemoria il rapporto che la ‘generazione successiva’ ha con il trauma personale, collettivo e culturale del- la generazione precedente – ovvero, con le esperienze che essi ‘ricordano’ esclusivamente attraverso le storie, le immagini e i comportamenti delle persone con cui sono cresciute. Questo vissuto è stato trasmesso loro in modo talmente profondo ed emotivamente intenso da costituire un vero e proprio ricordo a sé. Il rapporto della postmemoria con il passato, quindi, non ha origine nella mediazione del racconto, al contrario: è un ricordo caricato dall’investimento immaginativo, dalla proiezione e dalla rielaborazione”.

Crescere con l’eredità di un ricordo così pesante, dominati da narrazioni che hanno preceduto la nostra nascita o la nostra coscienza, significa correre il rischio di sostituire il nostro vissuto, in parte o del tutto, con quello di chi ha vissuto prima di noi. Essere condizionati, anche se indirettamente, da frammenti traumatici di eventi che ancora sfidano la ricostruzione narrativa e vanno al di là della nostra comprensione. Eventi che hanno avuto luogo nel passato, ma le cui conseguenze continuano nel presente.

Esther Safran Foer sostiene di esser cresciuta in mezzo ai fantasmi: “La mia infanzia è stata piena di silenzi, punteggiati di tanto in tanto da rivelazioni sconvolgenti (…), perseguitata da parenti di cui si parlava raramente e da storie che nessuno voleva raccontare”.

Il libro di Esther Safran Foer è anche importante per come racconta una vicenda ancora poco studiata: il destino dei sopravvissuti all’Olocausto nei due anni successivi alla fine della guerra. Anzitutto quello dei suoi genitori e il suo. Stando ai documenti Esther nacque l’8 settembre 1946 a Ziegenhaim in Germania. I suoi genitori (Ethel Bronstein, di Kolki, salvatasi in Uzbekistan e Louis Safran, di Trochenbrod), gli unici membri delle rispettive famiglie a essersi salvati dall’Olocausto, si sposarono nel campo profughi di Lódz, in Polonia, il 5 maggio 1945. Esther nacque là il 17 marzo 1946 (Zieghenheim fu il secondo campo dove i Safran furono trasferiti e là la registrarono).
I genitori di Esther, che campavano a stento a Lódz, grazie a una piccola attività di commercio, volevano andarsene al più presto (come gli altri 50 mila ebrei che si trovavano in città) e riuscire ad emigrare negli Stati Uniti, grazie all’aiuto di un parente che già abitava là. Ma, in pratica, tutte le opzioni migratorie fuori dal cimitero europeo erano impraticabili, Vennero organizzati centinaia di campi profughi, non solo in Germania, ma anche in Austria e in Italia: ospitavano circa 850 mila persone. Nessuno voleva i profughi ebrei, nemmeno gli Stati Uniti.
L’unica possibilità, anche questa non facile e rischiosa, era di emigrare in Palestina per contribuire alla nascita dello Stato d’Israele.
In Germania, in particolare la vita nei campi profughi (spesso gli stessi campi di lavoro tedeschi) era insopportabile. Esther riferisce della testimonianza di Gina Roitman su un’ostetrica tedesca che uccideva i neonati ebrei schiacciandogli la fontanella e dicendo che non erano sopravvissuti al parto (p. 87).
Due soldati ebrei americani, Edward Herman e Robert Hilliard scrissero, nel 1945, una lettera di denuncia alle autorità alleate: “Con la vostra colpevole negligenza siete responsabili della morte degli ebrei europei quanto lo sono in precedenza i più diabolici tra i nazisti. Migliaia di ebrei europei sono ridotti all’indigenza, senza cibo, riparo, vestiario e assistenza medica”.
Il presidente statunitense Truman ordinò un’inchiesta, guidata da Earl G. Harison che riferì: “Trattiamo gli ebrei come li trattavano i nazisti, se non fosse che noi non li sterminiamo”.


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Tornata negli Stati Uniti, Esther Safran Foer si reca al cimitero Berh Shalom, sulla tomba di suo padre, per raccontargli la sua storia che aveva ricostruito e i luoghi che aveva ritrovato: “Finalmente mi erano stati svelati i suoi segreti. O forse non erano affatto segreti, ma solo un pezzo della sua vita che gli era stato impossibile rivelare. (…) Però, pur avendo passato una vita a rimettere assieme la nostra frammentaria storia familiare, ho imparato che non tutte le storie hanno bisogno di un finale ‘pulito’. A volte si può lasciare che sia l’immaginazione a riempire i buchi”.

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Nota
Tranne la copertina del romanzo di Esther Safran-Foer, tutte le immagini che corredano l’articolo sono tratte dal film “Ogni cosa è illuminata” (Everything is illuminated di Isaac Liev Schreiber, 2005).
Il film riprende e rielabora il materiale del libro, omettendone (per motivi di budget e di durata) tutta la parte favolistica ambientata nello shtetl di Trachimbrod, centocinquant’anni prima dei fatti attuali. Malgrado tale mancanza, che pure costituisce una componente rilevante (e pregevole) del romanzo che ne è alla base, il film è perfettamente riuscito, riproducendone il messaggio, l’atmosfera, e perfino la lingua (l’inglese da fumetti parlato dal ragazzo russo che fa da accompagnatore).