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Whiplash, un film estremo

Segnalato e presentato da Sandro Russo

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In occasione del passaggio su Netflix di un film ‘fenomeno’ del 2015, Whiplash, vincitore di tre premi Oscar (attore non protagonista, montaggio e mixaggio sonoro) e numerosi altri premi (Golden Globe, BAFTA), Latina Oggi ha pubblicato una pagina dedicata, a cura di Marcello Banfi.
Così mi è tornato alla mente un film di cui abbiamo molto parlato a suo tempo – certo non è passato inosservato -, pur suscitando un vespaio di discussioni… Benvenute! È così che si analizza un film e si affina il gusto.
Sintetizzo il tutto per i lettori di Ponzaracconta.
S. R.

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Ne ha scritto Alberto
Ho visto un film che mi ha molto emozionato. Molto.
Whiplash. Un film sul jazz, sulla musica, sulla scuola, sui padri. Un thriller che toglie il fiato, che quando finisce ti fermi fino alla fine dei titoli di coda, e quando esci continui a parlarne.  Che ti continua a lavorare dentro e ti fai un sacco di domande.
Cosa chiedere di più ad un film ?
Come tutte le cose belle, quelle non rivolte alla massa dei ‘consumatori consumisti’, durerà poco, nelle sale.
Non ve lo perdete. E, se vi va, dite la vostra, su questa scuola, su questi maestri, su questi genitori, sul futuro di questi giovani.
Spero che vi piaccia.
Ciao.
Alberto

Ha mandato una recensione molto articolata Claudio Pipitone (marzo 2015), un nostro amico purtroppo scomparso, e così l’ha presentata.
“L’incontro-scontro sado-maso in un centro di formazione musicale americano tra l’inflessibile istruttore e l’allievo emergente, in cui violenza, umiliazione, ambizione e narcisismo spingono verso l’assoluta perfezione. Senza se e senza ma, l’affinamento dell’esecuzione (e del clima) sale verso limiti estremi, fino a entrare nel mondo dell’oltre. Una sfida lacrime e sangue, due tempi, una soluzione (del conflitto), alcune domande.
È un film che, qualunque sia l’orientamento o il giudizio sui modelli descritti, si gode per la preziosità stilistica, per la ricerca minuziosa dell’estremo, per la bellezza delle musiche, per la bravura del cast. Molto interessante.
Approfondimento in allegato”.
Claudio
In file .pdf in fondo all’articolo

Ho replicato io, Sandro Russo
Mar 5, 2015
Ho visto il film che tra l’altro ha vinto anche una barca di Oscar (almeno tre) e mi è sembrato esagerato; lo sceneggiatore certamente ha debordato. Sadismo? Di più! Sacrificio e autolesionismo? Di più! Un incidente stradale? Mica con una bicicletta! Il protagonista batte contro un autobus, esce strisciando dalla macchina accartocciata e poi va a suonare (…mentre si sa che dopo un evento del genere la scarica di adrenalina fa tremare le gambe e le mani!).
Ma quel che mi ha definitivamente convinto è stata la puntualizzazione di Goffredo Fofi, che fornisce la chiave giusta (secondo me) e che allego.
Ciao
S.

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Perché Whiplash è un film ideologicamente sbagliato (e quali autori leggere per capirlo)
di Alberto Grandi su https://www.wired.it [3]

Recentemente ho visto Whiplash, film diretto da Damien Chazelle sull’amore per la musica jazz, l’ambizione del giovane Andrew (Miles Teller) di diventare il miglior batterista del suo tempo e il rapporto ai limiti del sadomasochismo con il suo professore Terence (JK Simmons), cattivissimo, pelato, perfezionista, rissoso. Una specie di fusione di Nosferatu e Benito Mussolini.

Il film ha vinto al Sundance festival e si è aggiudicato l’Oscar per il miglior attore non protagonista (Simmons), miglior montaggio e miglior sonoro. Dopo essere uscito dal cinema, ricordo che ho pensato a un prodotto perfettamente riuscito e non a uno sforzo artistico più o meno riuscito. Un prodotto di alta qualità, sia chiaro, ben recitato, ben sceneggiato e ben montato, ma in quanto prodotto studiato con astuzia.

Perché dico questo? Perché Whiplash racconta la storia di un’ossessione per la musica senza trasmetterla. Se Andrew fosse stato un aspirante maratoneta e Terence il suo allenatore, sarebbe stata la stessa cosa. Bella sceneggiatura, bravi attori, bel montaggio. Si parla di maratone e non di musica jazz? Non fa alcuna differenza. Il prodotto rimane ben confezionato. Godibile, encomiabile per i suoi tanti pregi, ma carente riguardo proprio a quell’ingrediente che avrebbe dovuto esserne la base: la follia.
Folle è un ragazzo che rinuncia all’amore, si fa sanguinare le mani e rischia la vita in un incidente d’auto per suonare la batteria, per essere il migliore.
Folle è un insegnante che picchia i suoi studenti perché non sanno tenere il tempo, li mortifica chiamandoli “palla di lardo” (Full Metal Jacket docet) e sottoponendoli alla pubblica umiliazione.
Folle, certo, come lo è per certi versi l’arte quando coinvolge a tal punto chi la crea da costringerlo a sacrificare tutto pur di riuscire nel suo proposito: riproporre la vita, le sue tante contraddizioni, attraverso la bellezza, sia essa un’esecuzione alla batteria, una pittura su tela o un romanzo.

Il problema è che la follia di Whiplash, come dicevo, non è sentita, ma parte di un prodotto ben confezionato e che alla fine lascia non dico delusi, ma freddi. Non aggiunge nulla, nel cuore dello spettatore, su quello che già sapeva della vita.

Dopo aver letto l’articolo di Goffredo Fofi per Internazionale – Whiplash è una favola per gonzi di destra – mi sono reso conto che non solo Whiplash è un film artisticamente mancato, ma ideologicamente sbagliato. Sì, perché alla fine, più che l’opera d’arte in sé, il raggiungimento della perfezione espressiva, sembra che il protagonista, il giovane batterista, abbia come obiettivo quello di essere il migliore e basta. E questa non è la pulsione di una personalità genuinamente ispirata, quanto patologicamente ambiziosa. Da qui, la riflessione secondo cui se Whiplash invece che la passione del jazz avesse trattato quella per la maratona o per la vendita di auto di seconda mano, sarebbe stato ugualmente un buon film.

Fofi parla di questa ideologia terribile dell’America nel dividere il mondo tra vincenti e perdenti, tra chi arriva primo e tutti gli altri e di come la letteratura americana, in passato, ci abbia aiutato a compensarla e sia servita come antidoto. Ed è vero.
Autori come Bukowski (Post Office), Salinger (Il giovane Holden) e Raymond Carver (tutti i suoi racconti), artisti genuinamente ispirati da un’ansia che non era dettato solo dall’esigenza di “essere-il-numero-uno” ma di dar voce alla solitudine, ci hanno spiegato quanto fosse duro vivere nella “società dei numeri uno”. Così come il capitano Achab di Moby Dick ci ha spiegato benissimo, col cuore, cosa significa avere un’ossessione (nel suo caso la balena bianca), esserne dipendenti e perseguirla fino alla morte. Ma quella era arte. Pura follia. Il personaggio splendido di uno dei più grandi romanzi americani scritto con l’anima e senza il proposito di esserlo, e non un prodotto furbo e da Oscar.

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Il capitano Achab, in Moby Dick di John Houston (1956), con Gregory Peck

Whiplash è una favola per gonzi di destra
di Goffredo Fofi, saggistahttp://www.internazionale.it/ [5]

Non è difficile vedere cosa c’è di destra nel film di Clint Eastwood American sniper, silurato agli Oscar, anche se il loro autore e perfino questo film hanno in Italia sostenitori in un’area che si pensa e si dice di sinistra (ed è un guaio per tutti).
Non è difficile vedere cosa c’è di destra nel pluripremiato Whiplash di Damien Chazelle, abile sceneggiatore e abile regista.

È difficile capire i meccanismi che presiedono alle votazioni degli Oscar, quanti voti siano manipolati dai grandi poteri economici newyork-hollywoodiani e quanti rispondano alle suggestioni di una categoria, la casta californiana dei “lavoratori del cinema”, che vive di mode e influenze contingenti, di simpatie e antipatie, di comunanze e distanze, di appartenenze e rivalità decisive per l’assegnazione dei premi.

Ci sembra, in verità, che se Eastwood fa più paura di Chazelle ai mediocri hollywoodiani, perché è certamente più bravo (più “classico”), risponde però alla stessa ideologia. Il suo film più vicino a quello di Chazelle (ma lì l’eroina soccombeva) è Million dollar baby, che raccontava per l’ennesima volta la smaniosa logica americana della lotta per diventare qualcuno, per emergere, nella distinzione mostruosa che quella cultura fa tra winner e losers.

A essa tanti si ribellarono, a cominciare da Hemingway, esaltando, tra anni trenta e settanta, i perdenti al posto dei vincenti, e fu quella l’unica cultura americana che abbiamo davvero amata. La Baby di Eastwood (Hilary Swank – NdR) ci lasciava le penne per aver scelto di seguire l’ideologia darwiniana del vincente, e a me sembrò, un po’ sadicamente, che fosse giusto così.

Il meccanismo è lo stesso dei film di guerra con il sergente cattivo e il soldato debole che grazie a lui si fa forte (e spietato) e “ce la fa”. Kubrick ne mostrò un prototipo in Full metal jacket, e ne vedemmo una sorta di estrema parodia in Ufficiale e gentiluomo, nel 1981. Il sergente nero e cattivo di quel film, Louis Gossett jr, vinse l’Oscar, come il professore di jazz J.K. Simmons lo ha vinto ora per Whiplash. Fratelli, nonostante il colore della pelle.

E il rapporto di Gossett con Gere nel vecchio film è sadomaso quanto quello di Simmons con Miles Teller, il giovanissimo batterista imbranato che diventerà geniale, che diventerà il primo, il migliore. Povero “Bird” Charlie Parker, portato a modello di questa favola per gonzi, niente più che la solita “corsa dei topi” di cui hanno parlato i sociologi. Per uno che “emerge”, milioni che crollano e milioni che ci riprovano. Davvero: che palle! (per altro, per quel poco che ne capisco, perfino il jazz non è più lo stesso, tutto scritto e imbracato, e con molta minore libertà di improvvisare, inventare, “creare”).

Whiplash è, tecnicamente, un buon film: buona sceneggiatura, bravi attori, perfino buona musica. Se ci sta antipatico è perché ci sta antipatica l’America (cioè gli Stati Uniti)? Perché, come diceva Susan Sontag, gli Stati Uniti hanno imposto al mondo “la peste” (Sontag dixit) del loro modello maggioritario e a tratti totalitario? Me lo chiedo spesso, e soffro – non sono il solo, siamo in tanti – nel vedere così fiacca una minoranza statunitense (chiamiamola anche, se vogliamo, “una sinistra”) che ha detto ben altro e che c’è ancora e dice ben altro, e che è comunque, anche perché sa tenersi lontana dal baraccone dello show business, molto più intelligente di quella italiana, più americana degli americani.

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Allegati:

La recensione di Claudio Pipitone (file .pdf): Whiplash. Di Claudio Pipitone.2015 [7]

La pagina odierna di Latina Oggi (file .pdf) dedicata al passaggio del film su Netflix: Whiplash. LT Oggi 09.11.2020 [8]