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L’ora del pranzo

di Silverio Guarino

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Le giornate estive della nostra adolescenza erano scandite da ritmi e tempi a dir poco ripetitivi, ma che riempivano di colore la nostra vita.
Verso le 10.30 del mattino, ci si recava alla “Caletta”, con parenti, amici e conoscenti (io con mamma e mia sorella Luisa); piantavamo l’ombrellone nella sabbia (ricordo che la stoffa dell’ombrellone era di color verde, sbiadito per il sole e per il sale) e cominciavamo a giocare e a fare i bagni nello spazio tra la spiaggia e la scogliera.

Tuffi, nuotate, pallavolo, tamburello. Qualche volta già con maschera, tubo e pinne a fare “snorkeling” (ma chi sapeva che si sarebbe chiamato così?), tra i massi della scogliera, sempre rigorosamente all’interno e sotto l’occhio attento dei grandi.
Il tempo passava in fretta; l’acqua del mare aveva più volte l’occasione di asciugarsi sulla nostra pelle, così come il sole di arroventare le nostre spalle.
Ma poi ci ribagnavamo nell’acqua fresca e tutto si risolveva in questo modo.

Al momento giusto, mamma invitava me o Luisa a verificare che ora fosse, arrivando a vedere l’orologio del comune allontanandoci dalla sabbia e andando verso il lanternino.

Ore 12.30: papà (all’ombra fino a quel momento per ripararsi dai dardi infuocati del sole) usciva all’aperto dal Caffè Tripoli e si dirigeva lentamente verso Il rifugio dei naviganti (dove adesso c’è Il pacchero di Rita), allora osteria di mia nonna Fortunata e di mia zia Concettina, dove si pranzava tutti i giorni.

Era il segnale che era l’ora di rientrare e che nonna si preparava a calare la pasta. Senza indugio dalla spiaggia solertemente ci preparavamo al ritorno.
Ombrellone in spalla, asciutti più o meno, ancora costume bagnato addosso (ci si cambiava a casa), pronti alla ripartenza.
Sotto i dardi del sole cocente del ritorno di tutto il molo, risalita verso Via Roma ed arrivo in orario per la pasta che, appena scolata, era già fumante in tavola.
Papà ci aspettava e così potevamo chiassosamente iniziare il pranzo. Nonna veniva dalla cucina con le pietanze; in tavola piatti, bicchieri, posate e tovaglioli colorati.
E, per finire, l’anguria portata a tavola, servita ancora fresca di “piscina”.

Ricordo tanta luce ed una refola di vento che veniva da dietro casa, gonfiando le tende e che usciva dall’ingresso dell’osteria, per rinfrescare i commensali accaldati.
E noi, ancora un po’ salati di mare, tutti insieme all’ora del pranzo.

Il “De brevitate vitae” l’avevamo già messo da parte.