di Rita Bosso
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Gli scritti di Silverio Guarino e di Franco Schiano, i commenti (di Luisa la Direttora, di Maria Conte, di Silverio Lamonica, di Biagio Vitiello) mi hanno riportato alla mente qualcosa.
Non c’entra nulla con Ponza, nulla so delle condizioni del pino che, sino a qualche giorno fa, troneggiava al centro di piazzetta Dragonara. Ho letto che era morto, che le radici danneggiavano le case limitrofe; Silverio Lamonica e Biagio si domandano se non fosse opportuno l’intervento di un botanico ma anche un semplice giardiniere avrebbe potuto dir la sua e, forse, spiegare di che morte sia morto Pino: di morte naturale, di vecchiaia, di altro.
Pino se n’è andato come tanti suoi coetanei in questi giorni: in silenzio, con diagnosi plurime e vaghe, con la formula generica di “patologie pregresse”, senza il tentativo di curarlo perché era del ’49. Mi piace pensare che, a differenza dei coetanei, sia stato circondato dall’affetto dei suoi cani, grati per il ristoro che la sua chioma offrì nelle giornate afose.
Vivevo in un condominio del centro ritenuto abbastanza esclusivo. Ai lati del viale condominiale qualche piccola conifera, tante piante grasse e imponenti cedri del Libano. Frequentavo le elementari quando ero andata a vivere in quella casa; le punte dei cedri del Libano non arrivavano al secondo piano. Negli anni gli alberi erano cresciuti, gli appartamenti del terzo ed ultimo piano delle palazzine ne erano ornati, avvolti, protetti. Eravamo coetanei, i cedri e io; eravamo cresciuti insieme; ero loro grata perché “al guardo escludono”, per dirla con il poeta: io non vedevo la palazzina di fronte e i dirimpettai non vedevano me; entrambi ammiravamo i rami danzanti nel vento, brillanti di pioggia, inondati dalla luce del sole, neri nelle sere d’inverno; sentivamo il cinguettio degli uccelli che lì avevano fatto il nido.
Il rapporto degli abitanti dei piani bassi con gli alberi era più prosaico: chi si lagnava degli aghi che gli sporcavano il terrazzino, chi diceva che per colpa di quegli alberi non vedeva più un raggio di sole, chi temeva che i topi potessero arrampicarsi; qualcuno sognava di ricavare tanti posti auto, preziosi in quella zona…
L’amministratore era un brav’uomo, pensionato, che prendeva le decisioni circondato da un consiglio di altri anziani condomini più o meno sordi, parimenti accomodanti, gentili e parsimoniosi; ascoltavano le ragioni di tutti e cercavano di mediare, di non scontentare. Quando arrivarono i giardinieri che, periodicamente, sistemavano i viali, il senato condominiale all’unanimità li incaricò di eliminare quei rami fastidiosi che provocavano tante lamentele, che arrecavano tanti disagi.
Nel giro di un paio d’ore rimasero solo i tronchi, nudi, osceni pali della luce; intorno ad essi, i senatori si congratulavano per aver reso finalmente arioso il condominio, per averlo liberato dalla giungla che gli era cresciuta intorno. La mia amica Patrizia e io provammo con tatto ad esprimere le nostre ragioni ma oramai era fatta, né volevamo offendere quegli anziani gentiluomini sulla cui onestà e buonafede non sussistevano dubbi.
Le palazzine che sino a poche ore prima erano sembrate eleganti si rivelarono per quel che erano: casamenti degli anni Sessanta, anonimi alla nascita, volgari nella maturità per via delle verandine, dei condizionatori, delle tettoie che erano cresciuti in quarant’anni.
Qualche mese dopo l’amministratore morì, io andai a vivere altrove; ho rimosso dalla memoria l’immagine dei pali nudi.
Conservo invece il dolce ricordo di quei vecchietti che, di fronte alle rimostranze, anziché rintanarsi nelle proprie abitazioni sostarono ore e ore nel viale, spiegarono e motivarono e si assunsero la responsabilità di quel che avevano fatto: una grande stronzata.