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Cei… o ce fa? (*)

di Tano Pirrone

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M.A. è una nostra giovane amica che ieri completava il periodo di gravidanza. Erano trascorsi i nove mesi e tutti aspettavamo che la pupetta si affacciasse al mondo. Neanche per sogno: «Mica so’ scema, io, che mi metto a nasce co’ tutto ‘sto casino incoronato!» avrà detto fra sé e sé, magari scalciando per protestare e far capire la volontà di starsene tranquilla nel suo brodetto amniotico.
Nel pomeriggio ho mandato a M.A. un messaggio [riportato in nota (**)] sulla Fase 2.
Condividendone ogni passaggio, mi sono adoperato per rinviarlo a tutti i miei contatti di whatsapp. Le risposte avute sono state tutte favorevoli al contenuto del brano. Vero che la mia platea è composta da persone, che con le dovute sfumature sono tutte classificabili “di sinistra”, ma comunque è un buon segnale.
Fra le tante quella di questa mia giovane amica partoriente: «Grazie (3 mani-giunte). È esattamente il mio pensiero. Peccato che molti non siano d’accordo o che vedano tutta la situazione con molta superficialità… certo noi non abbiamo un’attività da mantenere, quindi magari ci sentiamo meno angosciati economicamente. Ma volendo aprire tutto ora come se nulla fosse significherebbe buttare al vento il sacrificio fatto da tutti, da tutta l’Italia indistintamente, per due mesi. La fase due mi preoccupa più della fase uno…».

Fra le varie posizioni dello scomposto fronte antigovernativo quella dei preti: quella ufficiale del loro sindacato, la potente Conferenza episcopale italiana (Cei) e qualche voce singola, che invece di urlare al deserto fa rimbombare l’acido sermone nelle nostre orecchie poco accoglienti. Il vescovo di Ascoli Piceno minaccia. Parole durissime di monsignor Giovanni D’Ercole. “Pregare è un diritto: o ce lo date o ce lo prendiamo”: un black bloc in tunica. Il pronunciamento ha ricevuto poco più di una dozzina di entusiasti like, con commento incorporato, che sembrano usciti dal seminario del vescovo Lefebvre, il vescovo “nero” che, ben finanziato da nobiltà nere e arcaici fedeli, si oppose alle riforme del Vaticano secondo, e che, a capo di un’organizzazione para-clericale, nominò, nonostante i divieti papali, sacerdoti e pure vescovi. Fu scomunicato da Giovanni Paolo II. Bergoglio, finalmente, lo scorso anno ha soppresso con lettera apostolica in forma di motu proprio (***) l’organizzazione fondata da Lefebvre e sopravvissutagli per ben 28 anni.

La lettera di un sacerdote ospitata da Corrado Augias nella sua rubrica tenuta su Repubblica [(****) – il relativo file .pdf è in fondo all’articolo)] è massimamente esplicativa dell’errore in cui sono incorsi la Cei e il vescovo piceno.
Queste le parole di Aldo Antonelli, già parroco di Antrosano (L’Aquila): «Parlo e scrivo come credente e come prete, rivolgendomi a vescovi che non dovrebbero mai dimenticare la loro vocazione di “pastori” e, quindi, anche di “educatori”!
La crisi imposta dalla diffusione del Covid-19, con la chiusura delle chiese, avrebbe potuto essere l’occasione per una riflessione, da parte nostra, sulla deriva “ritualistica” della nostra fede che, messo in secondo piano il dovere della testimonianza, ha enfatizzato l’aspetto pratico della frequentazione liturgica: un’occasione preziosa per la riscoperta del Vangelo come vera Buona Novella, come messaggio di vita, da vivere laicamente, “fuori dal tempio”, così come inizialmente è stato presentato da Gesù e vissuto dai primi cristiani.
In questo tempo di chiese vuote avreste potuto ricordare ai cristiani che il loro compito non è quello di riempire le chiese, ma di rianimare un mondo. Era la raccomandazione che spesso facevo ai miei parrocchiani: “Si va in chiesa per poter essere lievito nel mondo; non si sta nel mondo per andare in chiesa!”.
I vescovi avrebbero potuto e dovuto ricordare al popolo cristiano che la Chiesa non è quella evidenziata dai riti e dalle processioni, ma quella significata da testimoni che sanno condividere in un mondo ove tutti accumulano; che in un mondo ove gli individualismi in conflitto lottano per prevalere, c’è una Chiesa che nella quotidianità sa farsi servizio, nella logica del dono di sé, della preoccupazione e della cura per l’altro. Invece no! I vescovi hanno voluto riportarci al passato. Imprigionare nella sacralità del rito ciò che il Maestro ci ha invitato a testimoniare nel profano».

Note

(*) – Il titolo è parafrasato dall’articolo pubblicato da “il Manifesto” martedì 28 aprile a firma di Andrea Colombo. La creatività dei titoli de “il Manifesto” è famosa: ironia, sarcasmo, sberleffo in una sintesi comprensibile e immediatamente memorizzabile.

(**) – «Quando lo scorso 8 marzo in un solo giorno i contagiati furono 1.300 e i morti 130, tutti iniziammo a capire cosa stesse accadendo. E davanti a quei numeri che ci sembravano (erano) un’enormità inaccettabile, iniziammo a chiedere, a volere, a pretendere zone rosse, chiusure, divieti e lockdown. Ieri, domenica 26 aprile, che i contagiati sono stati il doppio rispetto all’8 marzo (2.300) e i morti anche il doppio (260), ci sembra intollerabile non poter tornare al bar, nei ristoranti, nei negozi, andare a tagliare i capelli e poter uscire a piacimento. Ciò che ci è sembrato doveroso, e cioè chiudere tutto, quando i morti e i contagiati erano la metà, ci sembra invece una cattiveria gratuita di un politico brutto e cattivo ora che i contagiati e i morti sono il doppio. E tanto dovrebbe bastare a capire quanto l’istinto, in questo momento, stia prendendo il sopravvento sulla logica. Certo, qualcuno obietterà, allora quei numeri erano in aumento mentre ora sono in diminuzione. Ma sono in diminuzione proprio perché alle spalle abbiamo due mesi di lockdown. È stata la chiusura, il sacrificio di milioni di italiani a casa, ad aver permesso la diminuzione di quei numeri. Ma il virus non si ferma mica con la diminuzione. Il contagio può tornare a risalire a ritmi drammatici. Basta dargli ciò che vuole: contatti umani, incontri, affollamenti, una chiacchiera tra due amici che stanno benissimo, anche se uno dei due è contagioso e ancora non lo sa. Ieri Conte, da politico, avrebbe potuto fare ciò che politicamente era meglio per lui: dare agli italiani ciò che gli italiani bramano, esausti. La libertà. O almeno più libertà. Il suo gradimento, oggi al 66%, sarebbe schizzato all’80%. Ma ha preferito sacrificare la sua immagine. E nessuno che si chieda il perché. In questi mesi abbiamo visto politici che a prescindere dai fatti dicevano “aprite tutto” perché gli elettori volevano aprire tutto. Poi hanno urlato “chiudete tutto” perché gli elettori chiedevano di chiudere tutto. Ora riurlano “aprite tutto” perché gli elettori chiedono di aprire tutto. Ma Conte, evidentemente, negli italiani vede degli esseri umani da difendere, più che degli elettori da assecondare. E la gradualità, per quanto dura, è l’unica strada che può proteggerci anche da noi stessi. Per quanto “elettoralmente” non appagante. Perché un’altra impennata significherebbe un altro lockdown (a meno che non si consideri accettabile la morte di altre decine di migliaia di esseri umani e il collasso degli ospedali). E l’Italia un altro lockdown prima dell’arrivo del vaccino non può proprio permetterselo. Perché la crisi che stiamo affrontando ora sarà ricordata come un periodo d’oro rispetto a quella che potrebbe attenderci. E qualcuno non lo ha ancora capito. Emilio Mola (Da “Grande Sud”)».

(***)Motu proprio è una locuzione latina (tradotta letteralmente significa “di propria iniziativa”) che indica un documento, una nomina o in generale una decisione presa di “propria iniziativa” da chi ne ha il potere o la facoltà. Per antonomasia si intende un documento (decisione) del Papa che non è stato proposto da alcun organismo della Curia.

(****) Da “Le lettere di Corrado Augias” di oggi: La fede è testimonianza anche fuori dalle chiese. Repubblica 29 apr. 2020.pdf

2 Comments

2 Comments

  1. Tano Pirrone

    30 Aprile 2020 at 13:19

    La piccola restìa alla fine è nata, proprio mentre ne scrivevo.
    Si chiama Caterina.
    Alla piccola, ai genitori e ai nonni le felicitazioni mie e di tutta la Redazione

  2. Tano Pirrone

    30 Aprile 2020 at 17:43

    Nel pomeriggio di ieri, proprio mentre scrivevo l’articolo, è venuta alla luce la pupetta di cui aspettavamo la nascita. Stamattina ne ho avuto notizia: è nata Caterina, che si aggiunge ad Olivia, figlia di un’altra giovane coppia che abita nel palazzo, entrambe nate nella Fase 1 dell’italica pandemìa.
    Sta bene, l’ultima nata, e sta bene anche Olivia.
    Sono felici i genitori, siamo felici anche noi.
    Nascono i bimbi dell’Era Virale, bambine e bambini che prenderanno il mondo in mano fra qualche decennio. Il nostro impegno può essere uno solo: conservarlo nel migliore dei modi fino ad allora, facendo quanto meno danni possibili, perché almeno con loro ricominci una vera, completa rivoluzione.
    La Terra, gli alberi, gli animali non ci appartengono, sono soci, cointestatari con pari dignità: quello che ci appartiene, e ci accomuna, è la Vita.
    Teniamola di conto.
    Buona Vita, Caterina! Buona Vita, Olivia!

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