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Il peso della pandemia, anche nelle parole

di Luisa Guarino

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Abbiamo appreso proprio in questi giorni che “lockdown” è la parola più usata dell’anno: bella scoperta e sai che soddisfazione, ho pensato. Per mia fortuna già una decina di giorni avevo deciso di cancellare questo termine dal mio vocabolario, e non far parte oggi del “gregge” non può che rendermi orgogliosa. L’osservazione, seguita dalla decisione, è nata da una lettera pubblicata qualche giorno fa da la Repubblica. Scritta da un lettore di Trieste, diceva testualmente: “L’altra sera ho ascoltato il discorso di Macron e ho notato un aspetto: ha sempre parlato di ‘confinement’ e mai di ‘lockdown’. Noi italiani abbiamo una lingua meravigliosa: perché non si prende spunto dal presidente francese e si comincia a valorizzare il nostro mirabile lessico, anche e soprattutto in occasione di eventi così drammatici?”.

Ora, lasciamo stare il proverbiale sciovinismo dei cugini d’Oltralpe e riflettiamo un po’ sul nostro linguaggio. So che anche accreditati linguisti nel corso di seguite e apprezzate trasmissioni televisive hanno proposto un’alternativa alla parola dell’anno, che può essere ad esempio sostituita da clausura, o da chiusura. Ma clausura mi fa pensare alle monache, chiusura potrebbe anche andare, ma ha meno personalità. Invece confinamento, sebbene lunga, mi sembra una parola perfetta: significa ognuno confinato nella propria casa e impossibilitato a mettere il naso fuori dalla porta. Inoltre un peso decisivo l’ha avuto l’associazione “storica” con la mia isola, dove il confino è stato una dura condizione vissuta da tante persone provenienti da ogni parte d’Italia a causa di posizioni politiche opposte a quelle del fascismo imperante.

Con assoluto rispetto per tutti loro, e riferendomi a questa bruttissima pandemia diffusa in tutto il mondo, da oggi voglio combatterla anche con le parole. Perché se ‘lockdown’ è un orribile termine onomatopeico che richiama alla mente e alle orecchie un cancello o una gabbia che si chiude all’improvviso, un chiavistello, una spranga di metallo, almeno ‘confinamento’ ha un suono più dolce e accettabile, quasi condivisibile. Si fa per dire.
Ma si sa, in genere gli italiani vanno pazzi per le parole straniere, specie se inglesi: li fanno illudere di essere… moderni e colti, anche se la loro lingua non la conoscono per niente.







5 Comments

5 Comments

  1. Sandro Russo

    12 Novembre 2020 at 07:12

    Il condivisibile richiamo di Luisa Guarino sul frequente e spesso non necessario impiego di termini anglosassoni nella lingua italiana riporta l’esempio – per così dire – virtuoso dei francesi: Macron non ha usato al parola lockdown, ma quella francese di confinement.
    E sarebbe giusto in effetti usare “confinamento” anche in italiano.
    Ricordiamoci però che i francesi volentieri cadono nell’eccesso opposto, tanto da aver estromesso dalla loro lingua la parola computer: in francese ordinateur; salvo poi nell’uso comune chiamarlo in sigla pé-sé (pronuncia francese di p.c. = personal computer). Come dire che l’inglese, cacciato dalla porta rientra dalla finestra.
    D’altra parte sono proprio i nostri cugini d’oltraple ad aver inventato lo sciovinismo (in francese chauvinisme, dal nome di Nicolas Chauvin). Da conoscerlo per evitarne le insidie.
    Sia sciovinismo che gingoismo (l’equivalente anglosassone) hanno una voce su Wikipedia, per chi voglia approfondire.

  2. silverio lamonica1

    13 Novembre 2020 at 13:30

    LA “DIFESA DELLA LINGUA”

    Perché noi italiani siamo più “ricettivi” di termini “esotici”, rispetto ai francesi ed altri popoli?
    Dobbiamo considerare che, diversamente dai francesi, noi siamo reduci da una dittatura, il fascismo, durante la quale non era ammesso l’uso di “barbarismi” nella nostra lingua. Nel calcio, ad esempio, la parola “goal”, che in inglese significa traguardo, barriera, scopo, meta e indica il momento in cui la palla entra nella porta avversaria, venne sostituita dal termine “rete” (uno degli elementi che, assieme ai pali e alla traversa, forma la “porta”) ad opera, se non erro, dell’indimenticabile cronista Nicolò Carosio. Durante la dittatura, lo studio della lingua inglese era bandito o quasi, dalle scuole ( la lingua della “perfida Albione”). Nonostante che già da decenni, ci fosse un notevole flusso migratorio verso gli Stati Uniti e molti italo americani facessero la spola tra il nuovo e il vecchio continente. Anche alcuni generi musicali, come il Jazz erano proibiti.
    Terminata la guerra che sancì la fine della dittatura in Italia, ci si aprì entusiasti alle “novità” e quindi importammo barbarismi e neologismi a iosa e tuttora continuiamo con questa “moda”. Certo, ci vorrebbe un novello Basilio Puoti, purista della lingua di qualche secolo fa, ma non so fino a che punto riuscirebbe nell’intento di imporre la terminologia italiana nella nostra lingua.

  3. Silverio Guarino

    13 Novembre 2020 at 19:57

    Inglese, lingua comune.

    A modo mio, mi sono sentito un po’ bacchettato da mia sorella e da Sandro, avendo usato proprio io il termine “lockdown” in occasione del mio ultimo contributo per Ponzaracconta (L’amato scoglio in cinque sensi), proprio io che non riesco a dire “buon week-end” neanche sotto tortura.

    Quando frequentavo le scuole medie esisteva un libro di testo dal titolo “Parole al vaglio” che si prodigava nell’elencare i neologismi, i gallicismi e le parole straniere con i relativi equivalenti della nostra amatissima lingua (oggi l’Accademia della Crusca si aggiorna e li aggiorna quotidianamente).

    Ai tempi di Alessandro Magno, in tutta la regione dell’Ellade si parlava il greco “attico”, lingua comune, “koiné”, come dicevano i greci.

    Prima del Rinascimento in tutta l’Europa conosciuta si parlava il latino, una vera e propria nuova “koiné”, che accomunava tutte le genti.
    Certo che il latino parlato a Roma era diverso da quello di Parigi o da quello di Lisbona, ma ci intendeva bene.
    Io stesso da liceale (tutti i liceali del mondo lo studiavano) ho avuto modo di parlare in latino con coetanei tedeschi.

    Oggi esiste l’inglese, questa lingua comune che ci permette di parlare in tutto il mondo in modo comprensibile; questo amatissimo e odiatissimo inglese che mi ha permesso di giocare una partita a tennis con un finlandese (persa dignitosamente 6-4, 7-5) e di scambiare opinioni con un ricercatore ungherese in occasione di un mio soggiorno a Houston.

    Certo l’inglese parlato da me (francofono e francofilo dalla nascita) è diverso da quello parlato a New York o a Madrid o a Tokio. Ma ci si intende.
    Una nuova “koiné”, insomma.

    L’inglese, una lingua da usare a tutto tondo in caso di necessità, ma da non mutuare per definire sostantivi, aggettivi, verbi e avverbi, di cui è ricca la nostra amata lingua.

    P.S. Tanto Luisa e Sandro avranno a che dire sull’uso che io faccio delle virgole e delle “virgolette”

  4. Sandro Russo trascrive l’Amaca odierna di Michele Serra

    14 Novembre 2020 at 08:33

    La trappola del drive through
    di Michele Serra
    da la Repubblica del 14 nov. 2020

    La pronuncia di “drive through”, a carico di cronisti, conduttori di tigì, onesti graduati dell’esercito, sta dando luogo a gravi slogature labiali, e la cosa più grave è che allo sforzo raramente corrispondono risultati decenti. Finché si tratta di drive, la memoria del Drive in televisivo aiuta a cavarsela anche la casalinga di Voghera e l’elettrauto di Stradella (i due si frequentano da anni); ma il through, uno di quei monosillabi inglesi con squadracce di consonanti che brutalizzano sparute vocali, è francamente troppo. Fru, tru, dru, fro, frug, truf, trug, si è sentita qualunque cosa, e ci si domanda il perché di questa ostinazione anglofona anche laddove si riveli una missione suicida.
    Vorrebbe dire, drive through, qualcosa come “guidare attraverso”, sintesi effettivamente fulminea di “come farsi un tampone attraversando il punto di prelievo senza scendere dall’auto”. L’inglese ha di queste accelerazioni, l’italiano no, bisogna farsene una ragione e tentare un accettabile compromesso, “punto tamponi” mi sembra onesto anche se non è indicativo delle modalità, ma almeno si evita di scempiare l’inglese e al tempo stesso si concede una residua possibilità all’italiano. Non si tratta si essere puristi, sia chiaro, le lingue vivono se si contaminano, ma per una bocca nostrana through è veramente troppo, basta vedere come è scritto, non è una parola, è una trappola, è una sfida fonetica, è roba che non compete noi poveri latini. Mi unisco alla casalinga di Voghera e all’elettrauto di Stradella, siamo favorevoli al punto tampone, contrari al drive through.

  5. Luisa Guarino

    23 Novembre 2020 at 17:18

    A proposito del “cambiamento di senso delle parole” indotto dalla pandemia, segnalo questo breve scritto di Stefano Massini, da Robinson

    Benvenuti nell’era della negatività
    di Stefano Massini

    Mi ha profondamente colpito leggere sulle colonne di Repubblica il calvario di Cinzia, neomamma affetta da Covid, il cui parto ha avuto luogo circa un mese fa al Gemelli di Roma.
    Cinzia racconta lo strazio di una nascita anomala, con il bambino che non riceve l’abbraccio della madre e non trova nessuno a festeggiarlo, nessuno a dargli il benvenuto nella comunità degli uomini. Viceversa, Carlo (questo il nome del neonato) viene immediatamente sottoposto a plurimi tamponi per appurare se sia affetto dal famigerato nemico pubblico. Il momento in cui si viene al mondo — l’attimo in cui si vede la luce — è qualcosa di sacro e al tempo stesso di oscuro: nessuno ricorda il proprio esordio fra i vivi, nessuno ne ha memoria, con tutto che esso costituisce il passaggio essenziale del nostro percorso di creature, ma nel caso di Carlo non ha avuto luogo con una celebrazione della vita, bensì con una verifica del rischio di morte. È un ribaltamento di prospettiva che mi fa riflettere e inorridire, e il secondo verbo nasce dal fatto che ahimè la cosa non sorprende affatto: io personalmente ho passato venti giorni in compagnia del Covid, e so benissimo cosa significhi riformulare la propria bussola all’insegna di una “negatività” che diventa notizia splendida.
    Cantava Jovanotti “io penso positivo perché son vivo”, ma l’asse oggi si è completamente distorto: festeggia chi è negativo, mentre i positivi tremano. Ed eccoci a fare i conti con una completa rivoluzione, per cui la sopravvivenza si è sostituita alla vita, e la prospettiva ferale del morire si è tramutata in pericolo incombente, ossessivo e onnipresente, da schivare come ostacoli nello slalom.

    Da Robinson – Rubrica “Manuale di sopravvivenza” – Allegato a la Repubblica del 21/11/2020

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