- Ponza Racconta - https://www.ponzaracconta.it -

Scrivo de “la Repubblica” e rispondo a ‘Vincenzo’

di Tano Pirrone

.

Ho letto e riletto, dopo una parca e casta pennica, un lungo e colto saggio, lungo quanto una pagina di uno – se non l’unico -quotidiano che esce ancora nel formato “lenzuolo” – l’antico formato inglese broadsheet -, scomodo da usare, soprattutto se si è da anni utenti delle edizioni online. Comode queste ultime (ti arrivano a casa appena pronte, in confezione asporto) ma asettiche. Ritaglio vignette, articoli, interi o a pezzi, smembrandoli con le comode app disponibili per conservarle o inviarle dal divano agli amici, quando il cielo è appena sbiancato ed il merlo comincia a cantare estenuate canzoni d’amore.

Quale fosse il giornale e di chi fosse l’articolo lo confesserò davanti ad un piatto di pesce a Ponza – all’Oresteria, lungo la via che porta alla punta Bianca -, agli ormai affezionati personaggi che leggo ogni giorno e che spero ogni tanto mi leggano, tacendo del mio spesso ruvido effluvio.
La gente di mare ha animo forte e silente, i figli di Mungibeddu (*), sangue mischiato a sangue e ancora ad altro sangue, eruttano lapilli, fumi, fiumi di lava e parole su parole. Mai senza senso (mai senza senso, bada!), semmai calde, e asperrime, ma tutte mirate, tutte a bersaglio.

Guidato da un sesto senso innato (l’occhio cieco del Ciclope?) o dal fiuto da cane cirneco, ho acceso il mio fido e strapiatto Notebook e ho fatto balenare sullo schermo ponzaracconta.it, piazza ormai nota, in cui spesso m’attardo a leggere di morti, di nascite, di fari, di navi che tardano ad arrivare e dei generi più vari, legati tutti da un sottile filo di ragno, un fil rouge, che rosso non è, ma ha il colore della luna sul mare ponziano.

Ho letto la filiera che comincia con l’articolo di Sandro e parla di la Repubblica, del cambio di proprietà (leggi qui [1]).
Toni anche melanconici (il passato appassisce). Sto per finire e decido di chiudere l’articolo che ho quasi pronto da quattro giorni e che non mi decido a concludere, forse perché mi costringerebbe a prendere una posizione che invece voglio aspettare a prendere.
Un lungo articolo su Repubblica, appunto, sull’ineguagliabile storia di questo giornale e degli uomini che lo vollero, lo fondarono e lo guidarono per decenni. Uomini colti, sempre schierati, certi sempre dei loro dubbi. Forse lo terminerò. Per ora sta in buona compagnia di tante cose scritte e posteggiate. Stanno tranquille, ordinate in attesa. Non sanno bene di cosa. Neppure io.

Sto per concludere – contento (nella mia velata tristezza) di accomunarmi ad altri, che non conosco, con cui non ho vissuto passati comuni – quando, al termine della carrellata, m’imbatto (come don Abbondio nei Bravi) nell’ultimo breve intervento di meglio non nomato Vincenzo (absit iniuria verbis). Il breve “chiusino” (provvisorio, immagino), è parso – a me ancor sonnecchiante – troppo velocemente scritto e per nulla saggiamente riletto e criticamente rivisto.
‘Vincenzo’, gioca sul termine “partito di Repubblica” (tutte le persone intelligenti e in buona fede, nell’arco di questi ultimi 44 anni sono appartenute anche se per poco al “partito di Repubblica”) e poi, con lo stesso grado di umorismo che ho conosciuto bambino in Padre Burrafato (**), lamenta che il cambio del “segretario” (il direttore, per chi non avesse colto) è avvenuto senza consultare “la base” (la quale, si sappia finalmente, moltiplicata per l’altezza ci dà l’area o superficie).
Ottenuta l’area, rimane al signor ‘Vincenzo’ di darsi, piuttosto l’aria di chi di politica, di storia contemporanea, di giornalismo, comunicazione, letteratura ecc. qualcosa capisce.
Perché, signor ‘Vincenzo’, i trascorsi socialisti e pentastellati non sono garanzia immediata di capacità di giudizio politico e di franco riconoscimento dei valori che nei fatti si mettono in gioco. Inorridisco a leggere – vado a memoria – di “scelte fatte per seguire i padroni”.

Gli uomini che diedero vita al nuovo giornale “la Repubblica”, nel gennaio 1976: al centro c’è Eugenio Scalfari. Sulla sinistra (il primo in piedi) il vignettista Giorgio Forattini.

Ma lei, lei sa come è nata Repubblica? …Lei sa perché è nata Repubblica? E quando e con chi l’idea si fece carta e verbo?
Parlo de L’Espresso voluto da Franco Libonati, Arrigo Benedetti, Eugenio Scalfari e da Adriano Olivetti. È il 1955.
Dopo nemmeno due anni, il grande Adriano Olivetti (di cui molti soltanto a pronunciare il nome spariscono, lasciando miasmi e poche polveri sottili) deve abbandonare a causa delle difficoltà che la linea politica aggressiva del settimanale crea al suo gruppo industriale, cede la proprietà; dona il grosso delle sue azioni a Carlo Caracciolo e, in misura minore, a Benedetti e Scalfari.
Caracciolo (citato nel commento di Sandro Vitiello allo stesso articolo in link – NdR) diventa azionista di maggioranza.
Nel 1963 – avevo vent’anni e leggevo di tutto, ma proprio di tutto – Arrigo Benedetti (figura di intellettuale finissimo e accomunato agli altri per l’appartenenza culturale e politica assai prossima a Il Mondo di Pannunzio), lascia la direzione del settimanale cui aveva conferito una costante linea di impegno civile e di totale indipendenza rispetto al potere politico ed economico. Redattore capo fu Ennio Flaiano. Proprio contemporaneamente a questi fatti si formava il movimento di intellettuali (tra cui Umberto Eco) che fu chiamato “Gruppo ’63” (***). Non se la prenda se non elenco tutti i nomi dei partecipanti: può cercarli sul webbe; ormai chiunque è al riparo di un buon libro, non si sa mai!

La faccio lunga, gentile signore, perché è lunga la storia e bisogna conoscerla e comprenderla, leggerla più volte, se serve (non eravamo ai tempi di Twitter o di Facebook, per cui per scrivere e per leggere bisognava essere attrezzati); per capire… (beh, come sempre l’intelligenza non è democratica e non sempre in questo caso “uno vale uno”, ma non lo dica a Rousseau… no, non il Capo M5S… il cervello pensante, l’“uno per tutti”; …no!, neanche “il doganiere”! (****). Mi segua, per favore: parlo di Giangiak Russò, il filosofo.


Verdelli e Scalfari. Lo scorso 25 aprile

Mi sto annoiando, Signore, sto cercando di rispondere con argomentazioni a frasi fatte, stantii stilemi propagandistici, idee “sempliciotte” più che semplici. Come quelli che certi giovinotte e giovinotti mitragliano davanti alle telecamere per rendere nota al colto e all’inclita “la Linea”; che è talmente confusa, complicata, che pure il Profeta Genovese sì è stufato di darla.

Esco dalla comune… (che non è quella di Parigi!)

 

Note

(*) – Mungibeddu. Mongibello. Nome dialettale (in disuso) del vulcano Etna. Composto tautologico (ripetizione dello stesso termine) di monte e gebel (in arabo, monte).
(**)Padre Burrafato. Era un vecchio prete della Chiesa Madre di Francofonte, cui puzzava immondamente l’alito, tenendo noi ragazzi a rispettosissima distanza; come la maggior parte dei preti, aveva poca confidenza con gli scherzi, l’ilarità, le arguzie. Preso come paradigma, con affetto, perché Padre Burrafato era, al contempo, la persona più innocente che abbia conosciuto.
(***)Gruppo 63. È  una sigla di comodo dietro alla quale c’era un movimento spontaneo suscitato da una vivace insofferenza per lo stato allora dominante delle cose letterarie: opere magari anche decorose ma per lo più prive di vitalità. Furono l’ultima fiammata del neorealismo in letteratura, fioca eco populista della grande stagione cinematografica dei Rossellini e dei De Sica.
(****)Il doganiere. Henri Julien Félix Rousseau (Laval,  1844 –  Parigi, 1910), pittore, quasi “iniziatore” dello stile naïf. Detto il ‘doganiere’, per il lavoro che fece per tutta la vita nell’ufficio comunale del dazio di Parigi.