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L’alga e l’erba corallina

di Pasquale Scarpati

 

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“Na’ bella levantata o nu’ punent’ frisch. Quale dei due preferisci?” –  Chiese Ciccillo che abitava alle Forna a Gigino che abitava al Porto.

I due si conoscevano fin da bambini quando Ciccillo, con la madre, veniva al Porto passando pe’ Petrun’, ‘nfaccia i Cuont e p’ n’copp’ u’ ruttone dopo aver comprato nu’palatone i pan’ frisch da Bunaria a panetter’, appena sfornato dalla grande bocca del forno a legna. Quel pane era fresco come il giorno sereno che, in quel momento, si levava laggiù verso le montagne della Terraferma. Albeggiava sul mare piatto, pallido a chiazze come un viso incipriato, liscio come l’olio che sembrava quasi di voler vedere da un momento all’altro guizzare branchi di alici sulla sua superficie. I gabbiani, alti nel cielo, già volteggiavano in cerca di prede e/o di correnti ascensionali. Qualcuno si tuffava. Il Mergellina, dal fumaiolo colorato, scioglieva gli ormeggi là sotto il lanternino e levava le ancore o per meglio dire partiva di corsa perché il comandante Scarpati aveva ordinato, per guadagnare tempo, di tirarle già fin sotto la prua, diritta, come lama di coltello, pronta per fendere l’acqua.

Quel pane sapeva, inoltre, di terra e di mare: profumava di farina ed era stato cotto con la legna rinvenuta lungo le spiagge. Così si può tranquillamente affermare che in quel “palatone” si fondevano tutti gli elementi del Creato: il Cielo, la Terra ed il Mare “Ed inoltre – come affermava Veruccio – l’acqua ed il fuoco: i due elementi primordiali ed essenziali. E, perché no, anche il sale altro elemento importante, altrimenti sarebbe risultato “ ‘nsipit’” comm’ a’ cap’i’……”.

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Era u’ pan nir: quello più economico. Costava di meno perché fatto con la farina più grezza (quello che oggi è più costosa!): era il nutrimento della maggior parte delle persone che non si potevano permettere u’ pan bianc.

Il bambino staccava con le mani un bel pezzo di  culurcio  dalla mollica ancora calda e addentava con voluttà. All’inizio ingoiava quasi senza masticare, poi, a mano a mano che i morsi della fame si mitigavano, assaporava più a lungo la croccante crosta e la morbida mollica, conservando per ultimo la parte finale del culurcio. Era buono anche senza alcun companatico!

Non poteva non inzaccherarsi di farina, perché bastava entrare nei locali del forno per essere avvolti da una nuvola bianca. Qua i sacchi accatastati o aperti, là la legna, dall’altra parte la madia ed i cassetti dove venivano riposti i vari pezzi di pane che dovevano crescere in mezzo alla farina cosparsa. Quando usciva, una breve spolverata e via di nuovo in cammino verso il Porto.

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Bonaria, donna robusta ma attiva, gli regalava, avvolte in un foglio di carta per il pane (non esistevano  buste), anche due o più freselle anch’esse integrali che il bambino istintivamente conservava. Le sgranocchiava al ritorno quando le salite si facevano sentire. Gli piaceva il “crac, crac” che gli rimbombava nelle orecchie, mentre la madre pensosa lo seguiva. Forse faceva e rifaceva il conto della merce comprata che il furgone di Ciccillo della Cantina degli amici avrebbe portato fin ‘ncoppa u’ camp, nella curva quasi all’inizio della discesa, dove qualcuno di casa sarebbe andato a prelevarla, abbandonata sulla strada, e, per l’antico sentiero, l’avrebbe, in spalla, portata a casa, giù verso Cala Feola . Pensava, forse, se avesse “scarsiate”: se fare quel lungo cammino ne era valsa la pena. Perché , a volte, per risparmiare e quindi mettere da parte qualcosa bisogna pur fare dei sacrifici.  A volte, anche per riposarsi un po’ sotto la canicola incipiente, si fermava per scambiare due chiacchiere con qualche persona che probabilmente già conosceva. Lui tirava avanti, immerso nei suoi pensieri e in quel rumore che gli faceva compagnia. Strappava la sommità delle canne che trovava lungo il percorso e vi soffiava dentro emettendo un suono stridulo ed acuto: uno… zufoletto molto artigianale. Impauriva lucertole che si crogiolavano al sole sulle pietre roventi, osservava l’andirivieni delle formiche che instancabili lavoravano; cercando, inoltre, di scoprire dove fosse il loro nido e, per vedere la loro reazione, infilava in esso un rametto di legno: gli piaceva provocare il panico fra loro e così farle “sconfinare” dalla loro frenetica ma sostanzialmente  monotona vita: dove tutti, meccanicamente, non fanno altro che le medesime cose.

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“Rassomiglia un po’ a quella dell’uomo moderno” – pensò ironicamente Veruccio. Ogni tanto lanciava una pietra contro un albero da cui proveniva il frinire assordante di qualche cicala in modo che quella, spaventata, zittisse. Ma nei “Petruni” aspettava che la madre lo raggiungesse perché si diceva che quella strada, sterrata e polverosa, era frequentata da numerosi serpenti.

Gigino, invece, si recava alle Forna insieme alla mamma per il pellegrinaggio notturno per la festa dell’Assunta, passando, per lo più, per le stesse vie. L’unica variante, infatti, era costituita dall’attraversamento del “ruttone di S. Maria”. Si preferiva la Via Vecchia dei Conti alla via Nuova anche perché don Aniello, facendosi sulla porta di casa,  si affacciava per benedire quei pellegrini. Lui aveva fatto quel pellegrinaggio tantissime volte, ora non riusciva neppure a trascinare le gambe. Si appoggiava ad un bastone e camminava a stento, tant’è che, una volta, un bambino avvicinatosi per baciargli la mano, lo aveva fatto cadere, solo sfiorandolo.

Gigino, invece del pane, veniva saziato da canti e litanie. La mamma, però, gli aveva preparato una bella e saporita frittata di pasta da mangiare dopo la Messa. Solo al pensiero gli veniva l’acquolina in bocca. Lui si avviava lo stesso contento perché gli piaceva il buio ed il fresco della notte estiva: avvertiva nuove, misteriose, sensazioni.  Spesso alzava gli occhi per ammirare il firmamento. Da solo aveva imparato a distinguere alcune stelle; altre le erano state indicate da Silverio il pescatore che di notte usciva con il suo uzz a remi. Gli sembrava di essere libero pur stando insieme a molte altre persone. Quando giungeva a Trebbiente era pervaso da una certa ansia, mista a curiosità perché aveva sentito dire che in quel luogo amavano sostare spiriti e munacielli dispettosi che non facevano altro che intimorire i malcapitati che per caso vi transitavano ma sempre rigorosamente di notte.

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Si erano conosciuti sul sagrato della chiesa e lì, invece di ascoltare l’omelia di don Gennaro, si erano messi a giocare rincorrendosi, perché , si sa, tra le Forna ed il Porto c’è stata sempre voglia di rincorrersi. La loro amicizia era rimasta nel tempo anzi si era consolidata anche dopo i rispettivi matrimoni. Pure avendo sposato ragazze della frazione “opposta” erano rimasti là dove avevano visto la luce, forse ubbidendo al comandamento dettato dal sacerdote sull’altare: “…la moglie segue il marito….” . Anche se in realtà, spesso, come in una sorta di trasgressione, di norma, accade il contrario, perché, quando può, all’uomo piace “trasgredire”. Le avevano conosciute in uno di quei “festini” fatti in casa. Tra una mazurka ed una polka, uno ma meglio due panini con il salame perché alimenti occasionali e perciò prelibati, tra una tarantella ed una quadriglia, nu’ turallucio ‘nzogna e pepe , nu’ bicchiere i’ vino ed i confetti dati con il cucchiaio (rigorosamente 5 o 7: sempre in numero dispari).  Si erano guardati negli occhi in una rumba e si erano tenuti stretti stretti, ma non troppo, in un “ focoso” tango. Avevano “folleggiato e volteggiato” in un turbinoso valzer per cui alle ragazze era venuto mal di mare perché le spalle ondeggiavano come una barca in pieno scirocco. Ma era stato un “bel” mal di mare che, come tutti i mal di mare, passa subito non appena si mette piede a terra. Così, alla fine della serata i due amici ebbero a dire, contenti, che si erano saziati nel corpo e nell’anima o come disse Gigino, ridendo, “Non era andato a finire tutto a “tarallucci e vino” così come spesso accade in altre occasioni o faccende”.  Fatto sta che, dopo un po’ di tempo di situazioni “nascoste”, furono fatte le dovute presentazioni “ufficiali” a tutto il parentado: nonni, zii, cugini, prozii, compari e comari ed altri. Andavano in chiesa a braccetto, coram populo, ed ognuno era felice perché sentiva, in cuor suo, di essere entrato a far parte dell’altra comunità. “ Altri tempi!”- pensava Veruccio.

Ogni ricorrenza era buona per potersi incontrare: compleanni, onomastici, battesimi, feste ed anche lutti. Condividevano ansie e preoccupazioni, gioie e dolori perché spartire e darsi una mano fa parte della vita. Così, tra l’altro, avevano anche “il privilegio” di festeggiare a pieno due… S. Silverio. Anzi, per rinsaldare ancora di più la loro amicizia, si legarono con quello che una volta era un legame molto stretto e molto sentito, quasi come quello tra genitori e figli se non di più: il comparatico. Infatti se moriva il genitore, il compare si assumeva l’obbligo morale di provvedere al proprio figlioccio. Questo, a sua volta, non doveva tralasciare nessuna occasione per portare rispetto al padrino e/o alla madrina. Neppure l’avvento dei “marchingegni moderni” aveva interrotto queste loro “usanze ” considerate oramai “arcaiche e antiquate”. L’unica novità era una piccola auto “Perché – diceva Ciccillo – le gambe cominciano a fare “giacomo, giacomo”: tremano”. In realtà sembrava un poco infastidito di dover stare continuamente sul ciglio della strada e di dover tendere l’occhio e l’orecchio ai continui frastuoni di motori provenienti dalle spalle o da dietro una curva.

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Nel loro diario di bordo avevano annotato i cambiamenti avvenuti durante la loro vita che, d’altronde, non era neppure molto avanti negli anni. Dal lume a petrolio alla corrente elettrica; dalle correnti marine che correvano lungo u promontorio i’ Pataccone, fino all’ avvento della due banchine Nuove; dalla costruzione della Panoramica alla “sistemazione” o, per meglio dire, cementificazione dei sentieri una volta stretti e scivolosi o al loro abbandono come quelli che scendevano da ‘ncoppa u’Camp’  a basc u’ Camp’, fino a Restituta o a Tore Romano; dall’uso della miniera alla sua chiusura; dalla sistemazione dei terrazzamenti al loro abbandono; dall’uso di tutta la costa , alla sua quasi totale interdizione. Dal pianto per una caramella negata, al benessere che barche e pontili assicuravano; dal silenzio operoso a quello inattivo che scende come una cappa di piombo per buona parte dell’anno; dalla calma e dalla quiete, alla confusione e alla calca sfrenata che corre come mandria di bisonti infuriati o spaventati.  “Che ce vuo’ fa!?” ripetevano tra lo sconforto e la rassegnazione. “Adda’ passa a ‘nuttat! Nun’po’ i’ sempe’ accussì!” “Forse- diceva Ciccillo all’amico – tu potesti anche vederlo, io non so come mi sento…”E” pecché – gli rispondeva Gigino _ nun po’ ess’ che me ne vac’ primm i’?” Sorridevano ogni qual volta imboccavano questo discorso pensando, per l’appunto, che comunque adda’ passa a nuttata e che la loro era stata una vita veramente pregnante.

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“Nessuno dei due” – rispose Gigino, perché solo al pensiero del mare molto agitato già gli veniva mal di stomaco e quasi quasi rimetteva. Non era infatti un lupo di mare anzi….”Però -, continuò – Dovendo scegliere, preferisco il ponente perché, a Frontone, arriva solo ‘a refola . Scende da Trebbiente  e svelta svelta scivola sul mare , lo rende scuro e lo increspa. Ma in modo diseguale: prima piccole increspature, poi a mano a mano che si procede verso il largo queste diventano sempre più alte. Se con la barca fai rotta verso la Ravia è anche piacevole perché la sospinge. Non fai nessuna fatica e ‘a varca può andare anche senza né remo né motore. Devi soltanto stare attento per non farla andare a sbattere sulle rocce o contro ‘u cascavall’ ‘i Fronton. Devi, soltanto, mantener bene la rotta con un vero timone e, nel caso che non lo hai, ti devi adattare anche con un remo.

Se però dalla Ravia ti dirigi verso la spiaggia di Frontone, allora sono dolori: se vai a remi, devi faticare; se vai a motore ti fai una zuppa d’acqua, se ti stanchi o il motore va in panne, il vento immediatamente ti porta al largo. In tal caso puoi anche usare razzi e suonare fischietti (se li hai) ma devi, comunque,  confidare in qualcuno che si trovi nelle vicinanze. Costui, se è “un’anima pia”, viene a salvarti, altrimenti può far finta di non vedere e non sentire (a volte lo fa per non avere “impicci” perché non si sa mai) oppure non vede e non sente realmente. Comunque, poi, quantomeno avresti il dovere morale di ringraziarlo”.

“Eh già – ribatté Ciccillo – oggi ci sono anche i telefonini”

“Ma non c’è campo o la batteria è scarica…. “- replicò Gigino.

Proseguì con foga : “Ma, invece di pensare e confidare sempre nell’aiuto degli altri, non è meglio pensare, una volta tanto, a risolvere il problema da soli? Una volta, quando tu non avevi ancora la corrente elettrica e da noi veniva erogata a… singhiozzi, quattro bambini di appena otto anni, si trovarono, da soli, su una barca all’altezza du’ Scoglio Russ’. Visto che i loro sforzi fisici di rientrare nel porto venivano vanificati da un fresco maestrale, sceso svelto svelto dispettoso dai Guarini, risolvettero il problema con il loro ingegno. E chissà quante persone si trovarono nella medesima situazione!”  – Tacque.

“Io – rispose Ciccillo – chiaramente preferisco il levante perché sbatte con violenza da voi  e non vi fa uscire dal porto ma, volando verso di noi, fa succedere la stessa cosa. Come dire la stessa medaglia ed uguale problema. O, come diceva Peppe, il pescatore, “Siamo tutti sulla stessa barca”.

Ma sia l’uno che l’altro vento fanno depositare sulla marina quell’alga scura che si appiccica ai piedi nudi. Essa vive nel mare, placidamente ondeggia e fa da nascondiglio a piccoli esseri viventi che altrimenti sarebbero facile cibo dei predatori. Però, quando accadono le tempeste anche lei viene strappata dal suo sito e trasportata altrove nel vasto mare. Alla fine si accalca sulle spiagge e le rende brutte”

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“No – rispose Gigino – Esse possono essere anche belle così come sono, perché autenticamente naturali”.  Proseguì: “Forse è meglio quando l’uomo ci pone mano? E’ vero che sembra tutto più pulito, asettico, ma per renderlo tale, a volte, usa mezzi impropri che, spesso, schiaffeggiano la natura”.

“Non so – rispose l’amico – A volte, infatti, mi chiedo se era meglio usare l’erba corallina, brutta e puzzolente ma naturale oppure è meglio oggi che si usano mille prodotti “sintetici” inodori ed insapori”. “D’altra parte – subito aggiunse –  lo stomaco “ moderno” non sopporterebbe antichi flagelli, perché si è adattato agli spaghetti imbustati e al tonno in scatola”. Poi, pensoso: ”Però i callosi spaghetti di mare erano saporiti” –  e  quasi a fil di voce – “Ma bisognava riconoscerli e soprattutto, ancora una volta, bisognava andarli a trovare…” “Incorreggibili vegliardi incalliti! – Pensò sorridendo Veruccio che, come spesso gli accade, si trovava  per caso a passare di lì.

Buon Ferragosto, Pasquale