Ambiente e Natura

Il luogo del cuore (1). Un vecchio casale in Sabina

di Patrizia Maccotta

.

A volte le storie della casa che uno sceglie per la vita – come e perché si sceglie e i richiami che la casa a sua volta esercita sui potenziali futuri proprietari – dicono più di mille parole sul carattere di chi le abiterà. Altre volte le case non sono scelte, ma ereditate dalla propria famiglia che le ha abitate a lungo. Le loro storie possono essere non meno interessanti.
Inauguriamo questo nuovo filone con l’amica Patrizia Maccotta che ci racconta la storia del suo casale in Sabina. A seguire chi vuole potrà mandare la sua, di testimonianza, corredandola con qualche fotografia di sua scelta.
S. Russo

Il casale antico

Mi piacciono le contrade, quelle frazioni infinitesimali dei territori. È proprio in una contrada, la contrada san Michele, che si erge, sulle pendici dei Monti Lucretili, austero, il vecchio casale rustico di cui racconterò la storia.
Una storia sabina che si svolge non lontano da un vecchio borgo, Palombara.


Il paese sale come il disegno sul guscio di una chiocciola fino alla punta del suo castello per fronteggiare l’imponente barriera dei pre-Appennini laziali.

Da lontano, il casale potrebbe sembrare una casa colonica dell’epoca dell’imperatore Adriano che proprio in Sabina aveva fatto costruire la sua immensa villa d’ozio.
Ma scegliendo un paragone  più modesto e realistico, potrebbe sembrare la “domus” rurale scoperta nel 1986, mentre il proprietario di un terreno estirpava degli ulivi, a solo due chilometri di distanza. Il suo “dominus” era sicuramente una persona colta perché furono rinvenute anche due magnifiche statue: la statua di Eirene e quella di Plutos.

Rustico è il casale, costruito in pietra calcare, nel 1912, da Aurelio Bombelli, nonno di mio marito che si chiamava pure lui, come da tradizione, Aurelio Bombelli.


Aurelio Bombelli senior: in seconda fila, il secondo da sinistra

Sicuramente il primo Aurelio, nato il 28 agosto 1861, avrà sentito, da bambino, l’eco della battaglia di Mentana, cittadina non lontana da Palombara, quando il 3 novembre 1867 le truppe pontificie ed i Francesi con i loro “Chassepots” (*) si scontrarono con i volontari di Garibaldi mentre si ritiravano a Tivoli dopo il fallimento della presa di Roma.

Aurelio era un uomo intraprendente: fondò la prima banca del suo paese e, nell’anno della costruzione del suo casale iniziò, sullo stesso terreno, la costruzione di una fornace che produsse per molti anni “calce in zolle” (**). Il primo forno, attivato alla fine del 1914, attraversò impavido la prima guerra mondiale. Il secondo forno fu creato nel 1923. Le due fornaci, tra il 1925 e il 1930, dettero un forte impulso economico a Palombara, impiegando ben 32 operai tra uomini e donne. L’estrazione del “sasso da calce” ha lasciato in ricordo una grande cava.

Ma voglio immaginare che Aurelio, borghese del suo tempo, avrà provato il desiderio di recarsi in contrada san Michele, più che per sorvegliare le fornaci, per godere della campagna in primavera ed in estate in “villa”, come facevano i possidenti. Diede pertanto vita al suo sogno, costruendo il casale, provocando così l’infelicità di sua moglie, Genoveffa, che detestava lasciare la sua casa di via Montecavallo, ai piedi del castello. Questa donna alta, dallo sguardo severo e dal petto prosperoso, scendeva dal piccolo calesse che la portava, insieme ai suoi tre figli, la domenica in campagna, pronunciando questa frase: “Ma quando ritorniamo a casa?”. Si sedeva in seguito sotto il pergolato, davanti all’esotico boschetto di bambù che esiste ancora oggi, e non si muoveva più fino a sera.

Alla prima porzione del casale, alta e stretta con una grande soffitta, si aggiunse , appoggiata al muro che conteneva la scala, una seconda porzione, tirata su, anch’essa, dritta dritta, con un magnifico terrazzo. Appoggiati alla ringhiera, si può osservare il Soratte arrossire la sera e Cassiopea con il Grande Carro illuminare il cielo notturno d’estate.

Non c’era l’acqua negli ambienti: si andava a prenderla in una grande vasca che da sempre ho sentito chiamare “Il Fontanone”. Le stanze, molto grandi, si seguivano in fila indiana e, nella parte aggiunta, la struttura dei solai è costituita dai binari Decoville sui quali rotolavano i carrelli che portavano le pietre alle fornaci. Oggi ancora, quando si cammina sul cotto ingrigito, il pavimento trema e balla.
La grande vasca ospita ora dei pesci rossi che nuotano nel riflesso dei rami di due grandi querce.


La grande vasca detta “il fontanone” sotto le due grandi querce

Non c’era neppure l’elettricità. Un grande camino riscaldava ed illuminava la cucina d’inverno. Aurelio, mio marito, non si stancava di raccontarmi il fascino degli ambienti alla luce delle candele e l’incanto dei due mesi passati, dopo il mare, con i fratelli in quel che lui definiva “il mio paradiso”, tra il profumo della mentuccia, la pienezza dei pomodori nell’orto e le foglie cangianti degli innumerevoli ulivi sistemati in filari ordinati nel terreno.
Non usciva dal suo recinto se non per andare a messa, la domenica, eppure non conosceva la noia. Nella soffitta che si apriva, un tempo, sul terrazzo, sono stati a lungo conservati, in un baule di legno come in ogni storia che si rispetta – per essere recentemente rubati da persone interessate a vendere cimeli di guerra -, due elmi tedeschi.
Infatti nel 1944, un comando dell’esercito tedesco in ritirata occupò gli stanzoni del casale dove lasciò, oltre a due dei suoi copricapi, un numero incredibile di libretti di preghiere in lingua.

La copertina del libretto di preghiere di un soldato tedesco, rinvenuto nel casale dopo la guerra

Qualcuno mi dovrebbe spiegare come si possano conciliare le preghiere con le atrocità commesse in guerra e la fucilazione, durante il suo forzato soggiorno, di un partigiano scoperto e catturato nella macchia dei Monti Lucretili.

A soli pochi metri dal casale grande, si adagia molto più piccola una casa rustica che mio marito fece restaurare in pietra viva scegliendola come sua personale dimora. Era l’alloggio di un pastore ed aveva ospitato, dopo la seconda guerra mondiale, una mucca! Ci furono fatiche più pesanti di quelle di Ercole per riportare la stalla ad uno stato decente prima del restauro!

Il rustico di costruzione più recente, in due diverse angolazioni

Prima di morire, nel mese di luglio 2001, Aurelio mi ha affidato il luogo del suo cuore. Ho promesso di occuparmi del suo paradiso e ora sono io che curo le piante vecchie e nuove che lo rallegrano: lo Styrax, simbolo del Parco Regionale dei Lucretili instituito nel 1989, il terebinto, i gelsi, i fichi, i melograni, il cotogno ed innumerevoli siepi di rosmarino, salvia, lavanda e mirto che sono la gioia delle api e delle farfalle.



Terebinto (bacche). Insieme a Pistacia vera (il pistacchio commestibile) e Pistacia lentiscus (il lentisco nostrano), Pistacia terebinthus è il terzo membro dell’esiguo Genere (Famiglia anacardiaceae)

Ho curato con Silvio, il compagno dei miei ultimi anni, un piccolo cinghiale ferito dandogli da mangiare bucce di meloni ed angurie deposte, ogni sera, sotto lo stesso albero. Ospito due gheppi che nidificano sempre sul davanzale della stessa finestrella ed ascolto, di notte, il verso dell’assiolo chiamato nel dialetto sabino “Chiù”. A novembre raccolgo, insieme ai miei figli ed ai miei nipoti, le olive: l’assaggio dell’olio nuovo è sempre un momento di grande festa!

Tra nascite e morti, il grande casale, depositario di tanti ricordi, assiste sempre, impassibile, allo scorrere del tempo.

 

Note

(*) – L’esercito francese che sbarrò la strada alla spedizione garibaldina per annettere Roma all’Italia e la sconfisse nella battaglia di Mentana era equipaggiato con quest’arma. I francesi ebbero facilmente ragione dei garibaldini, equipaggiati con obsolete armi ad avancarica: il comandante francese Pierre Louis Charles de Failly, al termine dello scontro, commentò: «I nostri Chassepot hanno fatto meraviglie». Il tentativo di Garibaldi non ebbe successo. Roma fu “presa” solo nel 1870 con la “Breccia di Porta Pia”, di cui a giorni ricorrerà il 150° anniversario

(**) – La storia della calce è affascinante; dalla pietra di calce, alla “calce viva” fino alla “calce spenta”. Cfr. Wikipedia – Calce

 

[Le case, le residenze di famiglia, i casali (1) – Continua]

3 Comments

3 Comments

  1. Sandro Russo

    16 Settembre 2020 at 07:21

    Nei miei ricordi più profondi della mia infanzia a Cassino – un mondo a parte rispetto all’infanzia a Ponza, che pure ho avuto – c’è la calce.

    Dopo la guerra che aveva raso al suolo la città vecchia, arroccata, nella piana sottostante si costruiva la città nuova, secondo un piano urbanistico che un giovane architetto americano definì “a merda di vacca”. Era venuto apposta a Cassino per studiare come “non” si deve ricostruire da zero una città. Mi era stato affidato da un’amica inglese – a quei tempi già vivevo a Roma – con il compito preciso di fargli vedere la città. Ne fu entusiasta; prese una quantità di foto per il suo saggio.

    Per tornare alla calce e ai miei ricordi, prima di costruire una casa, si scavava, poco distante dalla costruzione, una fossa quadrata (3 m x 3 o 4 x 4) a seconda delle dimensioni della futura casa, profonda circa 1 metro e mezzo.
    A noi bambini era fatto divieto assoluto di avvicinarci a quella buca. Ci cominciavano a terrorizzare ancora prima che fosse riempita.
    Quando veniva il gran giorno, un camion scaricava delle pietre bianco-giallastre nella fossa. Si livellava in tutto, quindi con una canaletta superficiale vi si convogliava dentro dell’acqua. Allora le pietre cominciavano a friggere, sfrigolare; dalla fossa si levavano cenere e lapilli; nella mia idea infantile era come se si fosse formato una specie di vulcano. Dopo la prima reazione quasi esplosiva, la superficie fumava e bolliva per qualche giorno, fino a che si chetava. Il luogo era comunque tabù perché caderci dentro sarebbe stato come affondare nelle sabbie mobili, ma non c’era più un pericolo immediato. Da piccolo mi facevano vedere anche delle persone che avevano avuto degli schizzi di calce negli occhi, con il risultato di una cornea che diventava irreversibilmente bianca, per gli effetti dell’ustione.

    Questa, vista da un bambino, era la calce.
    Le pietre scaricate provenivano dalle fornaci (dette appunto calcare) dove il materiale di partenza – pietre di carbonato di calcio, o marmo di seconda scelta, ma anche i marmi che nell’antichità rivestivano il Colosseo furono fatti a pezzi per farne calce – erano state “calcinate” ad alta temperatura (900-1100 °C).
    Si formava così l’ossido di calcio (le pietre di “calce viva” scaricate nella fossa dal camion che ricordavo io).
    La reazione, fortemente esotermica, dell’ossido di calcio con l’acqua, produce la “calce spenta” o idrossido di calce che aggiunta ad altre componenti costituisce la malta legante per le costruzioni.

    Poi queste cose le ho approfondite in seguito, ma il racconto di Patrizia Maccotta, dell’attività del signor Bombelli senior, mi ha suscitato vivissimo il ricordo.

  2. Silverio Guarino

    16 Settembre 2020 at 22:54

    Tempismo.

    Ho appena finito di leggere “Il sistema periodico” di Primo Levi, dedicato da questo grande scrittore (che prima di tutto era un chimico) a chi la ama la chimica, soffermandosi su 21 elementi, per ognuno dei quali si esalta l’animo dello scrittore e del chimico.

    L’ultimo in ordine di descrizione è il Carbonio, che si libera proprio per combustione del Carbonato di Calcio (CaCO3) di cui è ricca la crosta terrestre, con formazione di Ossido di Calcio (CaO) e poi Idrossido di Calcio Ca(OH)2, così come riportato dal commento di Sandro.

    Sandro che sicuramente non si è perso le conoscenze della chimica studiata per sport all’università solo per rimanere alla “Casa dello Studente”, conoscenza che (a suo dire) si eliminava con una grande pipì, subito dopo aver superato l’esame.

    Così come non è capitato a me, che continuo ad amare la chimica che è rimasta nel mio cuore e nella mia mente e che nessuna diuresi o trattamento dialitico riuscirà a farmi perdere.

  3. Lorenza Del Tosto

    21 Settembre 2020 at 08:59

    Bellissima idea fare una rubrica sulle case. Penso che sia molto nelle tue corde, Sandro. Riceverai moltissimi articoli ed è un bel modo per conoscere tante storie italiane… luoghi, tradizioni familiari, spirito di iniziativa che hanno segnato un territorio.
    Sembra tutto molto lontano nel tempo, ma sicuramente anche oggi si fanno progetti e si gettano fondamenta, nonostante la stasi del Covid che sembra esserci caduta addosso.

È necessario effettuare il Login per commentare: Login

Leave a Reply

To Top