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Il padre, le stagioni furiose

segnalato da Giuseppe Cristo. A cura della Redazione

 

Giuseppe Cristo, con lo slancio di chi si è imbattuto nell’emozionante bellezza della scrittura, propone l’ultimo scritto pubblicato da Antonio De Luca.
Aderiamo con piacere alla sua richiesta anche se il racconto era stato da noi già segnalato, riprendendolo dal quotidiano on-line h24notizie, nella Rassegna Stampa di mercoledì 14 ottobre.
La riproposizione come articolo a sé ne consentirà la lettura anche a quanti non sono abituali frequentatori della Rassegna Stampa.

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Con questo titolo, omaggio allo scrittore statunitense Raymond Carver, scrivo una storia dai diari di bordo di mio padre Silverio De Luca. Capitano sui mari del mondo, prima su primitivi e romantici bastimenti, poi sui residuati bellici americani della seconda guerra mondiale, e infine sui mostri di ferro costruiti nei cantieri giapponesi di Osaka. Come Carver, mi piace scrivere storie brevi. Mi piace la sua letteratura.

Il poeta Charles Bukowski: perché scrivere lunghi romanzi quando in una poesia si possono dire le stesse cose.
Ecco allora identificarmi in un poeta o un cantore di storie mediterranee, come scrisse Predrag Matvejevic, e come oggi l’amico giornalista e saggista Gianluigi Nuzzi, in un articolo sulla Stampa di Torino mi definisce. Mio padre mi lasciò parte dei suoi diari quando smise di navigare. E seduto sulla sua poltrona tra i tanti ricordi materiali di una vita di viaggi, iniziò a raccontare che odiava il mare. Il mare gli aveva preso tutta la vita. A chi gli chiedeva come fosse possibile, rispondeva che lui sul mare ci aveva lavorato.

Il mare stanca, troppo mare ti consuma diceva, il mare è l’irrequietezza dell’uomo gli rispondevo, pensando a Conrad. Il mare è complice dell’uomo. Ad un certo punto della vita, l’anima chiede la pace, il silenzio. Il riposo e la preghiera. Mio padre ha trascorso tre quarti della sua vita intorno alla terra, il poco restante, con la moglie e noi figli.
Complessa la personalità di mio padre, come quella di chi sceglie di vivere sul mare. Aveva un bisogno invincibile e incontrollato della sua libertà, e degli sconfinati spazi sugli oceani. Solo lì sto bene era solito ripetere. Pregava il dio cristiano. Ma quello vero, il dio supremo, era solo il suo destino. Il dio cristiano gli serviva solo per pregare o bestemmiare. Il destino che lo sposava col mare è la metafora della sua innata libertà.

A casa non riusciva a stare più di qualche settimana. Una follia generatrice di vite diverse, che rispondono solo ad un istinto primordiale di camminare, di conoscere, di sfidare. La sua una continua sfida con la vita. Naufragi, pericoli tra le coste del mondo, tempeste nei mari del nord, pirati nei mari della Cina, guerre nel canale di Suez, alla deriva nel mar Nero. E anche trasportatore di armi nei paesi del Maghreb, Libia, l’Egitto di Nasser, il Marocco, l’Etiopia e la Somalia. Su questo argomento ritornerò in future storie con elementi approfonditi.

Un uomo dalla intelligenza istintiva, che mai sono riuscito a capire del tutto. Ad avere un sano rapporto, così come dovrebbe essere tra padre e figlio, semplicemente tra uomini. Ma è stato anche un uomo che anticipava i miei tempi, i miei naufragi. E poi stava lì pronto, ogni volta che la vita mi trascinava tra i marosi dell’esistere, dal suo ponte di comando, a lanciare un salvagente, o a rendermi la mano.
Quest’uomo, poteva benissimo far parte di una letteratura melvilliana. Lo vedevo bene a discutere violentemente con Achab. La sua vita la raccontava con le parole di Ismaele. O essere protagonista dei racconti di Josef Conrad. Ma soprattutto lo immaginavo a viaggiare con lo scrittore cileno Francisco Coloane nei mari del sud, a lottare con le forze della natura, farsi carico dei bisogni degli ultimi.

Bisognava avere una sana follia per vivere una vita sul mare, nei porti, con i popoli del mondo. A mio padre non gli ho mai sentito dire la parola razza, finché il destino non l’ha consumato. Anche la sua fine è stata lenta, come un navigare. Non amava la velocità, disprezzava tutto ciò che dava l’idea dell’essere subito e presto. Con gli anni quella vita libera che hai fatto ti chiede il conto. E in te inizia quel sentimento misto di odio e amore, che ti accompagna fino alla morte. E l’ultima nave diventano i tuoi cari, da cui prima fuggivi e ora ti aggrappi, come ad un legno per non naufragare.

Il peggiore dei naufragi è trovarsi in mezzo al mare di una solitudine non cercata, ma che ti piomba addosso. Quando la tua anima è stanca e il corpo perde la forza di agire contro ogni tempesta. La follia di quest’uomo, il suo senso di vivere la vita, è stata si affascinante ma anche fortemente degeneratrice per chi gli viveva accanto, anche se da lontano. Noi figli e la moglie. Il mare per mio padre era quel Dio a cui solo il Capitano risponde. Lui sulle navi si sentiva quel dio che a tutto pensa, che il destino di tutti è legato a lui. Ho sempre pensato che sta nel fato, che il mare sceglie i suoi figli, i suoi complici.

L’uomo e il mare sono complici del proprio essere, del proprio divenire. Questo racconto, è un ricordo leggendo alcune pagine dei suoi diari. Alcuni sono veri diari di bordo come questo che portò a conoscenza del pubblico. E che solo dopo la sua morte ho avuto il coraggio e la forza di iniziare a leggere e capire.

Con mio padre ho navigato da bambino. Fino all’età di circa 15 anni. Tutte le estati stavamo con lui. Da adulto lo andavo a trovare nei porti. E trascorrevo con lui lunghi periodi. A volte preparavo qualche esame universitario. Posso dire che la mia infanzia si sia svolta buona parte tra navi e porti del Mediterraneo. I primi ricordi che ho della vita sono le cabine delle navi. L’odore del ferro, del cucinato di bordo. E soprattutto l’odore del corpo di mio padre, del suo sudore. Quando con lui dormivo appiccicato negli stretti letti di bordo. E quando sul letto di morte lo abbracciai per l’ultima volta. Il suo viso portava il sudore della morte. Sudava come quando nel caldo delle estati sul mare Mediterraneo. Il sudore di mio padre me lo porto addosso, a volte sembra di sentirlo.

Il primo indirizzo che ricordo non è la strada dove abitavo, ma gli indirizzi che scrivevo alle lettere di mia madre e i nomi delle navi e dei porti. Questi porti divennero nel tempo i santuari del mio mondo immaginario. Il teatro della mia mente, che mi mise una maschera. Una maschera che durante gli attimi della vita si fa uomo vero e diventa un altro di me stesso. È l’altro che va scrivendo versi e storie per porti e città di mare. Solo per vivere, come spesso ripeto ad un amico che mi chiede perché scrivo. Solo per continuare ad esistere ad amare. Per avere qualcosa da dire, da fare.

Quei porti tutt’ora sono per me la strada da percorrere. La strada di Kerouac forse. Alle donne che ho amato associavo spesso il nome di una nave a cui inviavo le lettere a papà. Come ad una Dea omerica a cui si affida il proprio destino. Erano col tempo diventate Miti quelle navi a cui scrivevo dal mio piccolo villaggio di un’isola. Sono miti le donne che ho amato. In amore tutto è totalizzante.

Viaggiare con lui da piccolo, era un premio di una promozione a scuola. Come spesso accadeva, quando mio padre passava al largo di Ponza, noi, la famiglia, con una barchetta lo andavamo a incontrare. Sempre a qualche miglio dal Faro della Guardia. Di quella volta ho pochi ricordi, essendo l’età ancora molto giovane. Ma quando lessi per la prima volta quelle pagine del diario del Revenca molti ricordi riaffiorarono. E anche questa storia diventa parte della vita. Dell’essenza di esistere a cui bisogna dar conto.

Ricordo che fui spinto dalle braccia di mio zio lungo la biscaggina e altre braccia mi presero dall’alto, finché non mi trovai in coperta del Revenca, tra le braccia di papà. Così si chiamava la nave. Come accadde il tutto non ricordo. Forse era già stato tutto deciso che dovevo andare con lui. E a scuola? Comunque per 10 giorni circa per me era tutta una festa. Non era la prima volta che stavo a navigare con lui. Questa volta da solo, senza mia madre, mia sorella aveva appena due anni. La mamma era incinta di mio fratello.

Ricordo che partimmo mentre mia madre si allontanava e mio padre mi teneva stretto con la mano. Fu così che cambiò per la prima volta il mondo. Non più la strada per andare a scuola, o la spiaggia o la stanza dei giochi. Ma una grande nave che viaggiava sul mare per Alessandria d’Egitto, che neanche sapevo cosa fosse.

Ogni giorno un mondo diverso. Scoprii per la prima volta gli odori del ferro, delle grosse cime, della cucina di bordo, la lucentezza dei cavi d’acciaio. Ma soprattutto gli odori della cabina di mio padre, delle dure lenzuola sempre profumate di bucato, dell’acqua che usciva lenta dai rubinetti lucidi di ottone, la sua mano con cui mi lavava. Ho amato la mano di mio padre sempre. Disteso sul letto di morte gliel’ho baciata. Quella mano mi aveva protetto anche quando mi arrivava uno schiaffo inatteso.

La cabina di colore avorio era per la prima volta una nuova sala giochi per bambini cresciuti. Una capanna dove era bello fare tutto. Ricordo che mi piaceva stare sulla sua scrivania. Aveva una penna bellissima. La vedevo per la prima volta. Una Pelican verde e nera. Mi piaceva toccare tutti quegli oggetti.

Dei nostri corpi appiccicati, che si dormiva sul ponte di comando o nella cabina. Passavo le giornate sul ponte di comando, tra la sala del timone, e lo spazio retrostante dove gli ufficiali di bordo stazionano per il carteggio. Qui ci stava la sala radio, e due grossi divani di pelle verde scuro. E qui che di notte scoprii delle carte bianche con tutte linee a matita e tante curve e tanti numeri. Alla luce di una lampada, nel buio più assoluto, passavo il tempo a guardare queste carte. Fuori solo la luce delle stelle e la luna di quei giorni.

Un giorno mio padre mi spiegò cosa volessero dire quelle linee e quei numeri. I fari e la bussola, il sestante, e Roma radio. Il bollettino meteo e gli avvisi ai naviganti nel silenzio più assoluto della notte. La notte iniziai a non dormire, mi piaceva stare sul ponte di comando. Scoprii il binocolo, e stavo ore a guardare la luna e le stelle. A guardare il mare, notte e giorno senza mai vedere niente.

Un mattino per la prima volta vidi i delfini. Divenni la mascotte dell’equipaggio, ero considerato e superprotetto. Un ufficiale un giorno mi prese in braccio e mi disse, guarda lì, ci sta una balena. E quel giorno scoprii ciò che vedevo solo sui libri. Dal vivo un grande animale che nuotava. Non ricordo quali furono quelle emozioni né i pensieri. Ma in futuro quella balena diventò il leviatano simbolo di un destino volto alla libertà di vivere, di guardare e capire.

Ricordo che dopo un po’ vedemmo la Sicilia. Così mi disse mio padre. Le notti le trascorrevo a guardare quelle carte ingiallite piene di segni. Quadri di un sognato surrealismo si aggiravano nella mia mente inconsapevole. Scoprii l’odore di quelle carte nautiche e delle matite e soprattutto iniziai a guardare il mondo. Tutto il giorno non pensavo che a quelle carte. Vecchie carte inutilizzate mi diedero per giocare. Imitavo papà, a disegnare linee rette per un mondo immaginario, di cui non avevo un destino, ma solo un primitivismo per accedere ad un altrove vita.

E poi scoprii una nuova musica, che prima mai avevo sentito. Mio padre amava la musica lirica. Le notti di guardia erano di poche parole degli uomini, si sentiva la Callas e gli avvisi ai naviganti. Per la prima volta ascoltai la Maria Callas e il tenore Mario Del Monaco. Ricordo che non capivo niente di quei canti, ma dopo un po’ quella melodia iniziava a piacermi. In futuro sarei stato un amante della lirica, la Bohème divenne la colonna sonora prima del Revenca e poi del mio rifugio sulla scogliera di Ponza.

Dell’arrivo ad Alessandria ricordo solo che salì un uomo dalla stessa scala dove salii fuori Ponza, e prese lui a comandare la nave. Era notte, le luci della città, il suo faro fanno parte del mio vivere quotidiano. Sono rimaste le luci di tutte le mie città. Ero arrivato nella città di Alessandro Magno. Alcuni anni fa volli acquistare un’erma di Alessandro. Sta sul tavolo tra libri e cianfrusaglie e mi guarda e segue per la casa. Gli occhi di Alessandro incastonati da millenni nel marmo bianco guardando al cielo, come i miei occhi di bambino, a guardare le stelle la notte fuori al mare di Alessandria. E stanno ancora lì in eterna attesa, le stelle mie e del grande condottiero.

Di Alessandria non ricordo la città perché non potevo scendere, ma ricordo il trambusto sul porto, lo stivaggio, il parlare un’altra lingua. Le persone che salivano per parlare con papà. Ed io sempre dietro di lui, tra la cabina e il ponte di comando. Quando lui scendeva io ero seguito dal primo ufficiale. Un giorno ritornò con un cammello di peluche e un bracciale d’argento con pietre incastonate. Disse: questo lo porti a tua madre. Un altro giorno mi portò un sediolino a forma di cammello. Ricordo che dal porto arrivavano strani odori di cucinato e mille voci di una lingua che mai avevo sentito. Quelle voci pure stanno da sempre nel mio immaginario. Amo la lingua araba. Oggi penso che la poesia araba attuale sia la migliore che si possa avere.

Un altro uomo accompagnò la nave fuori dal porto e il Revenca, la nave, mio nuovo giocattolo, riprese a navigare. Ma il mare iniziò ad essere nero e tempestoso. Le onde erano grandi e soprattutto di notte facevano un grande rumore sulla fiancata del Revenca. Mio padre mi faceva masticare gallette secche. Mi diceva così non rimetti. Ma ricordo che un giorno vomitai di brutto. Il mare di un giorno all’alba si calmò. E i giorni li vivevo sulle mie carte. E le sere col profumo della pastina in brodo e poi di corsa col binocolo ad avvistare stelle, delfini e balene.

Ricordo che mi piaceva quando il Revenca incontrava a prua altre navi. Col binocolo dovevo scoprire il nome di questa nave. Un giorno scoprii per la prima volta la nebbia. Ricordo che tutti stavano sul ponte di comando. E una certa preoccupazione notavo tra papà e i suoi ufficiali. Ma la notte mentre dormivamo accadde qualcosa, che solo dopo circa mezzo secolo, avendo letto il diario di bordo, ho ricordato, ricordando ciò che stava per accadere ed era già accaduto. Sentii uno strano rumore, la nave si fermò quasi.

Non vidi papà nel letto e lo andai a cercare sul ponte. Mi portò nel divano della sala carteggio dicendomi: non muoverti di qua assolutamente, aspetta me, e non uscire fuori. Lo disse minaccioso, come mai l’avevo visto. Vedevo gente quasi disperata, tutti imprecavano. Sentivo parole nuove mai sentite. Un trambusto totale.

La sala radio era affollata e il marconista parlava gridando. Papà ogni tanto veniva da me. Non capivo niente di quello che succedeva. Ricordo che ogni intercalare mio padre mi diceva, non avere paura a papà, tra poco ci vengono a prendere. Continuavo a non capire niente, continuavo a stare sulle carte, continuavo a guardare le stelle. Una cosa avevo notato, la nave, il mio giocattolo preferito, non navigava più. Il Revenca si era fermato. E tutto intorno buio e nebbia. Il Revenca aveva toccato degli scogli sulle coste a nord della Jugoslavia. Cosciente di niente penso che mi addormentai.

 

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