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Il gigante incompiuto

di Paolo Mennuni

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Chi, capitato a Napoli per caso o per scelta, dovesse imboccare la salita che da Mergellina porta a Capo Posillipo, non potrà fare a meno di notare, a qualche centinaio di metri dall’inizio della salita stessa, la presenza ingombrante, severa, e fors’anche un po’ inquietante, di una costruzione vetusta e decadente ma piena di fascino: è Palazzo Donn’Anna così, almeno, è conosciuto dalla maggior parte dei napoletani, ma non tutti, perché, per il popolino, era il castello della regina Giovanna, mentre, per gli intellettuali, è anche Palazzo Medina. Comunque, in quella costruzione, tra storia e leggenda, s’intrecciano le vicende di due donne che hanno avuto rilievo nella storia di questa antica capitale: Giovanna II d’Angiò e donn’Anna Carafa.


Dalla mole imponente e dal disegno molto impegnativo e ricercato, è tra i palazzi storici di Napoli e, per la sua collocazione precipua, uno dei più ammirati; forse, il più ammirato dopo Palazzo reale; nei secoli, poi, aveva anche corso il rischio di scomparire sotto le ingiurie e le sferzate del tempo e delle intemperie, perché abbandonato fino alla fine del XIX secolo.

Ed è proprio questa successione di avvenimenti che hanno caratterizzato la vicenda di questo palazzo fino a farne un qualcosa di unico ed irripetibile nel panorama cittadino e nella storia della città di Napoli.

Palazzo Donn’Anna è un palazzo storico, un monumento, soggetto alla tutela severa della Soprintendenza ed è anche riportato nelle guide turistiche ma senza molti dettagli perché, non essendo pubblico, non è visitabile. Comunque, la mole e l’ubicazione ne fanno una presenza notevole nel panorama cittadino, come già detto, sia che lo si guardi dal mare, sia che lo si guardi dall’alto di Castel S. Elmo o dalla Certosa di S. Martino.

La costruzione dell’edificio risale al 1642 quando il viceré di Napoli Ramiro Guzman duca di Medina de las Torres e la moglie Anna Carafa decisero di costruire la loro dimora su quello scoglio dove sorgeva una villa cinquecentesca, appartenente alla famiglia Bonifacio, in modo da avere una sede importante (come si conveniva ad un rappresentante del Re di Spagna!) e che fosse raggiungibile dal mare e da terra.

Il progetto fu affidato all’architetto Cosimo Fanzago che, insieme con altri insigni artisti dell’epoca, dette inizio all’opera; poi, però, gli eventi precipitarono e l’opera rimase incompiuta. Infatti, nel 1645, il duca di Medina dovette precipitosamente far ritorno in Spagna perché il suo amico e protettore, il duca di Olivares, che risultava essere il favorito di Filippo IV, era caduto in disgrazia e, quindi, come in un domino, caddero in successione tutte le tessere del gioco.
Il duca di Medina fu sostituito dall’Almirante de Castilla Juan Alfonso Enriquez e la povera Anna, rimasta sola e circondata dall’odio e dal rancore della nobiltà e del popolo, non ebbe altra scelta che abbandonare Napoli e ritirarsi a Portici, dove finì i suoi giorni lasciando l’opera incompiuta.

Anna Carafa della Stadera. Donn’Anna

Successivamente l’edificio subì danni durante la rivolte di Masaniello nel 1647 cui si aggiunsero quelli causati dl terremoto del 1688.

Fra tentativi di recupero, o di utilizzo alternativo, il palazzo fu ulteriormente danneggiato quando, per volere di Gioacchino Murat, fu aperta la strada attuale che porta, appunto, al Capo di Posillipo nel 1812.

Questa mole poderosa ed incombente, rimasta incompiuta, colpì anche la fantasia di alcuni personaggi di un certo spessore che ci hanno rilasciato autorevoli testimonianze sul degrado e l’abbandono della costruzione nella seconda metà dell’800, ossia a duecento anni dalla costruzione: Alexandre Dumas, noto scrittore e giornalista francese, e Matilde Serao, scrittrice e giornalista anche lei, ma italiana nata a Patrasso.

Alexandre Dumas, quando venne a Napoli nel tentativo vano di convincere Garibaldi a proclamare la repubblica nel 1861, scrisse: “A Napoli, all’estremità di Mergellina … vi è una strana rovina che avanza in tutta la sua lunghezza su uno scoglio sempre bagnato dalle onde del mare, che penetra fin nelle sale più basse. Abbiamo chiamato strana questa rovina e lo è infatti, poiché è quella di un palazzo mai compiuto, che è passato alla decrepitezza senza essere passato per la vita”.

Viene la volta di Matilde Serao che, dieci anni dopo, così lo descrive: “Il bigio palazzo che si erge nel mare. Non è diroccato, non fu mai finito; non cade, non cadrà, poiché la forte brezza marina solidifica ed imbruna le muraglie, poiché l’onda del mare non è perfida come quella dei laghi e dei fiumi, assalta ma non corrode. Le finestre alte, larghe, senza vetri, sono come occhi senza pensiero; nei portoni dove sono scomparsi gli scalini delle soglie entra scherzando e ridendo il flutto azzurro, incrosta sulle pietre le sue conchiglie, mette l’arena nei cortili, lasciandovi la verde e lucida piantagione delle sue alghe. Di notte il palazzo diventa nero, intensamente nero, sotto le alte e bellissime stelle. Ogni tanto sembra vedere fantastiche ombre disegnarsi nel vano delle finestre: ma non fanno paura”.
E qui finisce la storia di donn’Anna Carafa e del suo palazzo che non abitò mai.

Queste due descrizioni, ma in particolare la seconda più intensa, spiegano in maniera esauriente e convincente quali potessero essere le sensazioni che il popolo dei pescatori del borgo di Mergellina provavano nel rimirare, con timore e rispetto, quell’antica rovina vuota ma piena d’incognite e di mistero e di cui ignoravano la storia. Col tempo, ovviamente la riempirono di leggende sinistre. Nacquero quindi le voci più inquietanti intorno a quel complesso e su chi l’avesse abitato.

Tra le leggende più a portata di mano, e pronte per l’uso, c’era quella della regina Giovanna II d’Angiò che, però, come suggerisce lo stile del palazzo, era nata e vissuta molto prima della sua costruzione; almeno un paio secoli prima. Infatti, figlia di Carlo III e di Margherita di Durazzo, era nata nel 1371 e salì al trono, alla morte del fratello Ladislao nel 1414, come ultima esponente della dinastia d’Angiò Durazzo.

Passata alla storia, ed alla leggenda, come una donna frivola e capricciosa, dal carattere estremamente instabile e volubile, si fregiava di numerosi titoli come: regina d’Ungheria, di Gerusalemme, di Dalmazia, di Croazia ed altri ancora. Vedova del duca Guglielmo d’Austria, morto poco dopo il matrimonio, fu, in realtà, una donna molto debole e subì spesso l’influenza dei suoi consiglieri e favoriti, il primo dei quali fu un certo Pandolfello Piscopo detto Alopo per via della calvizie. Siccome la stirpe angioina, come poi avvenne, rischiava di estinguersi per mancanza di eredi, i nobili napoletani fecero pressioni perché Giovanna contraesse un nuovo matrimonio. La scelta cadde su Giacomo di Borbone, conte di La Marche.

Giacomo, però, non s’accontentò del ruolo di principe consorte e, con l’aiuto di funzionari francesi di sua fiducia, brigò per crearsi il suo spazio cominciando dall’eliminazione fisica di Pandolfello. La sua invadenza, però, scatenò la reazione della nobiltà napoletana che lo costrinse prima a rinunciare al titolo di Re, che nel frattempo si era fatto attribuire e, successivamente, prima a rimandare in Francia i suoi consiglieri e poi a tornarsene definitivamente in patria, dove concluse la sua avventura terrena tra le mura di un convento francescano.

L’avvicendarsi a corte dei favoriti e la loro influenza sulle vicende del regno, le lotte di potere, costellate di congiure e delitti, favorirono il proliferare di dicerie e voci sul conto della regina e che le valsero una serie di epiteti ed attributi in aggiunta agli innumerevoli titoli da lei vantati.

Giovanna II D’Angiò

Fu quindi, di volta in volta, Giovanna la Pazza (da non confondere con Giovanna di Castiglia, anche lei regina di Napoli), l’Insaziabile, la Regina dai cento amanti e, più confidenzialmente, Donna Joannella!
La voce popolare vuole anche che la sovrana, per soddisfare le sue voglie, non andasse troppo per il sottile e che, come il don Giovanni mozartiano, passasse indifferentemente dai principi ai popolani; con il particolare che, questi ultimi, venivano sistematicamente eliminati per evitare che potessero raccontare le proprie imprese, infangando il nome dell’Augusta.

Si narra addirittura di una botola segreta nelle quale venivano precipitati per finire tra le fauci di un coccodrillo famelico… insaziabile come la regina.

L’ultimo e più importante dei suoi amanti fu Giovanni Caracciolo, detto Sergianni, sposato con Caterina Filangieri, che morì vittima di una congiura ordita dalla duchessa di Sessa, amica della regina, preoccupata per la piega che le vicende di stato stavano prendendo a causa dello strapotere di Sergianni.


Napoli, Castel Nuovo o Maschio Angioino

Questa la storia e la leggenda di Giovanna II che però, come tutti gli Angioini, ebbe la sua residenza effettiva in Castelnuovo, meglio noto come Maschio Angioino; ma le vicende, vere o inventate che fossero, alimentarono la fantasia popolare che aveva però bisogno di trovare un luogo dove situarle ed i napoletani non trovarono sistemazione migliore che in quel rudere inquietante che di notte diventava “intensamente nero” dove pareva di vedere fantastiche ombre disegnarsi “nel vano delle finestre”!

 

 

 

Bibliografia

  1. Mazzoleni e M. Smith: “Palazzi di Napoli”; Arsenale ed. Venezia 1999
  2. Liguoro: “Donna Regina”; Flavio Pagani ed. Napoli 1991
  3. Doria: “Le strade di Napoli”; Riccardo Ricciardi ed. Milano –Napoli 1979
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