Ambiente e Natura

L’isola che abbiamo dimenticato: la Galite (9)

di Biagio Vitiello

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per l’ ottava puntata (leggi qui)

Dal libro L’ile de la Galite di Achille Vitiello

L’equipaggio del “Maria Annunziata”:
Antonio Vitiello, Agostino Mazella, Silverio Vitiello, Daniele Vitiello e Giovanni Mazzella

Storie come queste, d’inverno, i galitesi se le raccontano durante le veglie, storie che fanno venire la pelle d’oca e  fanno drizzare i capelli in testa, storie di folletti, di fantasmi, di animali soprannaturali, storie di luoghi da evitare, mentre cala la notte…

Prima della nostra partenza, questi fatti non si verificavano già da alcuni anni; quando sono tornato al lavoro, dal 1970 al 1982, sono andato dappertutto, sia di giorno che di notte, e non ho mai visto nulla. Da qualche anno, seguendo un programma televisivo sul Mediterraneo, penso d’aver trovato una spiegazione su queste visioni ed allucinazioni. Sembra che gli stessi eventi si verifichino nelle isole Eolie, in Sicilia. Le autorità italiane hanno studiato tali fenomeni ed hanno scoperto che i cereali non sufficientemente essiccati, ammuffiscono  e producono LSD. Per convincere questi isolani, hanno fatto mangiare a metà della popolazione, la farina prodotta da loro e all’altra metà la farina industriale. Solo coloro che avevano mangiato la propria farina, continuavano ad avere allucinazioni. A La Galita le allucinazioni sono cessate dopo la seconda guerra mondiale, quando la farina è stata acquistata a Biserta, anziché prodotta sul posto. Ciò detto, quanto rendono molto bella la notte le grida palpitanti del bimbo che piange sull’isola e che molta gente può sentire. Son solo le urla delle berte maggiori, gli uccelli marini che nidificano nei buchi della montagna della Guardia.

La pesca all’aragosta
Verso il 1930 la pesca al corallo viene praticamente abbandonata, a vantaggio della pesca all’aragosta. Può darsi che lì  i coralli siano diminuiti, ma sono soprattutto i marinai che non vogliono più imbarcarsi sulle “coralline”. La vendita [del corallo] avviene una volta l’anno e, nel frattempo,  sono obbligati a chiedere degli acconti al padrone, per poter vivere. Per cui è necessario che i padroni abbiano sufficienti riserve… Le aragoste, del resto, si vendono molto bene ed i pescatori vengono pagati ogni mese. I  grossisti di Biserta cominciano a provare interesse per questi crostacei di La Galita. Mentre il grosso della pesca viene  sempre importato dai velieri italiani, questi grossisti acquistano alcune centinaia di chili a viaggio, i loro bastimenti d’una decina di metri, fanno la spola tra Biserta e la Galita durante tutta la stagione di pesca. Tale commercio si sviluppa sempre di più, specie con la famiglia Sandolo, originari dell’isola di Ponza e che rimasero clienti fino al 1958. Ci sono ancora i Gallia, i Cross e infine un tunisino, Haj Bonmais. Una signora di origine corsa, Madame Grisoni, è in società con i grossisti. Fornisce molti aiuti finanziari per la costruzione delle barche da pesca, ma non lo fa con fini filantropici.

La tecnica delle nasse
La pesca delle aragoste a La Galita, si pratica con delle nasse in giunchi intrecciati in triangoli, coi lati da 4 a 5 centimetri ciascuno e cerchi di strisce di canna, larghe un centimetro. Le nasse sono fabbricate dai pescatori. Affinché  durino il più a lungo possibile, si fanno con giunchi pieni; orbene, sull’isola non ce ne sono. All’inizio c’erano dei velieri che portavano i giunchi dall’Italia. A partire dal 1935 vengono acquistati in Tunisia. E poi una volta l’anno, i pescatori partono alla volta di Cap Serrat a 24 miglia a sud est dell’isola, cioè a La Calle, in Algeria. E approfittano per raccogliere anche un po’ di giunchi.  Le barche ritornano cariche di giunchi verdi e pezzi di sughero, utili per fabbricare i galleggianti. Una volta secchi, i giunchi acquistano un bel colore giallo. Per quanto riguarda le canne, l’isola ne è piena; devono essere raccolte in un momento ben preciso della luna [ fase calante n. d. t. ] affinché non marciscano.

Fino al 1945, i pescatori fabbricano personalmente i cordami utili a tenere insieme le nasse  tra loro, così come la corda che le collega al galleggiante. Il diss (?), una pianta molto comune a La Galita, viene tagliata in inverno, seccata, poi battuta per farla ammorbidire e infine intrecciata per una lunghezza di cinquanta metri. Questo cordame si chiama u reste, perché tale tecnica proviene dal porto omonimo di pescatori della Sardegna.  Le nasse galitesi sono molto efficaci come attrezzi da pesca, molto di più delle nasse bretoni, le quali sono molto più fragili e durano un mese al massimo. Così all’inizio di stagione una barca deve avere almeno tre volte il numero di nasse [necessarie] da calare in acqua. Anche durante la stagione [di pesca] i pescatori continuano a fabbricarle e, siccome l’armamento appartiene a tutto l’equipaggio, tutti partecipano a fabbricare l’attrezzatura. Di conseguenza, i marinai sono la parte più importante della pesca.

Davanti alle nasse, M. e M.me Tchemiac, gli ultimi maestri,
con mia madre e mia sorella

Subito dopo la seconda guerra mondiale, le attrezzature sono ricavate a mano. A seconda delle dimensioni della barca, l’equipaggio cala in mare da cento a duecento nasse, a gruppi o “passi” di tre o quattro nasse a distanza d’una decina di metri [ l’uno dall’altro], gravati da una pietra d’una quindicina di chili e allacciati per circa cinquanta metri ad un galleggiante in superfice. Esso è composto da piastre di sughero poroso  a forma di barilotto (i pannlune ). I galleggianti devono essere messi ad asciugare spesso perché, impregnati d’acqua, affondano.

I gruppi di nasse vengono calati a due a due per guadagnare tempo. Due uomini tirano un gruppo di nasse nella parte anteriore della barca e altri due nel lato posteriore. Le nasse sono calate e tirate tutto il giorno. Siccome occorrono un centinaio di nasse per catturare  circa trenta chili di pesci, i pescatori calano le nasse a pesci e le reti, unicamente per quelli. Così da maggio a settembre, tutti i pesci pescati sono tagliati e salati per farne esche. Questo problema si attenua dopo la seconda guerra mondiale, con la venuta di numerose barche dalla Sicilia per la pesca con le lampare (a La Galite ci saranno oltre cento lampare siciliane ). I siciliani barattano pesci difficili da vendere: boghe, severeaux, allasches per un po’ d’uva, fichi e fichidindia.

Verso il 1948, sulle barche si cominciano a installare i verricelli. Delle gru con una ruota a raggi su un braccio. A quel punto, i gruppi di nasse si trasformano in filiere da 25 e la quantità di nasse sulle barche si moltiplica per due, con un numero massimo di 400. Negli anni ’50 la parte spettante a un marinaio, si aggira tra i 300.000 e i 400.000 franchi dell’epoca.

Bisogna notare che la mostella (Musdea – Phycis phycis  n. d. t. ) non è utilizzata come esca. Aperta in due, eviscerata, salata e messa a essiccare, viene preparata come il baccalà, al quale somiglia. Al termine della stagione di pesca, tutti i membri dell’equipaggio si spartiscono i pesci per consumarli durante l’inverno quando, per il cattivo tempo, la pesca dagli scogli è impossibile.

[L’ile de la Galite (nona puntata) – Continua]

24 aprile
Sandro Russo risponde al Commento di Silverio Lamonica (Cfr) sulla tossicologia di cereali parassitati dal fungo.
La precisazione non può essere posta in Commenti per il fatto che contiene immagini.

LSD. Tra le sostanze allucinogene derivate dalle piante bisogna includere a rigore anche la più famosa: il mitico LSD (dietilamide dell’acido lisergico), una delle sostanze allucinogene più potenti che si conoscano. Le sue proprietà furono scoperte accidentalmente da Albert Hofmann, un chimico dei laboratori Sandoz, che dal 1938 andava conducendo esperimenti su un fungo parassita dei cereali di cui aveva isolato uno dei principi attivi, l’acido lisergico.

                      

Pannocchia di granturco e spighe di segale infestate da un fungo parassita: le piante prendono un aspetto nerastro. La segale in particolare presenta delle protuberanze nere per cui viene denominata segale cornuta. Dal fungo (Claviceps purpurea)è stato isolato l’acido lisergico, sostanza base per la sintesi dell’LSD

All’ingestione di cereali contaminati dal fungo erano state attribuite in passato le epidemie di ergotismo (da ergot: il nome popolare del fungo parassita), che si manifestavano con vari sintomi: gangrena agli arti, crampi e convulsioni e anche con visioni e alterazioni della coscienza, alle quali nel Medioevo venivano date spiegazioni soprannaturali. Secondo una ipotesi formulata alla luce delle conoscenze successive, anche la follia e lo stato visionario delle donne sottoposte ai processi per stregoneria (Cfr. ‘Le Streghe di Salem’) potevano essere ricondotte ad una patologia tossica di questo tipo, in un’epoca in cui l’alimentazione prevalente era a base di cereali.

Un paziente in stato avanzato di ergotismo, da un dettaglio da: Le Tentazioni di Sant’Antonio, dipinto di Matthias Grünewald realizzato fra il 1512 e il 1516

Personalmente non ritengo che nelle frequenti visioni di Munacielli o Pelliccioni fosse in causa l’ergotismo – che quando si manifestava nella sua forma più completa era una malattia grave, con segni e sintomi di rilievo – quanto piuttosto la credulità e il potere di suggestione che il “soprannaturale” ha sempre esercitato sulla gente.

3 Comments

3 Comments

  1. silverio lamonica1

    23 Aprile 2020 at 21:23

    L’autore all’inizio di questa puntata, riferisce “allucinazioni” che si verificavano a La Galite e non solo. Anche a Ponza, apparizioni strane venivano raccontate, tipica è quella d’u Munaciello.
    Quando avevo una decina d’anni bazzicavo, assieme ai miei fratelli, la casa di Zia Matilde a Frontone e anche in quel villaggio, qualcuno riferiva di vedere sempre ‘U Pelliccione. Anche lì, fino all’immediato dopoguerra, si faceva il pane con la farina di grano prodotta nelle “catene” (i terrazzamenti con muri a secco) e poi macinata con la pietra lavica. Era un pane squisitissimo, quello prodotto da Zia Matilde e Zio Antonio (Mazzella, nonni della professoressa Ennia), un sapore davvero prelibato che ancora ricordo e che non ho mai più gustato. Eppure di “Munacielli” o “Pelliccioni” non ne ho mai visti, nemmeno l’ombra. Forse la farina cotta al forno eliminava certi “microbi”. Chissà.
    Ma a questo punto mi aspetterei un autorevole commento da parte di un esperto; a portata di mano, su questo sito, non mancano, anche perché l’autore fa riferimento all’LSD che si produrrebbe nelle muffe delle granaglie non sufficientemente essiccate. Cosa da non prendere sottogamba!

  2. Sandro Russo

    24 Aprile 2020 at 09:53

    Rispondo al Commento di Silverio Lamonica (Cfr) sulla tossicologia di cereali parassitati dal fungo.
    La precisazione non può essere posta in Commenti per il fatto che contiene immagini (il tutto allegato all’articolo di base)

  3. silverio lamonica1

    29 Giugno 2020 at 16:21

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