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La Roma di Gigi Proietti

Proposto dalla Redazione

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“Ci eravamo incontrati sulla terrazza di un hotel al Pinciano, dove stava girando gli altri episodi di “Una pallottola nel cuore”, la serie tv di Rai 1. Davanti a noi a perdifiato la vista dei tetti.
Gigi Proietti si raccontava così in una delle ultime lunghe interviste sulla città tanto amata, rilasciata come testimonial della
“Guida di Repubblica ai Piaceri e ai Sapori di Roma e del Lazio del 2019”.

Il testamento di Gigi Proietti: Gigi Proietti, il Grande Attore e Roma
di Paolo Boccacci 

Da via Giulia a via Annia, da Villa Borghese al Tufello, l’intervista definitiva del grande attore sul legame con la città. I ristoranti, i teatri, gli amici e quelle passeggiate tra buche e sampietrini: “Amo anche la muffa delle fontane quando sono a secco”
“Quello strano tipo di Carmelo Bene”
“Quando ho aperto il ristorante, Il leggio”
“Le passeggiate con Gigi Magni”
“Io, Roma, e la più bella battuta della mia carriera”

Sono nato a via Giulia, ma per favore non mi domandate niente di lì, perché non ricordo nulla. Sono andato via con la mia famiglia da quell’appartamento quando avevo nove mesi.
Poi ci siamo trasferiti a via Annia, una stradina del Celio, accanto all’Ospedale militare. Lì andavo a scuola alle elementari alla Vittorino da Feltre e il primo ricordo che mi porto ancora appresso è un odore, l’odore dei libri, mescolato a quello della merendina che mia madre mi metteva dentro la cartella. Avevo due cartelle nere, rigide, di una fibra un po’ strana, che si potevano anche mettere a tracolla. E mi viene ancora in mente, nonostante fossi piccolo, la vergogna di mettermi il grembiule e il fiocchetto, il fiocco insomma. Non l’ho mai sopportato. Ero un bambino e a Roma nella primissima mattina era consentito di passare addirittura davanti a piazza del Colosseo per andare sulla via del mare”.

“Da via Annia” – ricordava nel suo ritorno al passato – “abbiamo cominciato a girare e siamo andati ad abitare vicino via Veneto, in un appartamento di fortuna, dopo la guerra. Ci siamo stati due, tre anni e ho conosciuto un luogo che ricordo benissimo e che poi è uno strano ritorno, Villa Borghese, perché andavo al cinemetto, che si chiamava dei Piccoli o Topolino e stava vicino alla Casina delle Rose, dove d’estate facevano il varietà e da dietro un canneto, avevo nove anni, vidi tra le canne, c’era una specie di recinto di piante, Billi e Riva, che facevano lo spettacolo. Però non sentivamo bene. Un posto dove sono tornato adesso, dato che ho avuto la fortuna di incontrare un sindaco lungimirante, che era Veltroni, che capì l’importanza di mettere su un teatro a Villa Borghese, il Globe Theatre”.

Ma a via Veneto non ebbe il tempo di annusare la Dolce Vita.
“No, subito dopo eravamo andati ad abitare in periferia, al Tufello, perciò non avrei potuto assistere alla Dolce Vita, perché ero troppo piccolo. Ma Villa Borghese è importante, ero rimasto colpito dalle fontane e soprattutto da quella specie di muffa verde che fanno quando sono a secco. La vedo ancora adesso e anche le statue un po’ sbrecciate della villa. Era molto affascinante per me perché non ne capivo tanto le ragioni, ma sono immagini che mi sono rimaste impresse. Come le fontane di piazza Farnese, che un tempo stavano dentro Caracalla, pochi lo sanno ma è così.
Poi quando stavo al Tufello la vera Roma non l’ho più frequentata per un po’ di anni perché praticamente la borgata era in costruzione ed era lontanissima. Oggi sembra molto più vicina, ma allora bisognava prendere due autobus per arrivare fino al Centro, il 36 e il 60, tutta via Nomentana”.

Poi le storie del liceo: “L’ho fatto all’Augusto sulla via Appia, perché poi dal Tufello ci eravamo spostati con la mia famiglia nella zona dell’Appio Latino, quindi la scuola più vicina era l’Augusto, una scuola pubblica, e naturalmente era in un periodo che precedeva il ’68, per cui non ho conosciuto le manifestazioni della contestazione. C’erano ancora professori educati all’era fascista, qualcuno ci sarà ancora credo”. Naturalmente non perdeva la battuta, l’aneddoto. “C’era un certo Collina che ai primi appelli che facevano all’inizio di scuola non rispondeva, perché non c’era. E questo Collina non è mai venuto. E allora c’era sempre qualcuno che, quando il professore chiamava “Collina”, diceva “presente”. Facevamo a turno. Oggi mi piacerebbe conoscerlo questo Collina”.

E i sapori della Città Eterna?
“Ricordo una cosa importantissima. Non mi vergogno di dirlo. Allora c’erano i fagottari. E anche la mia famiglia ogni tanto faceva la fagottara, quando andava fuori la sera.
Mia madre diceva “stasera andiamo a cena fuori”, però la cena te la portavi. D’estate specialmente dove c’era la pergola. Si prendeva il vino e casomai forse un primo, se volevi, sennò portavi tutto da casa”. La trattoria si chiamava La Rosetta.
“Era all’Appio Latino” ricordava l’attore “dove c’era un cartello: “Accettanzi cibbi propi” accettanzi con la zeta, cibbi con due b e propi senza una r. Ed era una grandissima festa. Mia madre faceva le cotolette panate, però col sugo, perché le doveva mettere dentro una pentola e se non c’era il sugo s’attaccavano. E allora venivano come una specie di pizzaiola, diciamo così, accatastate una sull’altra, e arrivava il momento di mangiare. A volte, quando eravamo particolarmente ricchi, ci compravamo la pizza e poi le cotolette panate, una per una, mi raccomando, diceva mamma. E c’erano anche famiglie di amici. Questo m’è mancato poi all’improvviso, la conoscenza di altre persone, la comunità, il senso della comunità”.

Ma a Roma i Proietti non avevano parenti.
“No, parenti a Roma io non ce l’ho. La mia famiglia viene dall’Umbria e dall’alto Lazio, siamo semiburini insomma. C’era mia sorella, ma ancora non era fidanzata, però c’erano altre famiglie con le quali si poteva andare a fare queste uscite, che sostituivano le gite fuori porta dell’Ottocento. Prima c’erano le osterie, poi, per darsi un tono, le hanno chiamate hostarie, con l’h davanti”.

E poi il teatro, l’incontro con le scene.
“Successe quando andavo all’università, ero un ragazzetto. Oggi ci sono tanti teatri, c’è la televisione, c’è una maggior promozione dell’attività teatrale, anche se il teatro è sempre in crisi, ma comunque… Allora era una cosa molto lontana, anche dalla scuola. Non è che uno uscisse dal liceo sapendo qualcosa di teatro. Ma io andando all’università mi iscrissi al Centro universitario teatrale che si ricostituiva allora dopo la guerra, e mi presero, non so nemmeno perché. Onestamente, non sapevo fare proprio niente. E questa fu l’occasione che mi avvicinò poi al teatro perché ero incuriosito e ho cominciato ad andare a vedere degli spettacoli”.

Ed ecco dove.
“La nostra era una scuola di teatro di tutti i ragazzi e quindi c’era un attimo di contestazione al sistema teatrale tradizionale, come sempre succede, difatti da quella scuola uscì addirittura Leo De Berardinis, Calenda, insomma noi giovani di allora. Il primo spettacolo che ricordo non era proprio il primo che ho visto, ma quello che mi colpì molto, uno spettacolo di Carmelo Bene, del quale poi sono diventato amico e con cui abbiamo fatto ditta insieme. E mi colpì tantissimo, anche se non è che riuscissi a fare una critica interpretativa, però aveva un fascino, lo sappiamo benissimo, già da allora. Faceva il Caligola di Camus, e poi ho cominciato ad andare, ho visto tanti spettacoli. Però per un due tre anni dopo la scuola io non partecipai più, perché dovevo laurearmi.
E intanto la notte cantavo. Ho cantato in tutti i night di Roma, meno che all'”84″. Al Pipistrello, al Capriccio, alle Grotte del Piccione dei fratelli Gabrielli. Quando io cantavo, lì stava finendo la Dolce Vita e anche il night stava per diventare discoteca, a dir la verità ancora non discoteca, ma piano bar e poi discoteca. Vennero fuori i gruppi, i Beatles e tutto cambiò”.

Ed ecco… come era quella Roma?
“Beh, una Roma abbastanza notturna, io l’ho odorata solo un po’ la Dolce Vita, quando via Veneto era ancora illuminata e c’era il passeggio. Ma stava nella fase terminale della sua gloriosa vita. E a parte via Veneto, Roma ne ha cinque-sei di Centri, c’è il centro umbertino, c’è quello imperiale…”.

E la Roma da vivere?
“Mah, per viverci, per esempio un quartiere popolare ma simpatico è stato sempre Prati. Lì c’erano degli appartamenti con i soffitti alti che mi piacciono molto. Poi è chiaro che se ci mettiamo a vedere quali sono le zone migliori, uno non finisce più. C’è l’Aventino, che è molto elegante, un po’ triste, però, insomma…
Poi quando sono andato via da casa mia, non cacciato ma andato via in armonia perfetta, sono tornato in Centro storico, Campo de’ Fiori, via dei Giubbonari, proprio davanti alla sezione di Regola Campitelli del Partito Comunista.
E cominciava l’avventura del teatro professionale. Ancora non ero convinto, perché facevo l’università, si fa per dire, perché gli esami non li davo mai, per ritardare il servizio militare”.

Ma a teatro arrivano i primi successi.
“A Roma ci sono due momenti fondamentali, il primo è quello del musical che ho fatto con Garinei e Giovannini, che mi proposero “Alleluja brava gente”. E di lì a non molto, dopo quattro anni, lo spettacolo che mi porto ancora dietro, che è “A me gli occhi please”.

E oltre al teatro c’è la buona tavola.
La Rosetta era una trattoria. “Accetto i cibbi propi” mi faceva proprio ridere. Da quando ho cominciato a fare il teatro, si frequentavano i ristoranti aperti nel dopo teatro. Non ce n’erano molti, per esempio da Dante, beh la notte si va da Dante. Io poi spesso vado all’Isola della pizza, ci tengono aperto. Io mangio proprio le cose che mi piacciono e poi siamo amici con i proprietari. Amo il convivio, non sono un grande mangione, mi piace stare insieme a cena, ci piace fare i pettegolezzi, bere il buon vino. Da giovane ero un mattiniero poi piano piano sono diventato giocoforza un nottambulo per il tipo di lavoro che faccio”.

Non mancano gli incontri romani con gli amici.
“Uno che ho frequentato era Gassman, uno dei miei più grandi amici, anche se era più grande di me. Con lui abbiamo assaggiato parecchie cose. Ho una fotografia a casa in cui io e Vittorio facciamo una specie di ghigno e dietro stranamente, in un ristorante, non ce ne eravamo accorti, c’era la fotografia di Giovanni XXIII. E sembra che siamo in tre, è incredibile, è bellissima”.

Non è finita. C’è la storia del ristorante.
“Anche io ho avuto il mio ristorante a piazza Fontanella Borghese. Mi era venuta perché volevo mettere su un posto per il dopo teatro, solo per il dopo teatro. La mia idea folle, da pazzi, era di fare questo ristorante per attori, registi, e lo volevo chiamare “Il leggio”, volevo mettere un grande leggio al centro e se qualcuno voleva recitare qualcosa magari gli davo il vino gratis, poi se faceva addirittura qualcosa di più, si guadagnava la cena. Non l’ho fatto più purtroppo, ma menomale perché mi sono accorto che in questo ristorante, che era fatto proprio con lo scopo di vedere i colleghi, gli attori nun so’ mai venuti. Sì, i miei amici venivano, ma insomma alla fine un giorno un collega sincero mi disse: “Ma sai, noi ci diciamo: che devo anda’ a porta’ i soldi proprio a Proietti?”. E allora capii che insomma…
Ma è andato avanti per parecchio tempo questo ristorante. Erano gli anni Ottanta. Anche se alla fine ho dovuto ammettere che ognuno deve fare il suo mestiere, che la ristorazione è un arte, difficilissima. Per fortuna lo abbiamo venduto bene. Molti colleghi hanno avuto ristoranti. Ci hanno provato in tanti, chissà perché. C’era Renzo Arbore che ha avuto un ristorante anche importante sopra piazza del Popolo. Tanti hanno tentato, perché andando a mangiare al ristorante uno vede l’effetto superficiale, non sa cosa c’è dietro. Coi cuochi che vanno via, che la sera dicono “me ne vado. Allora c’erano moltissimi egiziani, sono dei bravi cuochi. E a un certo punto magari trovavano qualcuno che li pagava di più e se ne andavano via all’improvviso. E te lasciavano così, co le scatolette”.

Ma c’è anche la Roma più amata, quella da non perdere:
“Non c’è che l’imbarazzo della scelta, come si fa? Poi vista dall’alto è una cosa, vista da sotto un’altra, un po’ come Venezia, dove un conto è andare in gondola tra i rii, vedi un’altra Venezia. E così è Roma.
Il piacere che avevo di girare una volta per Roma con un grande amico, che era Gigi Magni, era quello di passeggiare con una delle guide più preziose che la città potesse avere, addirittura sapeva tutto di ogni sampietrino, credo che conoscesse anche le date delle buche…E quindi io sono contento di stare qui e ho lavorato anche tanto per la città. Ho aperto addirittura tre teatri e una scuola di recitazione. Il Brancaccio, dove prima c’erano le ragnatele, il Brancaccino e il Globe Theatre Silvano Toti, che non esistevano.
“Il Globe ha assunto un’identità nostra anche se è una copia di quello inglese. Sarà per il legno, il legno in mezzo agli alberi, sarà per questa specie di clima un po’ favolistico e per il fatto che non c’è traffico, non c’è il problema del parcheggio. E’ come stare dentro un’oasi nella città e se uno vuole rilassarsi un momento può sedersi al bar un attimo e si sta tranquilli. E poi volendo si sente pure una poesia di Shakespeare. Non tutti gli spettacoli vengono capolavori, ma alcuni sono importanti. “Molto rumore per nulla” l’abbiamo recitata in italiano, in siciliano e in inglese. Il siciliano con la traduzione di Camilleri, che ha studiato la riscrittura con un siciliano antico”.

In ultimo un finale alla Proietti sulla più bella battuta romana.
“E’ una che capitò a me e che racconto sempre in scena.
Prima di fare l’attore strimpellavo con la chitarra e cantavo una canzone che diceva: “So’ stato carcerato / pe’ un capriccio, / perché portavo in berta un coltellaccio”. Però tra “carcerato” e “capriccio” c’era una piccola pausa. Una volta l’ho cantata in una Casa del Popolo, c’era un pubblico… insomma, un “ambientino”.
E quando ho detto: “So’ stato carcerato”, ho sentito una voce: “Poco”.

[da La Repubblica on line del 2 novembre 2020]

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