di Francesco De Luca
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29 settembre, fine estate. Quest’anno poi i temporali con acquazzoni hanno dato il segnale inequivocabile: è autunno.
Mi avvicina un uomo: “So che lei scrive sul sito Ponza-racconta, io… avrei dei racconti… sono anni che rimugino… li pubblichi lei”.
Il tipo è anziano, più giovane di me, accento romano… l’ho visto qualche volta in piazzetta, anzi… adesso che l’ho davanti mi sembra che sia un frequentatore di Ponza. Mi porge una cartella, la prendo malvolentieri… “E chi firma questi racconti ?” – chiedo farfugliando.
Non mi sento adatto per fatti del genere, eppoi non lo conosco. “Su… io oggi parto e mi farebbe piacere fare questo regalo ai Ponzesi!”
Le parole mi lasciano perplesso… non sono io dunque in ballo ma i Ponzesi e… allora la cosa cambia aspetto. Sto per portare la cartella a me e l’uomo, quel tale insomma, mi saluta e va via, lasciandomi come un citrullo fuori al bar Tripoli. Mi sento un citrullo, e guardato dai presenti. Vorrei chiamarlo, andargli dietro ma mi sento osservato da tutti per cui abbasso la testa, giro e mi incammino verso il Monumento.
Il primo racconto è questo. Lo firmo io, ma spero che quel tale si faccia avanti.
Non lasciarmi
“Non lasciarmi, ché mi manca il respiro…” mi diceva abbracciandomi. Io la strinsi con dolcezza e trasporto, ed ebbi la sensazione di divenire una cosa sola con lei. Un solo corpo, una sola emozione. Complici, in quell’atto che concludeva un’ansia interna, una tensione totale, intima e tattile, spirituale e carnale.
Eravamo andati al mare, io e lei. Buttai l’ancora in quella che i Ponzesi chiamano ‘a Guardia ‘i fore, il tratto di mare fra il faraglione e punta Fieno.
Sono attratto dal fondale roccioso, specie quello dove le alghette calcaree ricoprono di bianco i massi, colorando il mare di un blu pallido. Mi tuffai e iniziai a perlustrare il fondale. Con la maschera e un coltello spuntato in mano in caso di bisogno. Mi divertivo ad osservare le patelle e i pesciolini intorno, e gli incastri degli scogli sul fondo. Nel girare lo sguardo vidi la sagoma di lei. Stava in apnea e armeggiava col coltello vicino ad una patella coriacea, non disposta a lasciare il suo scoglio. Col coltello infieriva sul guscio, le gambe bianche e il corpo in agitazione.
La giovinezza dava alla figura rotondità e agilità, armonia ai gesti. Mi avvicinai e mi scorse. Andai verso gli scogli della riva. Mi seguì. C’era un grosso masso di basalto nero che s’era appoggiato su altri due a mare. Caduti dalla falesia alta, a strapiombo, da chi sa quanti anni. Avevano formato un piccolo cunicolo. Lì, al riparo del grande sasso, mi tolsi la maschera e guardavo il tutto con occhi di meraviglia. Anch’ella si tolse la maschera e guardò me. Gli sguardi si incrociarono e mi si avvicinò. “Non lasciarmi mai, ché mi manca il respiro” – mi disse.
Ero io il suo spirito vitale, il respiro da cui traeva vita.
Non colsi la grandezza dell’espressione, allora, troppo presi dall’eccitazione di stare vicini, di esplorare i corpi, di abbracciarci, di amarci. Noi, fatti uno, il mare di cobalto, la falesia nera e incombente, la passione di godere insieme quel momento di unicità.
Lei, vent’anni di esuberanza, corpo asciutto, occhi selvatici, capelli neri. Generosa. Penso che questa sua innata qualità sia stato il movente primo che l’attrasse verso di me. Ero bisognoso di affetto. Lo davano ad intendere, seppure in modo velato, la mia timidezza, l’attenzione che ponevo nei gesti.
Troppo forti quei segnali per non essere intesi dalla sua espansa generosità.
Mi si donò senza reticenze, senza richieste, sicura, sicurissima che avrebbe respirato insieme a me per sempre, perché priva non avrebbe avuto vita. C’è amore senza dolore? Allora lo escludevamo ma… amore e dolore sono la vita.