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Uno splendido novantenne

segnalato dalla Redazione

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Sami Modiano, nato a Rodi il 18 luglio del 1930, è uno degli ultimi testimoni della Shoah. Deportato ad Auschwitz nel luglio del 1944, è sopravvissuto.
Molto incisiva la sua presenza in molte attività, soprattutto nelle scuole, come testimone di un’epoca, in parallelo con quella di
Liliana Segre [1] – come abbiamo ricordato in altri articoli sul sito (vedi a fondo pagina).

L’articolo che segue è ripreso da la Repubblica di ieri 18 luglio.

[2]

MEMORIA
Novant’anni di speranza
Sami Modiano è sopravvissuto alla guerra, alle deportazioni, ai campi di sterminio nazisti e ora anche al Covid “Se mi guardo intorno vedo fratellanza. La paura non vincerà”
La mia infanzia è finita quando mi espulsero dalla classe: soltanto quel giorno scoprì di essere un ebreo
“Mi mancano gli incontri con i ragazzi, le mattinate nelle scuole, ma aspetto fiducioso Verranno tempi migliori”

di Umberto Gentiloni

Compie novant’anni Sami Modiano, la sua biografia ha attraversato un lungo tratto del secolo scorso.
Nasce nell’isola di Rodi il 18 luglio 1930, quando il Dodecaneso era italiano. Sami studia con passione e dedizione, è uno dei più bravi della classe, frequenta la scuola elementare maschile.
«L’anno scolastico era appena iniziato quando una mattina il maestro mi chiamò. Ero contento, mi ero preparato all’interrogazione, convinto che mi avessero chiamato per questo. Invece mi disse che ero stato espulso. Non capii, rimasi senza parole. Mi mise una mano sulla testa dicendomi che mio padre mi avrebbe spiegato i motivi. Ricordo come fosse oggi la mano sul capo, il tentativo di rassicurarmi e la successiva conversazione con mio papà che mi parlò di Mussolini e dell’esistenza di una razza ebraica di cui facevamo parte.
Ero troppo piccolo per capire. Fino a quel momento ero contento, libero, sereno. Non mi sentivo diverso dagli altri bambini, dai miei amici. Ora era finita l’infanzia. Quella mattina mi ero svegliato come un bambino. La sera mi addormentai come un ebreo».

Attimi scolpiti nella memoria in un tornante della sua esistenza. Quel bambino viene catapultato in una nuova realtà, nelle tenebre del Novecento.
Deportato insieme a tutta la comunità di Rodi il 23 luglio 1944, destinazione Auschwitz, nel viaggio più lungo tra i percorsi senza ritorno: arrivo il 16 agosto. Quasi un mese attraverso l’Europa nel vivo della fase decisiva dell’offensiva Alleata al cuore del terzo Reich. Ebrei, italiani scovati e catturati in un’isola, a ridosso della costa turca, quando già Roma era in mano agli anglo americani, Minsk presa dai sovietici, il campo di sterminio di Majdanek a Lublino appena liberato.
La guerra di Hitler si stava trasformando in una sconfitta, una resa incondizionata. Eppure la macchina dello sterminio non si inceppa, non conosce ostacoli, prosegue il suo cammino di morte e terrore.
Poche decine i sopravvissuti, su quasi duemila deportati. Sami, non ha ancora quindici anni, si ritrova solo al mondo, riesce a riprendere un cammino di vita, prima alle porte di Roma, poi in Congo belga per tornare a Rodi molti anni dopo quando l’isola delle rose aveva persino cancellato le tracce dell’antica comunità.
Nel lungo dopoguerra ha diviso il suo tempo restando vicino al mare: a Ostia d’inverno e a Rodi d’estate in una lunga stagione dove si occupa delle visite alla sinagoga e al museo, come memoria e voce di una presenza cancellata [Per questo ho vissuto. La mia vita ad Auschwitz-Birkenau e altri esili ; Rizzoli 2013].
Un testimone infaticabile che si muove tra scuole, università, viaggi della memoria nei luoghi della sua deportazione, dove ha perso gli affetti più cari.
«Quest’anno non ci muoviamo da casa, troppo rischioso alla mia età, parlo volentieri al telefono».
Sami e Selma, preziosa compagna di una vita, cercano di evitare contatti con l’esterno osservando il mondo nell’era del Covid 19, anche oggi che il virus sta apparentemente regredendo. La quotidianità di tutti è travolta e ridisegnata.
«Il venerdì sera accendiamo una candela, preghiamo anche per chi è stato ucciso dal virus, per chi non ce l’ha fatta ed è stato portato via senza un ultimo saluto. Penso ai camion con le bare, ai trasporti continui di corpi senza vita, al coraggio di medici e infermieri».
Per chi ha vissuto da ragazzo la tragedia di una guerra, la deportazione, mesi in un campo di concentramento ogni richiamo al passato rischia di essere retorico o inefficace.

Il pensiero di Sami Modiano volge verso la quotidianità, la ricchezza di gesti e comportamenti che lo circondano.
«Se mi guardo intorno vedo tanto affetto, una profonda fratellanza. C’è chi ci chiede al citofono cosa vogliamo mangiare, ci porta la spesa o ci offre parte del loro pranzo. Sono persone che conosciamo, che abbiamo conosciuto in questi anni. Ma tanti si offrono, fanno un gesto, tendono la mano. È una sensazione bellissima, un condominio, un palazzo che si ritrova per farsi forza, un segnale che va al di là del tempo mette in relazione generazioni diverse attraversate dalle stesse paure».
Ne parla come se volesse mostrare ciò che i suoi occhi vedono ogni giorno: dalle finestre, dall’angolo di strada che meglio frequenta, dalle tante telefonate che riempiono ore e settimane di quarantena.
«Mi mancano gli incontri con i ragazzi, le mattinate nelle scuole, le possibilità di riconoscere volti e sorrisi di tanti. Ma aspetto fiducioso, verranno tempi migliori per poter riprendere un cammino interrotto. Non so se sia giusto parlare di guerra, non lo credo. È un’esperienza troppo diversa, unica, il nemico è invisibile e sconosciuto.
Per me una nuova esperienza che si aggiunge alle altre che ho attraversato: c’è sempre da imparare, sono convinto che potremo fare tesoro di queste settimane di clausura e solitudine. Non dobbiamo scordarci di chi si è sacrificato anche per noi e la nostra salute, né dimenticare cosa significa dare una mano, prestare aiuto a chi ne ha più bisogno».

Un monito che va al di là delle strane giornate che stiamo vivendo, fino a diventare uno sguardo sulla biografia di un sopravvissuto alla Shoah che passa le novanta primavere: «Gli ultimi decenni della mia vita sono stati ricchi, felici, pieni di speranze e di incontri. Non mi immaginavo il dolore di questi mesi e le domande su cosa ci attende quando metteremo il naso fuori di casa. Tutto sommato rimango ottimista, penso spesso a un detto sefardita dei nostri padri, una sorta di proverbio nella lingua ladina, andiamo avanti Caminando y hablando ».

[3]

Il 27 gennaio, Giorno della Memoria: pare che sia necessario [4], del 22 gennaio 2018, di Rosanna Conte

“Tutto davanti a questi occhi”, il film di Veltroni sulla Memoria [5], del 27 gennaio 2018, segnalato dalla Redazione

A lezione di memoria per non dimenticare [6], del 28 gennaio 2018, di Enzo Di Fazio

***

Aggiornamento del 20 luglio (cfr. Commento della Redazione)

COMMENTI
Il seme dell’odio
Le minacce al Quirinale dopo l’onorificenza a Sami Modiano
di Corrado Augias

Invito i lettori di Repubblica a leggere i messaggi che seguono.
Compito sgradevole, lo so, però necessario. Sono messaggi arrivati al presidente della Repubblica dopo la nomina a Cavaliere di Gran Croce conferita a Sami Modiano (90 anni), sopravvissuto allo sterminio nazista.
Mi dispiace, la lettura è ingrata, anzi umiliante, non solo per chi li ha scritti ma anche per chi ne viene in contatto, sono espressioni che si preferirebbe scansare. Però non sarebbe giusto, bisogna sapere fino a che punto può scendere la malvagità quando è fatta da una pericolosa miscela di ignoranza e odio. Credo proprio che sia necessario leggere i messaggi arrivati al presidente della Repubblica dopo il suo provvedimento. 

Giuseppe Poggi: «Mattarella ha nominato l’ebreo Salomone (vulgo Sami) Modiano ex internato ad Auschwitz Cavaliere di gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica». Precede una “citazione dell’ebreo Karl Marx: Controllare non credere”. Antonello: «Shoah, Mattarella nomina Sami Modiano Cavaliere di Gran Croce. Solito coglione lurido che pensa a tutto tranne che agli italiani». Nel simboletto una bandiera europea con al centro la mano stretta a pugno che mostra il dito medio. Il mittente è anonimo, la matrice di partito, lo stile, sono evidenti. Don Vito rap (con fotina): «La ministra Castelli straparla sui ristoratori e questi pensano a Modiano e ste caxxate eh eh eh ma che è una marca di carte da gioco eh, già giudei speculano sempre».
Lo sconclusionato livello logico è aggravato dal tentativo di suscitare un effetto d’ilarità (risatine: eh eh eh). Diretto invece, anzi brutale, il messaggio di Alessandra Pioli: «Mattarella a quando la tua scomparsa?».

La tentazione immediata sarebbe di catalogare queste manifestazioni selvagge come fascismo. Credo però che sia inappropriato, probabilmente insufficiente, comunque poco utile. Il fascismo storico si rifaceva per quanto sia ad una corrente di pensiero politico, perseguiva obiettivi precisi, disastrosi che fossero. Non mi pare che questi propalatori di messaggi, spesso anonimi, pensino di utilizzare frammenti di quell’infelice passato per un fine politico; dai loro messaggi traspare piuttosto la necessità di scaricare pulsioni di odio che oggi sono rivolte agli ebrei ma che domani potrebbero colpire una qualunque altra categoria di persone: le donne, i neri, i poveri, i nomadi, i malati, i vecchi.
C’è il bisogno primitivo di esternare il proprio disagio, di colpire o schernire un obiettivo dopo averlo individuato come causa dei propri mali. Questa cieca battaglia animata dall’odio è agevolata dall’ignoranza della storia, dall’educazione sbagliata ricevuta in famiglia, contro la quale la scuola, anche volendo, può fare poco. Si agitano sulla scena politica italiana dei giovani personaggi, figli di fascisti dichiarati, che dimostrano nel loro agire quotidiano, nelle parole che usano, nei comportamenti, da quali insegnamenti provengano. Rappresentano un diverso livello, già più decifrabile, del problema.
Gli autori dei messaggi deliranti sfuggono invece al tentativo di ricondurre certe deviazioni ad una matrice riconoscibile. Possiamo equipararli a quegli ubriachi che blaterano di notte sorreggendosi ad un lampione.
La loro ridotta capacità d’intendere non li rende però meno pericolosi. I discorsi d’odio ( hate speech ) devono essere repressi per una questione di dignità del discorso pubblico, per contenere il potenziale pericolo che — per esempio — qualcuno prenda sul serio il grido dissennato di Alessandra Pioli riportato più sopra. 

È evidente che la polizia postale non basta più a controllare il fenomeno. Il Parlamento deve legiferare perché, come invocato da Liliana Segre, i discorsi d’odio entrino nel codice penale con adeguate sanzioni. Se questo avvenisse sarebbe curioso osservare le motivazioni degli eventuali oppositori. Immagino che, per esempio, s’invocherebbe la libertà di pensiero. Resterebbe però la domanda: dove comincia il pensiero?

Da la Repubblica del 20 luglio 2020

In file .pdf: Augias. Il seme dell’odio [7]