Ambiente e Natura

Cinema, virus, epidemie e batteri (prima parte)

di Roberto Pedicino

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Preambolo dell’autore.
Ho assunto il tema con estremo entusiasmo. Infatti oltre alla passione per il cinema, nel lavoro quotidiano mi occupo proprio di infezioni (se proprio devo essere preciso, infezioni neonatali). Ma non vi preoccupate, non ho intenzione di ammorbarvi con tecnicismi e inutili dettagli. Penso che siate sufficientemente saturi di sproloqui incomprensibili sui fatti del giorno. Quanto segue, quindi, è esclusivamente frutto del mio interesse per la cultura cinematografica e per la maggior parte delle espressioni dell’arte, pertanto buona lettura.
 

Il proliferare del filone catastrofico è un fenomeno non recente nel cinema. E quasi sempre l’evento apocalittico, che si tratti di invasione aliena, disastro nucleare o, appunto, di epidemia, è stato preso come pretesto per mettere lo spettatore di fronte alle responsabilità del genere umano riguardo al progressivo disfacimento della civiltà e alla devastazione del pianeta.

Ma al cinefilo questa riflessione non può bastare. Le proposte narrative sul tema sono talmente numerose e antiche che inevitabilmente, caduto nella trappola, sono stato travolto da una ricerca quasi bulimica dei film sull’argomento. E visto che un’idea ne tira un’altra, esattamente come un film rimanda ad un altro, ho iniziato a pensare che scovare titoli non avrebbe avuto mai fine: anche dove l’evento epidemico era appena suggerito, esso assumeva spesso un significato di svolta nel racconto: in Ben Hur (William Wyler – 1959) la rivelazione della malattia di madre e sorella (la lebbra), e la successiva visita alle stesse nella valle dei lebbrosi, permetteva, ai protagonisti, una redenzione sia religiosa che umana tale da rendere possibile un lieto fine consono alla tradizione dei “colossal” del periodo. Come pure in Le crociate (Ridley Scott – 2005) non è marginale il ruolo di Edward Norton, nella parte di re Baldovino, anche lui lebbroso, ma eroico fino a morire di fronte alle mura di Gerusalemme.

Claude Heater (Cristo) con William Wyler sul set di Ben-Hur (1959)

Di fronte a tanto materiale, tutta la maniacale ricerca ha determinato uno scontro quasi epico tra l’eroico scrittore di queste note e lo sterminato materiale cinematografico prodotto negli anni, scontro da cui, lo anticipo, è risultato sicuramente sconfitto lo scrivente stesso, per la dichiarata impossibilità di venire a capo dell’argomento.

Sentendomi dunque un po’ come Ettore trafitto da una invincibile forza superiore, vi offro i risultati dello studio e le inevitabili riflessioni, certo che le accogliate (sono certamente migliorabili!) più pietosi di quanto abbia fatto Achille con le spoglie dell’eroe troiano.

Volendo iniziare dai capolavori assoluti, un film si erge su tutti. Il settimo sigillo (Ingmar Bergman, 1957), premio speciale della giuria a Cannes, ex equo con I dannati di Varsavia di Andrej Wajda, utilizza l’epidemia di peste che batteva l’Europa, proveniente da Oriente, nel 1300, per costringere il cavaliere Block a cercare Dio in un mondo senza speranza dove la vita è solo sofferenza. La desolazione costringe gli uomini a fuggire dal morbo ed anche il sogno di riconquistare Gerusalemme si è infranto. Il terrore e l’angoscia riguardano sia gli aspetti materiali che quelli spirituali dell’esistenza. Crollata ogni certezza, il dubbio diviene il nucleo dell’esperienza e della riflessione del cavaliere. Il motivo ultimo dell’esistenza lo troverà in un atto d’amore: salverà la famiglia di comici dalla Morte, distraendo quest’ultima e sacrificando se stesso e la propria famiglia. Il film si rivela una metafora per il genere umano alla continua ricerca del significato ultimo dell’esistenza che Bergman, intriso di cultura religiosa (il padre era un violento
e integerrimo pastore protestante), risolve con un gesto di speranza. In senso allegorico, infatti, va interpretata la sopravvivenza della famiglia di comici (Jof, Mia e il piccolo Micael), che rappresenterebbe la Sacra Famiglia. Il film diventa, dunque, un inno alla vita e alla sua semplicità.

La potenza del film risiede, tuttavia, non solo nelle riflessioni esistenziali di Bergman, ma anche nella sacralità e nella potenza del bianco e nero, che assume un valore per l’intensità dei volti dei protagonisti e per la sobrietà della scenografia, quest’ultima quasi un dipinto del medioevo. L’idea nasce infatti dalla trasformazione di un dramma teatrale, dal titolo, non casuale, “Pittura su legno”, e dalle suggestioni indotte al regista dalla visione dell’affresco di Albertus Pictor (questi ricordato nel film proprio nella parte del pittore), visibile tuttora presso la chiesa di Taby (presso Stoccolma), in cui viene rappresentata un partita a scacchi tra un uomo ed la morte.

Capolavoro misconosciuto e profondamente legato agli eventi odierni è L’ultimo uomo sulla terra (Ubaldo Ragona e Sidney Salkow, 1964), tratto dal notissimo racconto di Richard Matheson “Io sono leggenda” (edito in Italia anche con il titolo “I vampiri”) di dieci anni precedente, dove l’incontenibile presenza scenica di Vincent Price e la desolazione ambientale di un EUR spettrale e deserto conferiscono alla pellicola un fascino difficile da reperire in altri horror. La trasformazione dell’umano in mostro avviene a causa di un’epidemia infettiva per la quale il dottor Morgan (Price), dopo aver perso la famiglia, cerca un antidoto.
Per la prima volta (ma posso essere smentito, anzi andate a caccia di precedenti se avete voglia) gli “Zombie” prendono la forma che Romero renderà celebre, mostrandoli come armata insaziabile di sangue umano. Anche se nel film vengono chiamati Vampiri, sia le movenze, che l’assedio a cui sottopongono l’unico sopravvissuto, li rendono infatti esplicitamente i progenitori dei primi Morti Viventi della storia del cinema, non essendo gli “Zombie” utilizzati precedentemente da Tourner (Ho camminato con uno Zombie del 1943) e ancora prima da Victor Halperin (L’isola degli zombie del 1932), minimamente collegabili ai nostri mostri, in quanto più frutto della cultura voodoo e dei riti magici delle isole caraibiche che del dissennato antropocentrismo moderno.

Per la prima (?) volta in un film, a sterminare l’umanità è un agente infettivo (caso o preconizzazione il fatto che un pipistrello faccia parte della catena di trasmissione della malattia ?), ma a dare spessore alla trama è l’idea dell’accerchiamento da parte di un orda senz’anima.
Già qui assume valore la paura che qualcosa di esterno ed incontrollabile possa destabilizzarci individualmente e socialmente. Provate a sostituire gli Zombie con il Coronavirus e otterrete esattamente lo stesso stato d’ansia collettiva che ha pervaso il mondo occidentale abituato allo sviluppo sfrenato, alla soddisfazione di bisogni spesso superflui, alla socializzazione compulsiva.

Ma al di là dei pretesti e delle soluzioni narrative adottate, quello che colpisce è ancora una volta la capacità del bianco e nero di rendere reale l’angoscia e il terrore, e la stessa povertà di mezzi a creare una sensazione di solitudine a cui non si può rimanere indifferenti.
Le due versioni successive del racconto, 1975, occhi bianchi sulla terra (Boris Sagal, 1971) e Io sono leggenda (Francis Lawrence, 2007), perdono di pathos sia per le trovate a volte banali (il primo) sia per il ritmo frenetico (il secondo) poco consone ad un racconto che fa dello stato allucinato del protagonista la leva con la quale suscitare emozioni nello spettatore.

Non aggiunge nulla ai precedenti I am omega (Griff Furst, 2007), inedito in Italia, ulteriore rielaborazione del testo di Matheson, il cui lieto fine è sancito dal reperimento del siero con il quale guariscono tutti gli zombie. La modernità è data unicamente dall’utilizzo di internet come unico mezzo di comunicazione tra i sopravvissuti.


Nota
Sullo stesso tema si segnala sul sito (di Sandro Russo, recente, del marzo 2020): Passato e attualità delle epidemie. Sprazzi medici e cinefili


[Cinema, virus, batteri ed epidemie (1) – Continua]

1 Comment

1 Comment

  1. Sandro Russo

    30 Aprile 2020 at 09:34

    Pensavo, in relazione al bel pezzo di Roberto, come la maggior parte di film epidemico-catastrofisti sono ben più paurosi ed emotivamente coinvolgenti dell’evento che stiamo vivendo. Al confronto il Coronavirus, già nel nome, rappresenta “la banalità del male”.
    Avrebbe bisogno di essere rappresentato da un regista visionario, o da un Dalì, un Dorè, per dare davvero i brividi; non un Conte qualunque!
    Volete mettere Alien, un bel serpentone strisciante, i trifidi o qualche morto vivente. Quelli sì che mettevano paura, non questa puzzetta di Covid-19!

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