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La notte delle patatine fritte

di Emilio Iodice

 

Un racconto in due puntate sulla dura vita dei ponzesi in America negli anni ’50, vista con gli occhi di un bambino.

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…Si resero conto che non c’è nulla di più grande dell’amore di una madre per i suoi figli

1. Il giorno che Emilio si perse a New York

Era il 1954. L’appartamento nel South Bronx appariva enorme ad Emilio. Aveva 7 anni ed era l’unico posto che conosceva, fatta eccezione per il negozio del padre a nord della città. La cucina assomigliava ad una sala da ballo. Le due camere da letto sembravano uscite da un film.

In realtà, la casa era piccola, brutta e scomoda, ma provvista di una lavatrice asciugatrice con una vasca circolare ed il coperchio e di un piccolo frigorifero con il motore in cima. Per lavare i panni con la lavatrice, Lucia, la madre di Emilio, doveva passarli attraverso una serie di rulli. La macchina tremava e bisognava tenerla ferma. Il lavaggio richiedeva molto tempo, ma era sempre meglio che lavare a mano, come Lucia era abituata a fare in Italia.

Il frigorifero aveva sempre uno spesso strato di ghiaccio per cui era necessario sbrinarlo in modo regolare. Era rumoroso e ogni volta che il motore entrava in azione, le luci tremolavano e di tanto in tanto si spegnevano. Ma era certamente meglio della ghiacciaia di legno.

L’appartamento era dotato di una tazza con la catena, ma non c’era né la vasca da bagno né la doccia. Il lavabo di ardesia, in cucina, veniva usato per lavare i piatti e gli indumenti e per farsi il bagno e aveva la forma di un parallelogramma capovolto. I membri della famiglia facevano il bagno a turno per proteggere la propria privacy. Il catino era piccolo, per cui gli adulti si sedevano sul bordo e si lavavano con la spugna. Per i ragazzi andava leggermente meglio perché avevano bisogno di meno spazio, ma il compito non era mai facile.

L’appartamento era freddo d’inverno e caldo in estate. I tubi di piombo dell’acqua e i termosifoni in ferro battuto emettevano dei sibili e spesso si udivano dei rumori forti come se dentro vi fossero dei folletti che stessero battendo con dei martelli.

A causa di quel suono inquietante ad Emilio sembrava che nell’edificio suonassero le campane della cattedrale ed era solito immaginare che Quasimodo, il gobbo di Notre Dame, si dondolasse da una corda nel seminterrato e suonasse le campane per svegliare la città dal suo torpore. Il rumore dei termosifoni si faceva sentire sempre al mattino presto prima dell’alba, quando il portiere alimentava la caldaia con il carbone per fornire acqua calda. L’aria filtrava nei tubi, scuotendoli mentre l’acqua bollente circolava nel palazzo.

A volte le stufe erano eccessivamente calde ed era necessario coprirle per evitare di bruciarsi. Un giorno, il fratello di Emilio, Ralph, che all’epoca aveva due anni, girava allegramente nudo per la cucina. All’improvviso, indietreggiò andando a finire con il sedere contro il termosifone. Il dolore gli penetrò per tutto il corpo e si mise a urlare, correndo come uno scoiattolo ferito per tutto l’appartamento. La bruciatura era profonda e grave e ci sarebbero volute settimane perché guarisse. Sul sedere del bambino rimase una cicatrice a perenne memoria di quell’appartamento e per fargli ricordare che era prudente stare lontano dalla cucina quando si riscaldava troppo.
I problemi nel caseggiato erano costanti e di varia natura.

Gli scarafaggi camminavano sui muri e vivevano sul tavolo di cucina. La madre di Emilio li odiava e li combatteva con tutte le sue forze. Non aveva mai visto insetti simili sull’isola di Ponza da dove veniva. Lucia puliva e strofinava la casa in modo meticoloso e regolare, tuttavia, quando si spegnevano le luci, gli scarafaggi uscivano numerosi, camminavano sugli elettrodomestici e lungo le pareti e sembravano danzare sul tavolo di cucina. Era terribile.

A seguito delle numerose lamentele al padrone di casa, arrivarono orde di disinfestatori per ripulire il posto, ma senza ottenere alcun risultato, se non quello di impregnare l’aria dell’odore dei prodotti chimici. Sembrava che gli insetti prosperassero con gli insetticidi. Nel caseggiato vi erano altri trenta appartamenti, simili l’uno all’altro e tutti presentavano gli stessi problemi. Nell’abitazione vi era spazio a malapena per una persona e noi eravamo in 4, ma era tutto ciò che Silverio e Lucia potevano permettersi e, come loro, le migliaia di altre persone che vivevano in quella parte del Bronx di Little Ponza. Avevano un tetto per il loro figlio Ralph di 14 anni e per suo fratello Emilio. La coppia vi abitava dal 1937, un anno dopo essersi sposati, quando Lucia era arrivata a New York. Il loro sogno era di trasferirsi in una casa tutta loro vicino al negozio, ma lo avrebbero realizzato solo nel 1955. Nel frattempo, la famiglia doveva lottare per sopravvivere.

Silverio era un bell’uomo di 41 anni con i capelli castano chiari, troppo ricci da gestire. Tutti lo chiamavano Silvio. Era di media statura, le spalle larghe ed un addome che tendeva ad allargarsi. Aveva braccia, schiena e gambe robuste ed il collo grosso, reso ancora più muscoloso dal suo lavoro di scaricatore al porto. Emanava un vigore ed un’energia senza limiti. La voce era mascolina e forte e il tono alto, tanto che ci si accorgeva subito quando Silvio era presente. Le guance erano rosee, il sorriso sempre pronto ed un temperamento vulcanico che passava da un’emozione all’altra, riuscendo ad essere affettuoso, gentile e compassionevole e un attimo dopo burbero e arrabbiato. Rappresentava il tipico prodotto di un’epoca difficile.

Silvio lavorava come scaricatore durante la notte fino all’alba e poi si apprestava ad aprire il negozio. Dormiva poche ore e poi si recava al mercato generale del Bronx per comprare casse di frutta, di verdura e altri generi alimentari. Andava al negozio in macchina, sistemava la merce sugli scaffali e ritornava al porto, al resto pensava Lucia. Silvio e sua moglie sgobbavano 7 giorni a settimana. Non si riposavano mai e non sapevano cosa significasse prendersi una vacanza. Tutto ciò di cui si preoccupavano era crescere i loro ragazzi in America.

Lucia era una persona calma e gentile, aveva un bel viso tondo, guance paffute, labbra a forma di cuore ed un naso piccolo, capelli castano chiari, occhi piccoli, teneri, color nocciola ed una pelle chiara e liscia. Lavorava sodo, tuttavia era sempre allegra e ottimista anche nei periodi peggiori.
In alcuni rari momenti di tranquillità, scriveva lettere ai suoi genitori e alla famiglia in Italia. Era l’ultima di 11 tra fratelli e sorelle. La calligrafia era perfetta e la sua dizione e la grammatica non tradivano il fatto che fosse andata a scuola solo per tre anni. Era molto intelligente, forte e, al contempo, dolce e saggia per la sua età. Lucia trascorreva le mattine e i pomeriggi al negozio e le sere a casa. Prendeva la metropolitana dalla 149° Strada East alla Terza Avenue fino al North Bronx e impiegava 35 minuti. Il tragitto le appariva particolarmente lungo e difficile in primavera e in estate perché soffriva di febbre da fieno ed era allergica al polline per cui a malapena riusciva a respirare. I suoi unici sollievi erano i continui vaccini e di tanto in tanto un giro sul traghetto Staten Island.

Il giro nel porto di New York le dava un aiuto enorme in quanto le polveri dannose della città non arrivavano fino al mare. I venti provenienti dall’oceano sembravano dolci a Lucia, simili alle brezze provocate dalle ali degli angeli e le consentivano di respirare. Nonostante questi forti disagi, continuava i lavori domestici, gestiva il negozio, aiutava il marito e si occupava dei figli. Il cognato viveva con loro e anche lui si chiamava Silverio. Era sposato con la sorella di Lucia, Margherita, un’insegnante che viveva a Ponza e che aveva fatto da maestra e mentore a Lucia e si era occupata dell’istruzione di tre generazioni di bambini sull’isola, alcuni dei quali divennero delle persone importanti. Molti di loro attribuirono il loro successo a quella persona appassionata e umile che aveva dedicato la sua vita a sviluppare la loro intelligenza.
Silvio portò suo cognato a lavorare al porto e Silverio si adattò bene al duro lavoro sui moli. Tuttavia, si vestiva sempre e si comportava come un perfetto gentiluomo. Era un uomo calmo e gentile che aiutava con le faccende domestiche e si prendeva cura dei ragazzi e loro gli volevano bene.

Lucia lavava e rammendava i vestiti e preparava da mangiare. Vivevano in uno spazio ristretto, scomodo e malsano. Altre famiglie nell’edificio erano anche più numerose, alcune avevano 6 o 7 figli e comprendevano anche i nonni, gli zii e i cugini. Le stanze erano piene di letti a castello e sparsi sul pavimento vi erano ovunque materassi. I bambini piccoli dormivano con i genitori. Per i ragazzi di Silvio e Lucia, il caseggiato era una comunità vivace piena di gente con cui avevano fatto amicizia.
Nell’edificio l’aria era sempre impregnata degli odori tipici della cucina italiana proveniente dalla casa di qualcuno. A giorni prestabiliti, almeno una dozzina di pentole piene di sugo di pomodoro bollivano sul fuoco. Il profumo dei pomodori penetrava attraverso i pavimenti e le stanze. Dai corridoi e dagli atri si udivano i bambini piangere o correre, ridendo e gridando, e le note delle canzoni napoletane che provenivano dalla radio o dai giradischi. A Natale e a Pasqua, i vicini si scambiavano torte e biscotti e si invitavano l’un l’altro ai matrimoni, ai battesimi, alle comunioni e alle cresime. Si facevano visita reciprocamente all’ospedale e all’occasione, organizzavano collette per pagare le spese mediche. Si confortavano alle veglie funebri e portavano le loro condoglianze ai funerali.

Ralph e Emilio crebbero in questo pezzetto di Italia nel South Bronx. Ralph era un ragazzo molto vivace, dotato di grande energia, esuberante ed estremamente portato per la meccanica. Era in grado di smontare, riparare e far funzionare tutto ciò che si muovesse. Era un bel ragazzo dagli occhi scuri a mandorla che brillavano e sembravano sorridere sempre. Era una persona che sapeva divertire, con un gran senso dell’umorismo e pronto alla risata. Le ragazze gli ronzavano attorno come api sul miele. Ralph era generoso, non lasciava mai solo un amico in difficoltà e così sarebbe rimasto per tutta la vita.

Emilio era un bel ragazzo, ma con un temperamento tranquillo e introverso. Ai suoi genitori piacevano i suoi capelli biondi lucidi e ricci per cui lasciarono che gli crescessero fino a formare morbide onde. Era intelligente e gli piaceva studiare. I suoi insegnanti gli volevano bene. Era un lettore avido, pieno di curiosità e amava osservare i dettagli. Parlava e pensava in modo chiaro e attento e questo sarebbe rimasto il tratto che lo avrebbe distinto per il resto della sua vita. Soltanto tre anni prima per alcune ore sembrò scomparso nel nulla.

Era il 17 marzo 1951.  Mancava meno di un mese al compimento del suo 4° compleanno. Lucia era intenta a spazzare il pavimento della cucina. Emilio stava giocando nella sua stanza. Silvio era al lavoro al negozio assieme a Ralph. Lucia andò al bagno, Emilio le disse che sarebbe sceso di sotto per vedere Iolanda, la moglie di Arturo, il portiere del palazzo. Accadeva spesso che la coppia e le loro tre belle figlie si prendessero cura del ragazzino. Essi lo adoravano perché era simpatico e allegro e parlava inglese e italiano con una pronuncia perfetta.
Lucia non udì il figlio uscire di casa. Il bambino scese le due rampe diretto alla casa del custode, ma non trovò nessuno. Si diresse verso l’entrata principale del palazzo e uscì per strada alla luce del sole e nell’aria frizzante di marzo. Era il giorno di San Patrizio.

Si avventurò per le strade buie della città, solo e senza guida. Emilio decise di recarsi al negozio del padre. Alle volte la madre prendeva l’autobus, quindi sapeva dove fosse la fermata. Si diresse da quella parte e miracolosamente, attraversò una strada di grande traffico, Morris Ave. e risalì per la 151 Strada, oltrepassando la chiesa di Nostra Signora della Pietà, dove fu battezzato. Attraversò una strada ed un’altra ancora. Alla fine il bambino giunse alla Terza Ave. Sopra di lui udiva il rombo della metropolitana che passava. Gironzolò fino ad arrivare alla fermata dell’autobus e attese. Faceva freddo e lui non aveva il cappotto. Il bus arrivò e si fermò. L’autista aprì le porte.

Emilio tentò con fatica di salire ma i gradini sembravano alti come montagne. L’autista gli chiese dove andasse e lui rispose, “Voglio andare al negozio di mio padre.” “Dove si trova il negozio di tuo padre?” domandò l’autista. Il bambino indicò la strada davanti a sé. L’autista capì che qualcosa non andava e, scorto un agente di polizia che camminava davanti all’autobus, gli fece cenno con la mano. Il poliziotto salì a bordo. “Credo che questo bambino si sia perso, agente,” gli disse. L’agente guardò Emilio che si era spaventato alla vista dell’uniforme blu scuro dai bottoni dorati luccicanti e su cui era appuntato un distintivo. L’uomo indossava un grande berretto e portava una pistola dall’impugnatura di legno, che al bambino sembrava grande come un cannone. Alla cintura erano appese le manette. Gli occhi gli si riempirono di lacrime.
“Come ti chiami,” chiese l’agente. Emilio gli rispose in italiano e il poliziotto non riuscì a capire. “Dove abiti?” domandò. Il bambino indicò la direzione da cui era venuto. L’agente prese Emilio per mano e scesero dall’autobus. Emilio vide le porte chiudersi e il mezzo ripartire. Si sentì perso e solo.

Nel frattempo Lucia, uscita dal bagno, stava cercando il figlio. A casa non c’era, chiese ai vicini, il portiere era assente. Chiamò i parenti, ma nessuno sapeva niente. Era angosciata e spaventata.
In quel periodo in America i bambini venivano rapiti per poi chiedere un riscatto. Il figlio dell’aviatore Charles Lindbergh venne strappato dalla culla a metà degli anni ’30 e ucciso. Quella terribile storia era ancora viva nella mente della gente. Crimini simili accadevano ancora. Temendo il peggio, si sentì disperata. Telefonò a Silvio che chiuse il negozio e corse a casa.

La notizia si diffuse rapidamente in tutta la comunità. Tutti cercavano Emilio. Chiamarono la polizia, le chiese e gli ospedali. La gente bussava a tutte le porte e andava di negozio in negozio chiedendo del bambino del South Bronx che era scomparso il giorno di San Patrizio. Altri bambini iniziarono a cercarlo per le strade ed i vicoli. Le ore passavano e il sole tramontò su Little Ponza. Il figlioletto di Lucia e Silverio era sparito.

Emilio teneva stretta la mano calda e morbida del poliziotto, un uomo alto dai capelli rosso fuoco e con le lentiggini, che a lui appariva come un gigante. L’agente portò il bambino in una gelateria per tentare di calmarlo e gli comprò un gelato sandwich, fatto da tre strati di gelati di gusti diversi tra due cialde. Era buonissimo e Emilio lo divorò. Gli offrirono una banana e mangiò anche quella. Il bambino si sentiva meglio, ma tremava di paura. L’agente lo condusse al posto di polizia del quartiere che un giorno sarebbe stato ribattezzato “Fort Apache”, quando in quel tranquillo quartiere di immigranti sarebbe esplosa la violenza e dove frequenti erano gli spargimenti di sangue.

A quel punto, la polizia iniziò a diffondere per radio la descrizione del bambino trovato mentre gironzolava per le strade del South Bronx. Un cugino di Lucia udì la notizia e li chiamò. Non riuscivano a crederci. Si precipitarono al distretto e quando entrarono, trovarono Emilio appollaiato su una grossa scrivania che pareva la scranna del giudice. Gli agenti e i funzionari erano tutti attorno a lui, affascinati dal modo corretto del ragazzino di parlare sia inglese che italiano. Gli fecero un mucchio di domande e rimasero impressionati dalla sua calma e dalla sua intelligenza.
A un tratto Emilio vide suo fratello entrare nella stazione di polizia. Ralph indossava un cappotto di lana a scacchi con lunghi bottoni marroni e un cappuccio. “Ralphie!” gridò, gettandosi fra le braccia del fratello. Il senso di disperazione e smarrimento era scomparso.

Da quel giorno, tutta la famiglia avrebbe ricordato il giorno di San Patrizio in modo speciale, quello cioè in cui avevano perso e ritrovato Emilio.

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[La notte delle patatine fritte (1) – Continua]

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